Il report del WACKEN 2022

Eravamo riusciti ad andare al Wacken per la prima volta nel 2019, dopo averlo sognato sin da ragazzini. Io ci avevo anche provato una volta ma non era andata benissimo, come ho raccontato nello scorso report. Ci eravamo ripromessi di tornarci anche negli anni successivi, poi è successo quel che è successo, quindi abbiamo ammazzato il tempo sposandoci e riproducendoci. E così, quando è stata annunciata l’edizione 2022, abbiamo tirato fuori i battle vest e ci siamo preparati per ritornare.

MERCOLEDÌ 3 AGOSTO

Dell’organizzazione del Wacken e di come esso è strutturato ho già profusamente parlato la volta scorsa, quindi salto tutta quella parte e inizio dal nostro arrivo al festival, quando entriamo nell’enorme area denominata Holy Ground (quella che contiene palchi, stand, attrazioni, mercatini e varie attività) e ci fiondiamo a soddisfare l’esigenza più pressante, ovvero mangiare. Girovagando passiamo davanti al palco dove si stanno esibendo le IRON MAIDENS, il gruppo cover dei Maiden al femminile, che rimangono di sottofondo mentre ci orientiamo tra le novità di questo Wacken. Il cambiamento più evidente è che i palchi Headbangers e WET non sono più coperti e sono stati affiancati in modo da funzionare alternati: finisce uno, inizia l’altro. Le altre novità sono in qualche modo minori; tra queste: non c’è più il supermercato, sostituito da un mercatino all’aperto (il Farmers Market) in cui è possibile trovare non solo cibo mediamente più salutare ma anche le lattine di birra a meno di due euro. Nel frattempo le donzelle californiane continuano a macinare cavalli di battaglia dei Maiden con la scaletta che tutti noi vorremmo facessero gli Iron Maiden originali. La resa non è neanche malvagia, e 22 Acacia Avenue mi dà il primo timido accenno di fomento dell’intero festival. Alla fine la nostra ricerca di cibo si conclude con uno scontato ma efficace panino col bratwurst che ci dà la forza sufficiente per affrontare la prima serata.

Epica

Mia moglie è una donna, quindi è molto affezionata agli EPICA o quantomeno ai loro primi album; e, dato che il mercoledì è una giornata un po’ così, non trovo niente di meglio da fare che accompagnarla. Rimaniamo una mezz’oretta a guardare Simone Simons e compari che suonano alcuni pezzi che a me sembrano tutti stilisticamente uguali e ugualmente moscissimi, meravigliandomi di mia moglie che si esalta a sprazzi riconoscendo i pezzi dei primi dischi che, a suo dire, sarebbero tutt’altra cosa rispetto a quelli più recenti. Io non saprei davvero citare alcuna differenza quantitativa e qualitativa, ma immagino che a parti invertite succederebbe la stessa cosa se la portassi a vedere, non so, i Morbid Angel.

Siamo stanchissimi per il viaggio (e anche per il fatto che da una decina di mesi il nostro adorabile e grasso erede al soglio imperiale di Costantinopoli non ci fa esattamente dormire il sonno dei giusti), quindi quando finiscono andiamo a riposarci un po’ in area stampa e incontriamo Jesus, messicano trapiantato a Salisburgo, venuto al Wacken da solo allo scopo di fare un po’ di pubbliche relazioni per il suo gruppo, i People as Machines, che invito tutti ad ascoltare non perché io li abbia mai ascoltati ma perché Jesus è molto simpatico. Se vivete a Milano andate a vederli il 27 al Legend Club, magari ci prendiamo una birra tutti insieme. Insomma chiacchieriamo, cazzeggiamo, ci prendiamo un’altra birra ma poi verso le 10 ritorniamo dentro perché stanno per cominciare gli AVANTASIA, headliner della giornata. Qui farei una digressione per farvi capire che razza di potenza di fuoco ha l’organizzazione del Wacken. Originariamente l’headliner sarebbe dovuto essere Till Lindemann, che però a circa un mese dall’inizio ha cancellato la partecipazione; trovatisi in una situazione che avrebbe ridotto praticamente chiunque altro in braghe di tela, qui invece gli organizzatori hanno annunciato subito un altro headliner, e cioè i suddetti Avantasia, che peraltro sono uno dei gruppi meno semplici da chiamare all’ultimo momento, visto che non sono esattamente un power trio.

Avantasia

Stasera i cantanti ospiti sono Ralf Scheepers (Primal Fear), Bob Catley (Magnum), Ronnie Atkins (Pretty Maids), Eric Martin (Mr. Big) e Jorn Lande (Ark, Masterplan etc). Organizzare una roba del genere in meno di un mese sembrerebbe fuori di testa, eppure è tutto riuscito alla perfezione. Gli Avantasia suonano due ore coinvolgendo tutto il pubblico tedesco, che tendenzialmente li adora (il power metal lì continua ad andare alla grande, seppur nella sua accezione crucca), e sciorinano pezzi da tutta la loro discografia, con addirittura quattro estratti dal primo disco (Reach Out for the Light, Avantasia, Sign of the Cross e Farewell) e poi The Scarecrow, Book of Shallows, Mystery of a Blood Red Rose eccetera. Tobias ce la mette tutta, e stasera sembrerebbe anche più in palla del solito, ma purtroppo la voce quella è. Invece Ralf Scheepers è in formissima, e non solo per i suoi possenti bicipiti. Dal canto suo Ronnie Atkins lavora di mestiere, sfornando una prestazione dignitosissima. Un po’ di straniamento invece per gli altri due ospiti, davvero parecchio incartapecoriti: Bob Catley sembra il nonnino buono dei film mentre Eric Martin proprio non ce la fa più, tra attacchi sbagliati, voce che va e viene e un volto talmente ritoccato da sembrare Ilary Blasi. Sta a Sammet portare avanti la baracca con tutta la sua abilità da intrattenitore, e la chiusura con Lost in Space seguita dal medley Sign of the Cross/The Seven Angels è talmente commovente che sarebbe riuscita a sciogliere pure Michele Romani ibernato in un iceberg. È mezzanotte, il primo giorno è finito e noi andiamo in pace.

