Avere vent’anni: settembre 2000

ELECTRIC WIZARD – Dopethrone

Lorenzo Centini: Eh no, cari miei, non c’era Spotify e il modem andava a 56k, per “usufruire gratuitamente” della musica dovevi aspettare tra una telefonata e l’altra di tua madre e, se la connessione saltava, addio, avevi buttato magari un’ora di dita incrociate per ascoltare tre minuti di musica. Quindi leggevi una recensione (io su Rumore, ai tempi) e scorrevi la tracklist per individuare i brani più brevi, che avevi quindi più probabilità di procurarti. È così che ho collezionato all’epoca tutti gli interludi folk egizi dei Nile e che poi ci ho messo anni a sentire come suonavano bene il death metal, invece.
Questo per dire che il disco completo l’ho recuperato solo tempo dopo, ma all’epoca i tre-minuti-tre di Vinum Sabbathi avevano già lasciato una bella cicatrice. Il culto degli Sleep era ancora esoterico, lo stoner una gioiosissima macchina da guerra fatta di tette e satelliti. Gli Electric Wizard erano un mondo a parte in quel preciso momento storico. Ora li diamo per scontati, li osanniamo ai festival e ne aspettiamo le uscite, Dopethrone è il nome di un gruppo veramente scarso e Funeralopolis il titolo di un documentario che vi fa capire quanto può essere marcia Milano. Oggi questo disco è quasi un’istituzione.
All’epoca no. Erano soli. Erano malati, deviati. Chi altro aveva davvero la capacità di evocare Lovecraft così, anche trascinandolo in un cimitero tra le brughiere albioniche. Ho la pelle d’oca mentre lo riascolto. Gli Electric Wizard sono questo. Disagio. Depressione. Suicidio. Oblio. Questo sono stati quando li ho visti la prima volta allo Stoned Hand of Doom enne anni fa. Non ho parlato per le due ore successive al concerto. E Funeralopolis ancora chiude spesso i loro show e non potrebbe essere diversamente. Sconforto e fastidio. Dopethrone in fondo è questo. E gli Electric Wizard a questo sono ancora fedeli, anche da quando hanno cambiato pelle con la bionda valchiria. Anche nell’ultimo disco che in fondo è quasi rock. Io non mi drogo. Semmai bevo. Quindi, per dire, Jerusalem lo vivo a modo mio e pure i Dopethrone. Però non è questione di droga. Se una goccia di vera Depressione ce l’hai per davvero nel sangue, questa band ne fa un oceano nel quale affoghi senza scampo. Per questo non mi drogo.

RUNEMAGICK – Resurrection in Blood

Trainspotting: Terzo disco per i Runemagick con nessuna sostanziale differenza con i due precedenti The Supreme Force of Eternity ed Enter the Realm of Death. Esattamente come nei dischi succitati (e anche in quelli successivi), la creatura di Nicklas “Terror” Rudolfsson indulge in un death metal di stampo svedese rallentato, marziale, cupo e minaccioso, con saldissime radici nel culto del riff. Se è vero che il metal, al suo grado zero, è fondamentalmente un genere musicale fondato sul riff, i Runemagick fanno parte di quella schiera di gruppi che lo innalzano a vera e propria liturgia, macinandone uno dopo l’altro con la lentezza e la saturazione sonora necessarie a valorizzarlo il più possibile. È per questo che molto difficilmente i Runemagick a qualcuno potranno non piacere, a prescindere dal suono saturo, dal growl, dalla claustrofobia a tratti asfissiante che ammanta ogni loro lavoro. Forse il loro mancato successo deriva dalla loro semplicità, dall’aver composto dieci dischi in nove anni (e altri due a partire dalla reunion del 2018), oppure dalla scarsa propensione a girare in tour, causata anche e soprattutto dal carattere di one-man band che Rudolfsson ha voluto mantenere per gran parte della discografia. Lo dico ogni volta, ma non mi stancherò mai di ripeterlo: i Runemagick avrebbero meritato molto di più.

