Call of the Wild: POWERWOLF, è davvero tutto qui?

Tutto qui? Dopo tre anni dall’ultimo album, di cui uno e mezzo in cui praticamente non si è quasi potuti uscire di casa? Dopo che siete riusciti a raggiungere i posti più alti in scaletta nei festival europei, dopo mesi di presentazione in pompa magna con i cantanti ospiti del cd bonus? Davvero, è tutto qui?

Non che Call of the Wild sia un brutto disco: sarebbe tecnicamente impossibile, dato che i Powerwolf fanno sempre lo stesso disco – anzi, le stesse tre-quattro canzoni ripetute con qualche variazione. Ma stavolta gli è uscito senza nerbo, con i ritornelli che per la maggior parte non ti si appiccicano in testa, e quelle strutture che, forse proprio perché ripetute ad libitum, cominciano a puzzare un pochino di vecchio. Nel presentare il singolo Beast of Gévaudan avevo espresso la speranza che avessero sbagliato la scelta e che nel disco si trovasse di meglio, ma qui gira che ti rigira forse quello è proprio il pezzo migliore, o giù di lì. Forse Varcolac è un po’ meglio, ma davvero siamo da quelle parti.

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È un peccato, perché i Powerwolf avevano trovato una quadra perfetta: il loro stile era qualcosa di relativamente fresco, così come il loro concept e il loro look, e inoltre la voce di Attila Dorn dava loro un paio di marce in più. È vero che forse il motivo vero per cui sono diventati così famosi sono le loro spettacolari prestazioni sul palco, ma dischi come Preachers of the Night e Blessed & Possessed si sentono tuttora che è un piacere, strapieni come sono di melodie accattivanti, ritornelli da cantare pugno all’aria e fomento sparso. Il loro momento di stanca peraltro si nota anche dall’aver lasciato perdere quei giochi di parole che erano diventati una loro caratteristica, tipo Resurrection by Erection, All we Need is Blood o Raise Your Fist, Evangelist: non è un aspetto importante, ovviamente, però è sintomatico. Il percorso dei Powerwolf è più o meno simile a quello degli Orden Ogan, anche loro grandissime promesse di un nuovo power metal che però non hanno mantenuto tutto ciò che promettevano (anche se Final Days è comunque migliore di questo Call of the Wild). Alla fine ci starebbe pure, considerando che ormai hanno quasi vent’anni di carriera, però un crollo così non me lo aspettavo.

Forse per sparigliare le carte e mettere carne al fuoco, Call of the Wild arriva accompagnato da ben due dischi bonus: uno è l’intero album in versione orchestrale, l’altro è una compilation di vecchi pezzi dei Powerwolf ognuno cantato in coppia con un ospite diverso, da Alissa White-Gluz a Christopher Bowes, da Doro Pesch a Ralph Scheepers. Robe che definire superflue è un complimento, come si usa dire, e che non alzano il voto neanche di uno zero virgola. Speriamo si rimettano in carreggiata presto, ché la situazione qua è tragica e abbiamo bisogno di un altro disco dei Powerwolf fatto come si deve. (barg)

2 commenti

  • Queste cazzo di top model sono dappertutto, cazzo c’ entrano con la musica metal ? Preferirei le strappone con la cellulite alte un metro e mezzo, mi sentirei più a mio agio. Musicalmente idem con patate e crauti, ma non è insopportabile. Alla prossima.

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  • Fotocopie di se stessi. Peccato.

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