GIOVEDÌ 4 AGOSTO

Corvus Corax

La mattina del giovedì devo affrontare le terribili conseguenze del cibo cinese preso il giorno prima. La colpa in realtà non era del cibo cinese in sé ma della cucchiaiata di salsa piccante che mi ero improvvidamente fatto versare sopra, incurante di mia moglie che, conoscendo i miei problemi col piccante e la qualità del cibo tedesco, mi ripeteva “ma sei proprio sicuro?”. Ad ogni modo non riusciamo ad arrivare in tempo per gli adorabili zumpettoni RELIQUIAE e così iniziamo la giornata col concerto degli altri adorabili zumpettoni CORVUS CORAX, che non sono gli statunitensi autori del bellissimo The Atavistic Triad ma un gruppo tetesco di folk medievale con alle spalle più di trent’anni di carriera e diciassette dischi, di cui solo l’ultimo, Era Metallum, è classificabile come metal, essendo una riproposizione di vecchi pezzi in chiave metal, appunto. Coi Corvus Corax inauguriamo la parte più squisitamente crauti & salsicce del festival, che vedrà poi autorevoli esponenti nei giorni seguenti. Qui vediamo per la prima volta alcuni astanti che si affannano nella deplorevole pratica del vogare, che implica il sedersi per terra in gruppo e mimare l’equipaggio di una galera che, appunto, voga a tempo. Trovo questa pratica estremamente poco metal e soprattutto molto CRINGE, come direbbero i giovani d’oggi, ma vabbè. Un altro elemento di disagio è il tempo, che è caldissimo e umido da stare male. Il meteo minacciava temporali e disastri e invece sembra di stare alle Barbados.

Gente che voga

Alla fine dei Corvus Corax ritorniamo a collassare in area stampa cercando uno spicchio d’ombra e incontriamo Josè, qui per conto di Noche de Rock, possente blog e programma radio che invito tutti voi a leggere e ascoltare anche se non conoscete lo spagnolo perché Josè è molto simpatico. Mentre siamo lì aprono i due palchi grandi (Faster e Harder) e sentiamo più o meno tutta l’esibizione degli SKYLINE, i più grandi miracolati della storia del metal. Ne avevo già parlato nel precedente report: la fortuna di questi tizi è stata suonare nella primissima edizione del Wacken, 33 anni fa, e da allora li fanno suonare ogni anno tenendoseli come portafortuna e facendogli addirittura inaugurare il palco grande insieme a ospiti di rilievo chiamati dall’organizzazione (l’altra volta c’era Doro Pesch, che a voi sembrerà un nome di secondo piano ma che in Germania è un’eroina nazionale di cui al Wacken c’è pure una gigantografia vicino a quelle di Lemmy, Angus Young e gente del genere). Tutto questo nonostante siano una cover band di grana grossa nel cui repertorio ha roba tipo i Linkin Park. A un certo punto gli fu anche chiesto di scrivere un inno del Wacken, che se fosse stato anche appena decente sarebbe potuta essere una cosa coi quali diritti d’autore avrebbero potuto campare per sempre, e quelli se ne uscirono con la tremenda This is WOA, che non solo ha la parte rappata nella strofa ma che nel ritornello non cita il Wacken ma proprio la sigla Dabliu O Ei, che non ho mai sentito nessuno riferirsi al Wacken in questo modo.

Cirith Ungol

Quando gli Skyline finiscono la loro pregiata scaletta di cover da pub di provincia mi fiondo nelle prime file per i CIRITH UNGOL, che sebbene suonino alle quattro di pomeriggio con un caldo asfissiante fanno scendere un’atmosfera oscura da vecchia emeroteca specializzata in Weird Tales. Arrivo tranquillamente nelle primissime file perché non c’è troppa gente (un po’ per l’orario un po’ perché probabilmente sono tutti a vedere gli Hamatom che suonano in contemporanea) ma insieme a me ci sono i true believers. In particolare un tizio piuttosto inquietante con il gilet di jeans completamente dedicato a GG Allin e con pure tatuato SCUMFUCK sulla spalla destra, che da un momento all’altro mi aspetto che faccia qualcosa di terribilmente sconveniente in linea col suo defunto e pazzissimo idolo. Fortunatamente rimane più o meno tranquillo per tutto il tempo, così riesco a godermi il concerto nonostante la vicinanza con il suddetto personaggio.