NAPALM DEATH – Enemy of the Music Business

Marco Belardi: Enemy of the Music Business trasformò i Napalm Death nella versione normalizzata, generica, appetibile di loro stessi dopo le sperimentazioni sballate di Diatribes e (al netto di un paio di canzoni davvero pazzesche) Inside the Torn Apart. A partire da questo album, pur senza un briciolo di idea o passo in avanti, i Napalm Death per dieci anni non sbagliarono un disco e in ciascun lavoro seppero piazzare brani travolgenti, che s’imprimevano nella mente. Oggi rimetto su Enemy of the Music Business e ricordo a memoria le prime tre. Mi sembra d’averlo ascoltato ieri, in realtà saranno trascorsi cinque anni. Forse di più. Altra circostanza che premia i Napalm Death di quel periodo che inizia qui e si conclude con Time Waits for no Slave è il fatto che ogni persona interpellata su quella manciata di dischi ne predilige uno diverso. Spesso viene citato Order of the Leech, e la mia canzone preferita probabilmente è Silence is Deafening in apertura di The Code is Red. Ma se devo rammentare un album, rammento questo: rimise ogni cosa al suo posto e ci riconsegnò una band brutale, ispirata. Banale? Politicizzata oltre misura da tritare il cazzo? Anche, ma non fu più un problema, non più per quei dieci, lunghi, e prolifici anni.

LAMB OF GOD – New American Gospel

Trainspotting: Scrivo di metal da vent’anni e non avevo mai sentito un disco intero dei Lamb of God prima d’ora. Molti dei più giovani lettori rimarranno sconvolti da questa affermazione, dato che per le nuove generazioni i cinque di Richmond nel frattempo sono diventati dei mostri sacri. Se parli con un metallaro venticinquenne, è infatti molto probabile che quest’ultimo si riferisca ai Lamb of God con la riverenza che si concede ai gruppi considerati importanti o essenziali, e ciò si rispecchia anche nei posti altissimi concessi loro nelle scalette dei festival americani o, addirittura, europei. Il mio parere dopo aver ascoltato per la prima volta un loro disco intero è che condivido al 100% ciò che ha scritto il Messicano in questa recensione, che li ha inquadrati perfettamente: brutta copia degli ultimi Pantera in versione asfittica, sterile, stupida e, in ultima analisi, inutile. New American Gospel è un disco inutile, con un’aggressività di maniera che non va da nessuna parte e serve solo a farti venire il mal di testa dopo dieci minuti; il fatto che poi sia diventato un’ispirazione per centinaia di gruppi poi diventati famosissimi è un’aggravante, considerato di che gruppi si sta parlando. Ormai va di moda prendere per il culo i Five Finger Death Punch, ma almeno questi ultimi sono divertenti e ogni tanto si prendono in giro da soli; i Lamb of God invece sono serissimi e non fanno ridere manco per niente. New American Gospel dura quasi un’ora e arrivare a metà è una tortura insostenibile; e il fatto che legioni di ragazzetti li considerino importantissimi e li prendano come pietra di paragone dell’ortodossia metal è sinceramente preoccupante.

EYEHATEGOD – Confederacy of Ruined Lives

Ciccio Russo: Con un titolo che è la migliore autobiografia possibile, Confederacy of Ruined Lives non è passato alla storia come il miglior album degli Eyehategod. Nato quasi per caso durante la lavorazione dell’antologia Southern Discomfort, segna il termine del periodo di pausa successivo a Dopesick (ne sarebbe seguito uno ancora più lungo ma questa, come si suol dire, è un’altra storia) e, nella sua ispirazione non eccelsa, è sintomatico di quanto i membri della band fossero stati distratti, negli anni precedenti da altri progetti che, evidentemente, li gratificavano di più e per i quali avevano messo da parte alcuni dei riff migliori (i Soilent Green per Brian Patton, i Down e i Crowbar per Jimmy Bower). Rispetto al disco che lo aveva preceduto, Confederacy of Ruined Lives è fatto di brani più scarni e lineari, che vedono la componente hardcore prevalere su quella doom. Una rimpatriata tra degenerati dai toni quasi rilassati, priva delle insostenibili vette di malessere che hanno reso gli Eyehategod tra le migliori espressioni musicali del disagio. Un classico minore, quindi, ma pur sempre un classico.