Grave Digger con tutta la cumpa

Alla fine del concerto vengo raggiunto dalla mia dolce metà che era andata in giro per bancarelle e ci spostiamo al palco affianco per i GRAVE DIGGER, per i quali riusciamo a stare abbastanza davanti nonostante come prevedibile si crei il pienone. Il gruppo di Chris Boltendahl è popolarissimo tra i metallari tedeschi e, per ricambiare l’effetto, loro preparano un concerto da grande occasione. L’esibizione è infatti inaugurata da decine di zampognari e percussionisti vestiti in kilt che suonano The Brave e rimangono poi lì per tutta la durata del concerto, affollando il palco all’inverosimile. Praticamente stiamo più larghi noi tra le prime file che loro. L’attacco vero e proprio è The Dark of the Sun, che subito mi fa accorgere di due dettagli: il primo è il disagio di un secondo cantante (incaricato degli acuti, visto che Chris non ce la fa più) che dato il poco spazio sul palco è letteralmente schiacciato dietro alla batteria, tanto che all’inizio avevo pensato che fosse un roadie incaricato di tenere fermo il seggiolino, tipo come succedeva a Joey Jordison dei vecchi tempi. Poi i possenti pettorali del chitarrista Axel Ritt, che di suo non è particolarmente pompato ma che in palestra sembra dare particolare attenzione ai pettorali, tanto che mia moglie avanza un coraggioso parallelismo con Edo, storico inviato di Striscia la Notizia. A un certo punto alcuni tizi davanti a noi si girano e iniziano a chiamare a gran voce tale Roman: dopo vari minuti di richiami incessanti Roman arriva e si piazza davanti a noi, e ovviamente è alto quattro metri e mezzo. Tacci tua, Roman. Concerto comunque spettacolare: loro si sentono evidentemente a proprio agio sul palco del Wacken e quindi gran profluvio di sorrisi e virtuali abbracci alla folla. La presenza di tutti quei musicisti alle loro spalle è un po’ straniante, dato che per la maggior parte del tempo stanno lì interdetti senza far niente, ondeggiando timidamente e guardandosi imbarazzati, sembrando più la banda di paese che altro. La conclusione con Heavy Metal Breakdown è cantata da tutto il pubblico e mi fa pensare che potrebbe essere un’ottima candidata a inno ufficiale della manifestazione: certo, non c’è la parola Wacken, ma quantomeno non dicono neanche Dabliu O Ei.

Udo Dirkschneider

Alla fine dei Grave Digger abbiamo un paio d’ore senza particolari gruppi da vedere e quindi ci guardiamo un po’ intorno. A un certo punto arriva una notifica dall’app del Wacken che ci comunica che i misteriosi Guardians of Asgaard, programmati per il pomeriggio, altri non sarebbero che gli AMON AMARTH, che suonano un breve concerto a sorpresa per la gioia dei tantissimi fan presenti. Noi non siamo tra questi, quindi facciamo un giro durante il quale incrociamo UDO DIRKSCHNEIDER e PESTILENCE, di cui sentiamo uno-due pezzi mentre decidiamo con quale prelibatezza tetesca alimentarci e cerchiamo di trovare una toppa con una stampa decente della copertina di Somewhere Far Beyond da mettere sul mio gilet da battaglia.

Mercyful Fate

Per me e la mia compagna di merende è arrivata l’ora di separarci per un’oretta: lei non ha mai visto i KAMPFAR e vuole rimediare, mentre io voglio assolutamente tornare al palco grande a vedere i MERCYFUL FATE, perché non li ho mai visti e ciò non è ammissibile. Mi vado quindi a piazzare tra le prime file con qualche minuto di anticipo e lì rimango per più di un’ora. Che concertone, amici e fratelli del vero metal. Lui è un animale da palcoscenico, uno dei più magnetici mai visti, sia nelle movenze che nelle espressioni facciali: gli altri sono come al solito vestiti in modo normale, ma lui da solo riesce a reggere perfettamente tutta l’atmosfera teatrale. Sale sul palco con un’enorme maschera da caprone, che mantiene per due canzoni per poi toglierla e indossare una grossa corona nera che ricorda quella dei Nazgul della versione cinematografica, rimanendo sempre credibilissimo. Suonano solo pezzi vecchi, saccheggiando Melissa, Don’t Break the Oath e il mini omonimo, con l’unica eccezione di The Jackal of Salzburg, canzone nuova e non ancora incisa su disco. Purtroppo non fanno Gypsy, la mia preferita, ma per il resto mi devo ripetere: concertone incredibile. Niente da dire sui musicisti, da Shermann al nuovo acquisto Joey Vera, ché i superlativi assoluti alla fine scocciano.

Alla fine mi ricongiungo con la mia metà (assai contenta dell’esibizione dei Kampfar, come le avevo assicurato) e andiamo a vedere i ROTTING CHRIST, gruppo a noi molto caro. L’orario è perfetto, perché sono ormai quasi le dieci di sera, e l’attacco con ΧΞΣ è di quelli che creerebbero atmosfera luciferina anche in un discopub di Ibiza. Purtroppo però il resto del concerto non si rivela all’altezza delle aspettative, e ciò solo in parte per le mancanze della resa sonora. Il problema vero è che credo che Sakis abbia perso il contatto con ciò che funziona davvero dal vivo. Gli estratti dagli ultimissimi album, composti interamente in digitale davanti a un computer e praticamente senza un riff che sia uno, hanno una certa resa ascoltati a casa, al buio, da soli etc, ma non sono la stessa cosa se riproposti al Wacken di fronte a un pubblico di metallari teteschi sbronzi con il gilet pieno di toppe dei Grave Digger. E invece qui la scaletta era composta così: due pezzi vecchi (Fgmenth, thy Gift e King of a Stellar War), otto pezzi dagli ultimi tre album e la solita incomprensibile cover dei Thou Art Lord. Più nello specifico, è davvero necessario incaponirsi a suonare pezzi come Elthè Kirie, strutturato tutto su una parte parlata che dal vivo è ovviamente riproducibile solo tramite campionamento, oppure Apaghe Satana, un lungo intermezzo di quasi quattro minuti spacciato come canzone che però a Sakis piace talmente tanto da averci fatto persino un video? Sakis, dai, hai scritto innumerevoli capolavori assurdi nella tua vita e devi buttare via quattro minuti a suonare ‘sta roba?