INCHIUVATU– Viogna

Giuliano D’Amico: In un’intervista di qualche tempo fa, Michele/Agghiastru disse che considerava Viogna come il primo vero album di Inchiuvatu, perché i suoni di Addisiu “non erano i miei”. Io ho provato più volte a capirla, questa frase, e ogni volta non mi ci raccapezzo. Perché se, al netto di tutte le imperfezioni e ingenuità del caso, Addisiu era un capolavoro pieno di idee, che univa la tradizione musicale siciliana al metal, Viogna mi è sempre sembrato un passo indietro, un punto basso della discografia dei siciliani, un mix di riff rimasticati del death metal americano (“siamo cresciuti a pane e Deicide”, diceva Agghiastru al tempo), uniti a zufoli con poco capo e poca coda, neanche “siciliani”, ma da sagra di paese. Probabilmente mi sbaglio e il disco ha delle qualità segrete che io non riesco a cogliere, ma sono felice che negli anni a seguire gli Inchiuvatu si siano decisamente risollevati.

DARKWELL – Suspiria

Trainspotting: Non so se qualcuno di voi ha mai frequentato casa dei fuorisede universitari, e ha un minimo di confidenza di come la maggior parte di loro cucina la pasta al tonno. Non avendo molta esperienza, né voglia di cucinare, né – spesso – la lucidità mentale sufficiente a stare troppo dietro ai fornelli, essi tendono a semplicemente svuotare la scatoletta sulla pasta bollita, appoggiandovela sopra così, senza una mantecatura, una ripassatina in padella, una risottatura, un soffritto di cipolla o in generale qualcosa che li preservi dall’essere la vergogna delle proprie nonne. Suspiria dei Darkwell è così: la voce angelicata e sottile di Alexandra Pittracher pare appoggiata sulla base, senza che sforzo alcuno venga fatto per amalgamare le due cose, e per di più è pure mixata a volume altissimo, il che non è una buona idea anche perché il suddetto flebile vocino tende a provocare quella proverbiale sindrome di elefantiasi testicolare di cui, decisamente troppo spesso, i gruppi di gothic metal pizzi & merletti di quel periodo si rendevano responsabili. 

MÅNEGARM – Havets Vargar

Michele Romani: I Månegarm, all’interno del variegato panorama musicale estremo svedese, sono sempre stati (soprattutto all’inizio della propria carriera) un’entità mai troppo considerata. Solo da Vredens Tid in poi, infatti, la band di Stoccolma si è ritagliata una posizione di rilievo all’interno della scena viking-black-folk metal, in concomitanza con un cambiamento netto del proprio sound che l’ha portata dal black melodico degli esordi ad un divertente folk/viking modalità osteria, caruccio per carità ma in verità non proprio un genere per cui vado fuori di matto. Questo per dire che i Månegarm ai tempi di questo ottimo Havets Vargar (che venne subito dopo il piuttosto acerbo esordio Nordstjarnars Tidsålder) erano molto più influenzati dal black metal tout court, a cui venivano sapientemente alternate le tipiche melodie folk-viking senza però che queste prendessero mai il sopravvento, come avvenuto in parte in Dodsfard (un po’ il loro disco di rottura) e ancora più marcatamente nelle produzione successive. Il disco in questione pur senza picchi particolari rimane comunque un ascolto piacevole, con alcuni picchi assoluti come la title track, Den Sista Striden e Vargtorne. Da riscoprire.