Queste saranno però osservazioni che faremo più tardi, a freddo, perché lì per lì rimaniamo invece abbastanza soddisfatti: sarà la stanchezza, sarà l’esaltazione di aver rivisto uno dei nostri gruppi della vita dopo due anni di pandemie, confinamenti, tamponi dentro al naso e tante, tante, tante, tante bestemmie. Siamo comunque fisicamente distrutti e imbocchiamo la via di casa. Sulla strada del ritorno dobbiamo passare davanti al palco su cui stanno suonando i JUDAS PRIEST e Carlotta mi chiede se voglio fermarmi a guardarli. Stanno suonando The Sentinel, la mia preferita. Per un istante ci penso davvero, ma mi basta sentire la voce gracchiante di Rob Halford, guardarlo incespicare curvo verso i megaschermi per sbirciare testi che non riesce più a ricordare, e soprattutto guardare due tizi alle chitarre che non sono Tipton e Downing per farmi passare qualsiasi voglia. Questi non sono i Judas Priest. Li avevo visti al Gods del 2001 con Ripper Owens alla voce e quelli erano sicuramente più Judas Priest di questi qua. Mentre prendiamo le nostre cose al guardaroba sentiamo un pezzo di Touch of Evil e mi si stringe il cuore. Capisco le bollette, il mutuo, la voglia che i vecchi hanno di sentirsi ancora utili e apprezzati, però dai. Spero di riuscire a cancellare questi imbarazzanti momenti dalla mia mente, perché la storia dei Judas Priest non merita di essere associata a tutto ciò.

VENERDÌ 5 AGOSTO

Il venerdì è la giornata più piena di tutte. Praticamente ci sono più cose da vedere nella sola giornata di oggi che in tutte le altre tre messe insieme, o quasi. La mattina però si apre con un uccellino che prima inizia a sbattere contro i vetri della nostra stanza d’albergo e poi ci si infila dentro, trovando un pertugio. Ci fiondiamo verso le finestre per aprirgliele in modo che possa uscire, ma la povera bestiola è nel panico e quindi prende una craniata pazzesca contro un vetro, rimanendo per terra un paio di minuti e facendoci temere che sia morto. Stavo già prendendo un asciugamani per avvolgerlo e portarlo via quando d’improvviso quello si rianima e si riscaraventa contro il vetro, prendendo un’altra craniata. Vabbè, ora sarà morto sicuro. E invece l’uccellino sembra avere più vite di Berlusconi, quindi risorge nuovamente e, al terzo tentativo, riesce a uscire.

Temiamo che tutto ciò possa essere di cattivo auspicio, ma in realtà alla fine andrà tutto bene. A cominciare dai FREEDOM CALL, che suonano alle 14 davanti a un pubblico che canta gran parte dei pezzi a memoria con un enorme sorriso stampato in faccia. Sorridono tutti, tranne quelli che sono già troppo ubriachi per capire esattamente dove si trovano. Chris Bay sembra un sacerdote del Bene e saluta il pubblico con un raise your hands for peace, love & harmony. Per capire di cosa stiamo parlando, a un certo punto c’è stato il crowdsurfing da parte di un bambino di dieci anni, i cui genitori hanno evidentemente pensato che l’unico pubblico in grado di trasportare il proprio figlio in tutta sicurezza fosse quello dei Freedom Call. E hanno avuto ragione, dato che il ragazzino viene passato di mano in mano con estrema delicatezza. Un giorno anche il piccolo erede porfirogenito di Costantinopoli farà crowdsurfing coi Freedom Call. Sul concerto nulla da dire, perché loro non deludono mai.

Dopo tre quarti d’ora di happy metal da aquagym ci viene ovviamente fame e quindi andiamo a procacciarci qualche grosso pezzo di maiale speziato alla brace dalle parti del Wackinger Stage, da cui a un certo punto sento partire Symphony of Life degli Avantasia. Che strano che questi facciano una cover degli Avantasia, mi dico. Aguzzo gli occhi e mi accorgo che è il gruppo di Sascha Paeth, i MASTERS OF CEREMONY. Molti di voi lo sapranno già, ma lo specifico comunque: Sascha Paeth è il chitarrista e produttore degli Avantasia, nonché figura fondamentale e monumentale per il power metal di fine anni Novanta, avendo scoperto e prodotto una quantità di gente tra cui Rhapsody, Angra eccetera, ed è anche stato leader degli Heaven’s Gate, gruppone della madonna che ha raccolto un decimo di quanto avrebbe dovuto. Non ho molti elementi per giudicare questo suo ultimo gruppo, che però è quantomeno un ottimo sottofondo mentre mangio il mio spiedino tetesco.

At The Gates

Dopodiché mi dirigo verso gli STRATOVARIUS, perché è la cosa giusta da fare. Mi godo qualche cavallo di battaglia tra cui Black Diamond e Paradise, canto qualche coro con la birra al cielo e mi diverto come un sedicenne. Credo che gli Stratovarius siano così divertenti dal vivo perché danno l’impressione di conoscere perfettamente il proprio ruolo, i propri limiti e come sono cambiati i tempi. L’unica nota stonata è quando Kotipelto presenta Jens Johansson dicendo che è nel gruppo dal 1998, mentre invece è lì dai tempi di Episode, quindi due anni prima. Dopo Hunting High & Low mi sposto al palco degli AT THE GATES, che fanno tutto Slaughter of the Soul. Anche qui poco da dire: loro sono ormai rodatissimi e fanno un concerto molto professionale, con gran profluvio di sorrisi e allegria, il che però stona decisamente con l’atmosfera disperante dei vecchi album. Impossibile comunque non menzionare l’incredibile crescita adiposa di Tompa, che d’ora in poi verrà chiamato Tompanza.

Hypocrisy

Mi ricongiungo quindi con l’altra metà del mio cielo, che nell’ultima oretta era andata a curiosare tra bancarelle incrociando i simpatici zumpettoni O’REILLYS AND THE PADDYHATS (giudizio muliebre: carini) e ci dirigiamo verso gli HYPOCRISY, presentati nel cartellone con la frase destroys Wacken again per richiamare lo storico, splendido live album di oltre vent’anni fa. Invece grossa delusione, perché la scaletta è basata su pezzi nuovi o seminuovi di cui sinceramente non mi importa moltissimo. Chiedo a Carlotta: “Non trovi che Peter Tagtgren assomigli a Johnny Depp?” e lei mi risponde: “Un incrocio tra Johnny Depp e Christopher Walken”. Non so come abbia fatto a non accorgermene prima. Però ora anche basta, che i dischi nuovi degli Hypocrisy forse non li ha sentiti due volte neanche Belardi.