NOSTRADAMEUS – Words of Nostradameus

Trainspotting: In genere, quando si parla degli anni del boom del power metal, quelli in cui le riviste erano strapiene di recensioni con copertine fantasy e batteristi in doppio pedale perenne, si dice che “fatte salve alcune dovute eccezioni, quella roba era tutta uguale ed era tutta merda”. Ma quali erano poi queste famose dovute eccezioni? Gamma Ray, Helloween, Blind Guardian, Angra etc, d’accordo, ma al di là di questi grossi nomi che quasi nessuno avrebbe il coraggio di criticare, quali erano ‘ste eccezioni? Una è di sicuro Words of Nostradameus, un disco spettacolare che ricade esattamente nel discorso di cui sopra perché ha tutti gli stereotipi del power metal di quegli anni: tempi velocissimi, doppio pedale a elicottero, riff allegrotti, armonizzazioni helloweeniane, voce altissima, testi su tematiche fantasy, produzione cristallina dei Finnvox, ce li ha tutti. Però è uno di quegli album riusciti talmente tanto bene da essere diventato un paradigma dell’uno su mille ce la fa in salsa power metal: ce n’erano davvero a valanga di dischi stilisticamente uguali, ma pochissimi al pari di questo riuscivano a darti esattamente quello che volevano darti. Nel loro debutto i Nostradameus ficcano una successione di pezzoni da pugno in aria e sguardo al cielo, rielaborando le radici speed di Walls of Jericho alla luce del power di fine anni 2000, senza mai fermarsi un attimo, puntando tutto sulla velocità e sulla potenza enfatica, in un disco che, a parte le ballate, non ti lascia un attimo di respiro. E per chiudere il tutto stampandoti un sorriso ebete sulla faccia, il pezzo più esaltante è in conclusione: One for All – All for One, col duetto con un Joacim Cans stranamente tagliente ed efficace. Senza alcun dubbio uno dei migliori dischi power metal mai usciti dalla Svezia.

CANNIBAL CORPSE – Live Cannibalism

Ciccio Russo: Non sono mai stato un grande amante dei dischi dal vivo, nemmeno quando si chiamano Live After Death o Unleashed in the East. Per Live Cannibalism faccio un’eccezione, anzi, è probabilmente il lavoro dei Cannibal Corpse che ho ascoltato più volte in vita mia e il primo che prendo in considerazione quando mi viene voglia di sentirli. La ragione principale è che fotografa con precisione la nascita del suono odierno della band, ipertecnico ma dall’impatto quasi thrash. I fanatici dell’epoca Barnes mi sputeranno in faccia ma Meat Hook Sodomy e Hammer Smashed Face mi piacciono più in questa versione che in quella originale. Quella secondaria è l’esaltazione infantile provocatami dalle presentazioni dei brani a cura di un Corpsegrinder impagabile che dedica con candore fanciullesco Fucked With a Knife al pubblico femminile e introduce I Cum Blood asserendo con aplomb che “questo pezzo parla di spruzzare sangue dal cazzo“. Ancor oggi poche cose mi fomentano come George Fisher che sbraita in growl roba come IT WILL BREAK YOUR FUCKING BACK! THE  SPIIINE SPLIIIITTERRR! Se per qualche assurdo motivo mi sta leggendo qualcuno che non li ha mai ascoltati, che inizi pure da qui.

SUIDAKRA – The Arcanum

Trainspotting: Questo è il quarto album dei Suidakra e senza dubbio uno dei loro migliori. Si trova in una fase mediana tra gli inizi più blackettoni e una seconda parte di carriera più ortodossa e anonima, ed è proprio in The Arcanum che la loro vena melodica e folk viene enfatizzata, resa riconoscibile ed elevata a cifra stilistica peculiare del loro suono. Qui i Suidakra suonavano come una riedizione dei primi In Flames (diciamo quelli di Subterranean e The Jester Race) impreziositi da alcuni spunti melodici che poi sarebbero stati in seguito rielaborati, in maniera decisamente più adolescenziale, da gruppi come Ensiferum o Equilibrium. L’influenza degli In Flames è nettissima, addirittura celebrata nella cover di Stand Ablaze, tanto che i riff, gli intrecci, il suono delle chitarre, l’incedere sognante riportano tutti alle atmosfere giustamente assai celebrate del capolavoro di Jesper Stromblad. Mettiamola così: gli In Flames degli anni 2000 hanno avuto molti emuli, i quali hanno quasi sempre fatto parecchi danni; i primi In Flames hanno molti meno seguaci, ma tra questi i Suidakra a cavallo tra i due secoli valgono tutta la massa di gruppi americani che Anders Friden e soci hanno la colpa di aver influenzato dal dopo Colony. Se vi piace The Jester Race, non potrete non amare The Arcanum.