Giriamo e rigiriamo e capitiamo a fare la fila per una frittella ungherese con lo zucchero mentre davanti a noi stanno suonando i WIND ROSE, italianissimi cosplayer dei nani (quelli tolkieniani, non quelli vestiti di rosso che parlano al contrario) che asseriscono di fare dwarf metal o qualcosa del genere. Sono effettivamente molto divertenti da sentire mentre fai la fila per la frittella. Suonano quel pezzo che fa I am a dwarf and I’m digging a hole – diggy diggy hole – diggy diggy hole, io sono già abbastanza sbronzo e mentre camminiamo prendo a cantarla a squarciagola per qualche minuto anche quando siamo già lontani dal palco. La gente sembra conoscerla perché canta insieme a me.

Avete presente i SOEN? Sembra piacciano a tutti. Ne sento parlare da chiunque, in giro ci sono parecchie magliette e pure mia moglie, che li ha sentiti durante la preparazione per il Wacken, è curiosissima. Quando inizia a parlarmene la guardo strano. Anche Josè non vede l’ora di vederli, eppure dai discorsi mi è sembrato uno orientato al thrash metal. Da quello che ho sentito non mi pare gruppo da Wacken, mi sembra una roba tipo i Nargaroth che suonano all’Agglutination quando la loro dimensione classica è la cantina in cui andai a vederli con Ciccio anni fa. La dimensione dei Soen mi sembra più, boh, il Traffic, una di quelle seratine tranquille con i Klimt 1918 di spalla che ti fai due birre, te li senti appoggiato al muro e poi torni a casa ascoltando Brave Murder Day. Mi mancano quelle serate, mannaggia. Invece qui sei al Wacken alle 8 di sera all’aperto, che c’è ancora il sole del Nord alto nel cielo, di fronte a una falange di metallari tedeschi con le toppe dei Grave Digger sulla giacca e lo spiedino di maiale in mano. Andiamo a sentirli, mi pare non più di una mezz’oretta, e alla gente piacciono. Anche a mia moglie. Dobbiamo andare a vederli assolutamente quando vengono a Milano, mi ripete un paio di volte. Le rispondo che sì, magari in quel contesto riuscirei anche a godermeli meglio anche io, perché per come la vedo io i Soen al Wacken sono come i Mad Season al Jova Beach Party. Però mannaggia, dobbiamo andarcene presto da qua, perché tra poco suonano gli IN EXTREMO.

In Extremo

Questo per me era il Wacken degli In Extremo. Loro li scoprii con Villeman og Magnhild sulla compilation di Psycho ai tempi di Weckt die Toten!, e rimasi poi folgorato dalla versione fatta sul live Raue Spree di ormai tanti anni fa. Qui al Wacken immaginavo che avrebbero tirato fuori l’artiglieria pesante e, dato che cade anche il venticinquennale, supponevo che sarebbe stata un’esperienza incredibile. Tanto il fomento che pecco di eccesso di foga: trascino la mia povera dolce metà nelle primissime file per goderci meglio il concerto finendo però per rimanere incastrati nel centro della calca sottopalco, tra ursidi teutoni e cerchi di pogo che si formano e si dissolvono intorno a noi come le trombe d’aria del film Twister. Abbiamo passato buona parte del concerto di spalle al palco perché eravamo nello snodo principale del crowdsurfing e quindi ne arrivava uno ogni venti secondi. C’era talmente tanta gente che se ti giravi non capivi dove finisse. Sapevo che gli In Extremo avessero una certa fama in Germania, ma non immaginavo così tanta. La cosa assurda era la densità di gente: ero più o meno nella stessa posizione per Cirith Ungol, Grave Digger e Mercyful Fate, per dirne tre, ma lì si stava larghi. Qua sembra di stare appiccicati che manco alla battaglia di Adrianopoli e anche qui, come ad Adrianopoli, sei completamente circondato da bestioni germanici che non capisci perché si siano accalcati tutti lì in quel punto. Io sono quasi uno e novanta ma a un certo punto mi sono girato ed ero il più basso lì in mezzo. Non mi era mai capitato in vita mia. La mia povera moglie ogni tanto mi mandava degli sguardi di terrore puro, poveraccia. Io le ripetevo non preoccuparti, moglie mia, io non permetterò che ti accada alcun male e simili battute da fotoromanzo di cappa e spada. In tutto questo non ci godiamo granché il concerto e a stento mi ricordo che pezzi hanno fatto. Di sicuro però non hanno fatto né Villeman og Magnhild, né Herr Mannelig, né Omnia Sol Temperat né alcuno degli altri pezzi che speravo facessero. Hanno però fatto Sternhagelvoll e in qualche modo la calca si è aperta perché i tedeschi quando sentono i canti da osteria devono assolutamente comportarsi come se fossero in osteria, quindi abbracciarsi e cantare dondolando, in barba anche alle leggi della fisica. Appena torno a casa mi devo riguardare il DVD di Raue Spree.