EINHERJER – Norwegian Native Art

Michele Romani: Gli Einherjer sono a tutti gli effetti da considerarsi dei veri e propri prime movers della scena viking metal norvegese. Attivi sin dal 1994, nel corso degli anni la band di Haugesund ha saputo guadagnarsi un certo rispetto all’interno della scena, grazie ad una proposta che, seppur non abbia mai realmente fatto gridare al miracolo, è sempre stata riconoscibile dopo pochi secondi di ascolto: parliamo infatti di un viking metal marziale e massiccio, quasi completamente scevro da velleità black metal e dal tipico rifferama in tremolo picking, che punta più sull’impatto e la corposità delle chitarre. Questo almeno fino al grandissimo Odin Owns Ye All, per quanto mi riguarda da considerare la pietra tombale del progetto Einherjer. Da questo Norwegian Native Art infatti le carte in tavola vengono drasticamente cambiate: non so se fu la voglia di rinnovarsi o tagliare drasticamente col passato, ma in questa poco più di mezz’ora di disco del tipico marchio della band norvegese rimane poco o nulla. Il sound è notevolmente modernizzato, spuntano addirittura campionamenti qua e là, tastiere messe un po’ a casaccio ed un generale sensazione di “vorrei ma non posso”, che alla fine si traduce in un pastrocchio piuttosto imbarazzante, tanto che si fa pure fatica capire il genere che gli Einherjer realmente suonino in sto disco. Se ci aggiungiamo una serie di composizioni (esclusa l’ottima Crimson Rain) non esattamente indimenticabili, si capisce il perché di sto disco si possa fare tranquillamente a meno.

ASHES YOU LEAVE – The Inheritance of Sin and Shame

Trainspotting: Più sopra abbiamo parlato dei Darkwell, ed ecco qui un altro gruppo gothic doom con duetto maschile/femminile e immaginario da romanzo ottocentesco su diafane foschie in decadenti cimiteri monumentali: gli Ashes You Leave vengono da Fiume e quindi, se non fosse per una sfortunata serie di accidenti storici, sarebbero potuti essere una gloria tricolore – e invece. The Inheritance of Sin and Shame è il loro terzo album, quello di mezzo tra il periodo iniziale più legato al doom e quello posteriore, più vagamente connesso al gothic metal da rock club il venerdì sera. I fiumani qui raggiungono quindi una specie di loro equilibrio, tra My Dying Bride di The Angel and the Dark River e Theatre of Tragedy di Velvet Darkness They Fear, nonostante una certa povertà di mezzi e una produzione abbastanza altalenante. Niente per cui strapparsi i capelli, ma gli appassionati del genere non potranno non apprezzare pezzi come The Horns, Your Divinity o l’eponima.

PORCUPINE TREE – Lightbulb Sun

Giuliano D’Amico: Ai tempi di quando scrivevo su Kronic.it (che all’origine era un gruppo di amici torinesi post-adolescenti), c’erano alcuni gruppi che TI DOVEVANO piacere, salvo allontanarsi dal consensus e dalla stima dei propri amici. Uno erano gli Anathema (e vabbé, ai tempi cosa facile), un altro erano i Nevermore (bof), il terzo erano i Porcupine Tree. Di questi ultimi si era sviluppato un vero e proprio culto, al punto tale che in un paio di occasioni mi sono veramente chiesto se in fondo i miei amici fossero più amici tra di loro che con me, proprio in virtù di questa comunanza di amorosi sensi. Insomma, avrete capito che a me, da blackmetallaro già sfigato ed emarginato di suo, dei porcopini me ne fregava poco, ma – buon viso a cattivo gioco – un tentativo l’ho fatto con Lightbulb Sun, che a tutt’oggi è l’unico della discografia del gruppo che veramente mi dice qualcosa. Russia on Ice e Feel so Low riescono a deprimermi oggi come vent’anni fa.