Quando il concerto finisce veniamo risucchiati fuori dal casino e torniamo nell’area stampa a riposare le nostre incredibilmente non rotte membra. Siamo arrivati al grande dilemma del Wacken 2022: guardare i Tiamat o i Moonspell? Per qualche motivo infatti i due gruppi suonano contemporaneamente, il che è molto strano visto che il loro pubblico immagino sia lo stesso. Che fai, scegli di andare solo da uno dei due oppure fai la spola, rischiando però di perderti i pezzi belli da una parte e dall’altra? Grandi bestemmie che vi lascio immaginare. L’unica cosa positiva è che non ci sarà troppa gente, perché sul palco grande suonano gli Slipknot che attirano una folla che in confronto quella degli In Extremo era un torneo di burraco. Alla fine però giungo alla mia decisione: andiamo dai TIAMAT, ché non li ho mai visti. Ed è stata la giusta decisione: il cielo è buio, il clima è freddo e Johan Edlund rifà quasi tutto Wildhoney e mezzo Clouds. Lui sembra un crooner devastato nel corpo e nello spirito, con una mezza smorfia di disgusto fissa in faccia e la voce modulata bassa e sfuggente. Punta il telefono sulla folla e dice mettetevi in posa, che faccio una foto per mia moglie, e io penso alla fidanzata che lo lasciò e lui ci rimase talmente di sotto da scrivere A Deeper Kind of Slumber. “Siete tantissimi, non me lo aspettavo”, dice a un certo punto con un ghigno sardonico. “Potevate scegliere di andare a vedere i Moonspell, gli Slipknot o Phil Campbell, invece siete qui. Non vi capisco, ma vi rispetto”. Adorabile umorismo nero da depresso cronico. A malincuore ci perdiamo l’ultimo paio di pezzi perché mia moglie vuole legittimamente non perdersi Alma Mater in coda alla scaletta dei MOONSPELL. Arriviamo quindi di là e dopo qualche battuta di Mephisto parte Alma Mater, seguita poi dalla conclusiva Full Moon Madness. L’approccio di Fernando Ribeiro è speculare a quello di Edlund: da una parte il machismo mediterraneo col petto villoso, dall’altro i solchi dell’alcol che deformano l’espressione facciale. Stasera vince la potenza devastatrice dell’alcol: Whatever that Hurts con un Edlund così mi ha stretto il cuore.

Halo Effect

Giornata lunghissima, tante emozioni, tanto freddo la sera, siamo distrutti. Vogliamo solo collassare dieci minuti in area stampa e poi andare a dormire. Sulla via del ritorno becchiamo l’ultimo pezzo degli SLIPKNOT, cioè Surfacing. Un’oretta prima invece avevamo beccato Wait and Bleed. Nient’altro ho sentito degli headliner assoluti della manifestazione, che però ci vengono ampiamente magnificati da Jesus, che piomba nell’area stampa col sangue agli occhi mentre noi ci stavamo fondendo con le poltroncine. È uno dei suoi gruppi più cari, uno dei primi gruppi metal che ha ascoltato, eccetera. Rimaniamo un po’ a parlare e ci raggiunge anche Josè, che non ricordo da dove stesse venendo ma non credo dagli Slipknot. Continuiamo a chiacchierare, una cazzata tira l’altra, si fa una certa e così ci guardiamo in faccia e ci diciamo che dai, in fondo possiamo pure restare un’altra ora a guardare gli HALO EFFECT, così come decompressione, diciamo. Chi mai sono questi Halo Effect, chiede Jesus. Effettivamente non è una domanda scontata, visto che hanno fatto uscire solo un EP di quattro canzoni. Però sono una specie di supergruppo di ex membri degli In Flames con Mikael Stanne alla voce, quindi è come stare in famiglia. Ed è proprio così: vedere Mikael Stanne mi fa ripiombare nel 2002 o giù di lì, quando i Dark Tranquillity erano sul tetto del mondo e venivano a suonare in Italia ogni cinque secondi. Per quanto mi riguarda li avrò visti una dozzina di volte, è il gruppo che ho visto di più dal vivo dopo i Domine, sempre per lo stesso motivo. E lui poi è sempre uguale, intrattenitore nato, animale da palco, che balla allo stesso modo, si veste allo stesso modo (anche se con un paio di taglie di più) e fa tutto allo stesso modo. Ovviamente noi siamo rimasti perché vogliamo sentire qualche canzone di In Flames e Dark Tranquillity, visto che questi hanno solo 4 pezzi all’attivo e l’ora abbondante di concerto dovranno pure riempirla in qualche modo. E invece no, amici e fratelli del vero metal: hanno fatto tutto il disco nuovo in anteprima e basta. È un mondo difficile. La cosa si è comunque trasformata in un ottimo momento chillout (tipo la scorsa edizione con gli Opeth a mezzanotte dopo gli Slayer) e credo siano piaciuti anche a Jesus. Peccato per Jesper Stromblad, che non è della partita per problemi personali. Conoscendo il suo vissuto, speriamo bene.

SABATO 6 AGOSTO

Orden Ogan

È l’ultimo giorno e anche quello con meno concerti interessanti. Sarà una giornata dedicata al girare per bancarelle ed eventi e spizzarsi qualche canzone qua e là dai vari palchi mentre giriamo liberi e felici. Primo gruppo alle 14 gli ORDEN OGAN, che una volta potevano definirsi mio gruppo feticcio ma che adesso attirano le grandi folle tedesche col loro power metal molto tetesco e molto melodico. Dai tempi di quel concerto all’Orion di dieci anni fa al terzo posto in scaletta dopo Turilli e Freedom Call sono cambiate un sacco di cose ma soprattutto sono cambiati anche svariati di loro. Rimane eterno al proprio posto Seeb Levermann, il cantante, unico a conservare ancora un minimo del look cyberpunk di quel periodo nonché ottimo esempio di tedescone gigantesco di quelli che ti immagini in una gasthaus bavarese a vincere il campionato nazionale di salsicce mangiate. La scelta dei pezzi è sballatissima: non solo ci sono troppi pezzi dagli ultimi album, ma sono pure i pezzi sbagliati. Non hanno fatto We are Pirates, ma stiamo scherzando? Comunque il concerto è ampiamente godibile: la mia compagna di merende suggerisce che è soprattutto merito degli arrangiamenti, dato che su disco gli ultimi Orden Ogan sono il gruppo con più cori del mondo e invece qui il suono è asciugato e canta praticamente solo Seeb. Una rapida menzione anche per l’apparizione della loro incomprensibile e antiestetica mascotte, un incrocio tra Immortan Joe di Mad Max e uno stormtrooper di Guerre Stellari, però con la tuba.

Life of Agony

Dopodiché non abbiamo niente di stringente da fare. Il prossimo concerto che mi interessa davvero è quello degli Haggard alle 22.30, anche se Carlotta mi cita gruppi che per qualche motivo vuole vedere nel pomeriggio. Ci lanciamo nel meraviglioso mondo del cazzeggio e ci appollaiamo sul terrazzino del negozietto della Winston (quelli delle sigarette) per guardarci un paio di pezzi dei LIFE OF AGONY. Poi passiamo davanti agli STRIKER, quelli canadesi, che non appena ci accorgiamo di quanto spacchino finiscono di suonare e salutano tutti. Ritorniamo a riposarci nell’area stampa e lì sentiamo in sottofondo le soavi melodie di TARJA, che suona al palco grande ma che davvero vorrei conoscere nomi e cognomi di chi sta là sotto a sentirsela. Non fa ovviamente pezzi dei Nightwish perché Holopainen non glielo permette (e fa benissimo), quindi è costretta a ridursi a cantare la cover Over the Hills and Far Away di Gary Moore per il solo motivo che la suonavano anche i Nightwish. Che tristezza, amici.

Dato che non trovo nulla di particolarmente interessante dico a mia moglie di scegliere un gruppo da vedere, se vuole. Lei è incuriosita dagli STORM SEEKER, un gruppo tetesco zumpettone, quindi ci incamminiamo e ci portiamo dietro anche Jesus, ché pure lui non sa che fare. Loro sembrano suonare musica per feste di compleanno degli gnomi del bosco, e sembrerebbero anche vestiti in modo acconcio per l’occasione. Tutti zompano, ridono, alzano bratwurst al cielo e a un certo punto si mettono per terra per la deplorevole pratica del vogare, che ogni volta che la vedo penso a quel personaggio di Sette Chili in Sette Giorni che diceva io non mi presto a queste stronzate. Jesus è interdetto, mi chiede cosa stanno facendo questi per terra e io non so proprio cosa rispondere. Mi chiede anche cos’è quello strano strumento a manovella che suona la tipa sul palco, che poi sarebbe la ghironda, ma ammetto di esserlo andato a cercare perché per me quello rimane sempre lo strano strumento a manovella. Quindi non gli ho saputo rispondere neanche la seconda volta. Però carini gli Storm Seeker, perlomeno per una mezz’oretta.

Ci spostiamo e capitiamo davanti agli AUDN e al loro post-black islandese depresso che al Wacken è abbastanza fuori contesto. Il nostro obiettivo sono però i THE SPIRIT al Wasteland, il palco dalla parte opposta rispetto a dove stiamo noi: per loro hanno già speso belle parole Belardi e Charles, io posso aggiungere che dal vivo hanno spaccato tutto. Sono giovani e belli carichi, e in un bill che per ovvie ragioni diventa sempre più un reparto di geratria questo fa bene alla pelle, ai capelli eccetera. Concerto piacevole anche per le continue fiammate dal palco, che ci riscaldano in questo fastidioso freddo che è sceso da un paio di giorni.

Arch Enemy

Torniamo ancora una volta nell’area stampa per mangiare qualcosa e incontriamo Josè, che ci comunica che andrà a vedere di nuovo i Soen che suonano nel locale in città. Già, non ve lo avevo detto: nel paesino c’è un locale chiamato LGH Club che funziona tutto l’anno e che è gestito dagli stessi tizi del Wacken. Dista più di venti minuti a piedi da dove siamo noi, ma a Josè non importa, perché vuole assolutamente vedere di nuovo i Soen. A questo punto non so, magari mi sto perdendo qualcosa io. Noi però siamo stanchi e in attesa dell’ambito concerto degli Haggard, quindi ci riposiamo e guardiamo distrattamente gli ARCH ENEMY dagli schermi dell’area stampa. Non saprei davvero cosa dire della loro esibizione tranne che Alissa White-Gluz è inguainata in abitini di pelle talmente aderenti che immagino ci metta un’ora a infilarseli. Fuori fa freddissimo e rimaniamo lì al coperto per più di un’ora, e a un certo punto ci raggiunge anche Jesus che è carico a molla. Quando arriva l’ora ce lo portiamo con noi al Wackinger a vedere gli HAGGARD, probabilmente il gruppo che ci tenevo più a vedere in tutto il festival.

Jesus li ha già visti in Messico, e io rosico perché questi sono tedeschi e fanno pochissimi concerti dato che hanno una formazione ufficiale di ventimila membri, quindi in Germania suonano pochissimo, in Italia manco te lo sto a dire però in Messico sì? Sono andato a controllare ed effettivamente un paio d’anni fa si sono fatti la crociera metallara in Florida e da lì hanno fatto tutto il tour dell’America Latina. A Milano mai, però, mi raccomando. Comunque non perdiamo la concentrazione: alle 10.30 cominciano, quindi alle 10.20 siamo davanti al palco in ottima posizione (del resto a 300 metri suonano i Powerwolf che hanno attirato il 99% dei presenti al festival). Suonano solo un’oretta, è poco ma ce la facciamo bastare. Piuttosto che niente è meglio piuttosto. Arrivano le 10.30 e sul palco c’è ancora gente che si affanna coi cavi. Passano i minuti e ancora soundcheck per tutti gli strumenti. Il violinista fa gni-gni-gni, il violoncellista gne-gne-gne, il soprano un paio di cinguettii, eccetera. Si guardano tutti e poi ogni tanto guardano verso di noi scrollando le spalle con aria afflitta. Perché ovviamente il concerto a cui tenevo di più è stato anche l’unico di tutto il cazzo di festival in cui ci sono problemi tecnici. Alla fine cominciano con un ritardo che non so quantificare, ma probabilmente una ventina di minuti. Il che vuol dire che suonano poco più di mezz’ora, il che vuol dire che fanno solo quattro canzoni (Awaking the Centuries, Per Aspera ad Astra, Eppur si Muove e Upon Fallen Autumn Leaves). Sul palco sono solo in tredici: quartetto d’archi, soprano, tenore, tastiera, due flauti e poi basso, chitarra, batteria e ovviamente il deus ex machina Asis Nasseri. Pochi, quindi, dato che di solito sfiorano la ventina. Il concerto è stato breve ma incredibilmente intenso, quasi magico; un giorno dovrò scrivere qualcosa su questo gruppo unico e sottovalutatissimo, capace di far uscire il debutto dopo quasi dieci anni dalla fondazione, dopodiché fare quattro dischi in dieci anni per poi praticamente scomparire nei successivi quattordici, salvo qualche concerto (perlopiù in Messico, peraltro) e un disco dal vivo giusto per dare un singulto di vita. Gruppo assurdo, complicatissimo da digerire, concettualmente sbagliato da parecchi punti di vista eppure (o forse proprio per questo) affascinante come pochissimi altri. Un gruppo anni Novanta nell’anima, che ha portato avanti quell’approccio anche quando lo facevano ormai in pochi, e che ha quindi fuso le influenze classiche in un modo assolutamente unico. Nasseri ha un sorriso a cinquanta denti perché vede che il pubblico gradisce, ringrazia in continuazione e si scusa per i problemi tecnici iniziali. Finisce tutto troppo in fretta.