CREMATORY – Believe

Trainspotting: I Crematory sono (erano?) il gruppo gothic metal più venduto di sempre, o almeno così non perdeva occasione di ripetere Markus, batterista, fondatore e lider maximo della band. A me hanno sempre trasmesso la sensazione di efficienza tedesca, quella cosa che in musica va alla grande se la declini nel power metal ma che stride decisamente con il goticume. Believe fu il loro settimo disco (in sette anni) e segnò un deciso passo in avanti nell’evoluzione del gruppo, che a questo punto non aveva più nulla di estremo ma che era deciso fermamente a diventare un grosso nome da primi posti nei bill dei festival germanici. Parte un pezzo e ti immagini Markus che dice “Ora noi mettere arpeccio cotico, ja?” e vedi che tutto è al proprio posto, precisamente dove dovrebbe essere, con quella batteria robotica pompata che fa TU-TA-TU-TA-TU-TA e quella giustapposizione di pieni/vuoti stabilita a tavolino. Poi nel ritornello arriva la voce pulita e ti immagini che il ragionamento sia stato “Kvi ora ci tefe essere foce pulita, ja?”, e ti immagini i membri del gruppo tutti vestiti di pelle e latex seduti sulla panca di una trattoria nelle campagne vicino allo studio di registrazione, che mangiano panini con salsiccia bevendo birra da enormi boccali di vetro, a discutere di come deve entrare l’arpeggino evocativo mentre intorno a loro i maiali grufolano indifferenti. E poi il disco finalmente è pronto, e loro tutti soddisfatti nelle interviste parlano di target di riferimento, aspettative di vendita in rapporto alle previsioni di crescita della scena specifica, percentuali di minutaggio gotico inserite nell’album, etc. I tedeschi poi, si sa, fanno le cose per bene, e quindi in Believe ci sono una manciata di canzoni che effettivamente spaccano abbastanza, al di là del fisiologico numero di riempitivi ficcati dentro per raggiungere il minutaggio minimo necessario per fare un disco all’anno. La migliore è senza dubbio la ruffianissima The Fallen, scelta chirurgicamente da quella vecchia volpe di Markus come singolo e videoclip. Parafrasando la pubblicità della Volkswagen, Crematory: das gotische Band.

TURBONEGRO – Darkness Forever!

Ciccio Russo: Non mi sfugge l’ironia dell’aver appena asserito di non essere un amante dei dischi dal vivo e recensirne con entusiasmo ben due in occasione di questa puntata. Ma che diavolo vuoi dire a Darkness Forever!? La scaletta include quasi tutto Apocalypse Dudes e buona parte di Ass Cobra, non ci sono sovraincisioni ed è tutto lercio, umido, adrenalinico e appiccicaticcio come non mai. L’album pesca dalla data del 10 maggio ’98 ad Amburgo e da quella di Oslo del 18 dicembre successivo, ovvero manco venti giorni dopo quella volta che Hank Von Helvete andò in overdose a Milano. Il concerto saltò e l’episodio fu la goccia che fece traboccare il vaso spingendo gli altri membri a mollare, esausti delle intemperanze del frontman. Quella di Oslo sarebbe stata infatti l’ultima esibizione prima della reunion avvenuta quattro anni dopo con il non esaltante Scandinavian Leather. Questo album fu il momentaneo epitaffio della più grande rock band degli anni ’90 (sì, lo ribadisco) e chi amava i Turbonegro lo visse come l’addio definitivo di un gruppo che fino a pochi mesi prima sembrava destinato a prendersi il mondo. Anche solo per questo Darkness Forever! è storia. PULE PULE PULE! FITTE FITTE FITTE!

Giuliano D’Amico: Questo live del 1998 (che in realtà uscì nel 1999 e poi in edizione americana nel 2000), fu la prima cosa in assoluto che ascoltai dei Turbonegro, e sono tuttora convinto che sia la loro migliore uscita. Documento del culmine artistico della band, che si dovette prendere una lunga pausa subito dopo per le tristi vicende che conoscerete, contiene una serie di pezzi uno più bello e più potente dell’altro, da far impallidire le versioni originali reperibili negli album. Non so bene spiegarne il motivo – sarà la scaletta, che elimina tutti i brani riempitivo dei dischi da studio, sarà la velocità, in media superiore agli originali, saranno i siparietti in pseudo-tedesco e norvegese di Han von Helvete, sarà il sudore che sembra quasi di sentire esalare dal disco, ma Darkness Forever! ha una cazzimma che non ho mai più ritrovato in alcuna nuova uscita dei Turbonegro.