Powerwolf

Con gioia e magone ci spostiamo ai POWERWOLF per chiudere il Wacken in bellezza. Loro sono diventati un’istituzione, e così ci accodiamo alla folla che canta le ormai famose Werewolves of Armenia, Sanctified with Dynamite, We Drink your Blood eccetera. Jesus non li conosce, mi chiede chi sono, io gli dico che sono un gruppo power metal con un gran cantante che fa canzoni su cristianesimo e lupi mannari. Poi annunciano Resurrection by Erection e gli dico che spesso fanno questi doppi sensi nei titoli. Sono divertenti, gli dico. Lui ci pensa un attimo e dice “divertenti alla maniera tedesca”, ed effettivamente non so come rispondergli. Da quel momento quando mi capita un umorismo non riuscitissimo penso immediatamente all’espressione german funny.

E tutto finisce qui. Salutiamo Jesus, salutiamo Josè (che ha scritto un suo report, per chi lo volesse leggere) e ce ne torniamo a casa. È stato un bel Wacken, e non potrebbe essere altrimenti. Se mi chiedete qual è stato il mio concerto preferito di quest’edizione vi faccio tre nomi: innanzitutto Mercyful Fate, perché è stato oggettivamente il migliore; poi Tiamat, perché avevo aspettative bassissime e invece è andato come non avrei mai osato sperare che fosse; ma soprattutto Haggard, sia perché è stato un evento magico sia perché, una volta tornato in Italia, non ho fatto altro che ascoltare gli Haggard. E questo vorrà pur dire qualcosa.

Il report è finito, andate in pace. Ci si vede all’Holy Ground l’anno prossimo, rain or shine. Per chiunque sia interessato, qui trovate le riprese ufficiali di alcuni concerti. (barg)

12 commenti

  • Sempre una penna piacevolissima da leggere. Bravissimo Barg, vi devo una birra a Milano. L’erede dai nonni?

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    • Sì, lo abbiamo lasciato per la prima volta dai nonni

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    • Davvero complimenti, tu e Ciccio soprattutto scrivete proprio bene. Per il resto i Mad Season al Jova Party potrebbero diventare il mio incubo preferito.
      Dovreste fare una cosa tipo il blog Bagniproeliator in salsa metal, ne uscirebbero delle perle tipo la vostra trasferta al festival in turingia.
      Per il resto che dire? che ai nonni davvero si dovrebbe fare un monumento per le angherie che sopportano da parte dei nostri bocia, altro che Garibaldi e Mazzini.

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  • Bello!

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  • bel report!
    grandi gli Haggard, visti nel 2006 al compianto Evolution fest

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  • “STRIKER, quelli canadesi, che non appena ci accorgiamo di quanto spacchino finiscono di suonare e salutano tutti”.
    Dieci anni fa feci 500 km un mercoledì sera per andare a vederli nel primo tour europeo. Erano più increduli loro di me. Grande gruppo, anche se sono andati via via calando (c’entrerà il teorema degli Ulver?).
    Per il resto, ottimo resoconto come sempre; anche qui rimane un grosso punto interrogativo riguardo ai Soen. Toccherà andare a vederli suonare per (cercare di) capire.

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  • L’immagine dei Mad Season al Jova Beach party credo sia la metafora più potente mai scritta

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  • E ascoltateli sti Soen che ne vale la pena

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  • Non pensavo davvero che ti piacessero tanto gli Haggard. Quando ero ragazzino, diciamo tra il 2006 e il 2009 mi ci ero fissato al punto da entrare nel fan club italiano (fondamentalmente un ritrovo di alcolisti in incognito, che sento ancora con piacere), spararmi tutte le date italiane e anche qualcuna in Germania. Gli unici, a mio avviso, a meritare in maniera pura e inequivocabile la dicitura “symphonic metal”, proprio per l’impostazione degli arrangiamenti e la strumentazione, che in effetti non hanno quasi potuto portare al completo su un palco. Purtroppo più che una vera band sono un progetto solista di Asis Nasseri, che a mio avviso non è proprio equilibratissimo di testa, è molto umorale e ha fatto girare più membri di Jon Schaffer e Dave Mustaine messi insieme. Il mitologico quinto album doveva uscire quasi 10 anni fa e ancora non se ne vedono tracce, considerato il soggetto non penso che uscirà mai. Peccato, almeno ci rimangono “Awaking The Centuries” e “Eppur Si Muove”, che nel genere sono due veri capolavori.

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  • Grazie CrlBrg :)

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