CRAFT – Total Soul Rape

Trainspotting: I Craft sono uno dei gruppi più genuinamente devoti ai Darkthrone che siano mai esistiti, e il debutto Total Soul Rape è forse l’esempio più limpido di questo concetto. Suona talmente tanto darkthroniano da essere uno dei dischi più norvegesi mai usciti dalla penna di un gruppo svedese; ma attenzione: i Craft non sono “la versione svedese dei Darkthrone” (come improvvidamente scrisse qualcuno all’uscita del secondo Terror Propaganda, che regalò loro la relativa notorietà nell’ambiente BM), anche perché non c’è nulla qui dentro che possa far sospettare di stare ascoltando un gruppo svedese. Quella del gruppo di Fenriz, Nocturno Culto e Zephyrous è una vera e propria ossessione, anche nei dettagli: a mero titolo di esempio, sentite il break seguito dall’assolo casinaro di Death to Planet Earth, che sembra uscito dritto dritto da A Blaze in the Northern Sky, seguito poi dal riff lento con batteria storta che ricorda tremendamente Kathaarian Life Code. E se in questo momento state pensando: “Bella forza, la maggior parte dei gruppi black è intrinsecamente darkthroniana”, vuol dire che non avete mai sentito Total Soul Rape. Che non è un capolavoro – non potrebbe esserlo neanche volendo, viste le premesse – ma è una gioia per le orecchie di chiunque ami profondamente il black metal, quello vero.

SETH – The Excellence

Michele Romani: Qui a Skunk Metal esiste un numerosissimo fan club dei Seth composto da due persone, il sottoscritto e il collega di scrivania Gabriele Traversa, con il quale ogni tanto scambio qualche messaggino sul suddetto gruppo chiedendoci (senza risposta) il perché sia sempre stato così poco considerato. La band di Bordeaux infatti sul finire degli anni ’90 si è resa protagonista di due gemme assolute di black metal melo-sinfonico: l’immenso Ep By Fire, Power Shall Be (se cercate l’esatto punto d’icontro tra Stormblast e Dark Medieval Times date un ascolto a questa piccola gemma) e il più emperoriano Les Blessures de l’Ame, due lavori che – non esagero – devono essere considerati nella top ten assoluta del genere. Poi purtroppo, come successo a molti altri gruppi black a cavallo degli anni 2000, anche i Seth hanno cominciato a rinnovare il proprio sound, come si può quasi subito intuire dall’ascolto di questo The Excellence. Le tastiere infatti, da sempre le protagoniste incontrastate della band francese, vengono lasciate più in secondo piano, a favore di un sound più brutale che non disdegna allusioni al death o addirittura al thrash metal. Intendiamoci, il marchio di fabbrica dei Seth continua ancora a sentirsi, ma senza quella magia e quelle tipiche atmosfere che avevano caratterizzato le due precedente pubblicazioni, se si esclude un pezzo come Legion Spirituelle Damntarice che rimanda un po’ alle vecchie cose. Un lavoro tutto sommato neanche così malvagio, ma se volete approfondire la musica dei francesi andate diretti sui primi due, non ve ne pentirete.

TIERRA SANTA – Tierras de Leyenda

Trainspotting: Tierras de Leyenda è il terzo album dei Tierra Santa, senza particolari strappi stilistici con i precedenti ma che, per produzione, ampiezza di respiro e maggiore sicurezza dei propri mezzi, può essere considerato il primo disco davvero professionale della band spagnola. Credo che il motivo per cui abbia sempre avuto un debole per i vecchi Tierra Santa sia che nelle loro note è palpabile il fomento e la passione di chi suona la musica che ama; il che non è così raro – la maggior parte dei gruppi, suppongo, suona la musica che ama – però raramente si percepisce la sincerità e la mancanza di filtri che si sente in loro. In quest’album te li immagini che suonano ridendo, divertendosi tantissimo, scapocciando ed esaltandosi come ragazzini, come i fan che loro sognano di avere e come io, per quanto riguarda i loro primi album, sono. Pezzi come Sodoma y Gomorra, La Torre de Babel, El Caballo de Troya o l’eponima sono esempi clamorosi di ciò che loro sapevano fare meglio: pezzi discretamente veloci col tupatupa, il riffone maideniano velocizzato e l’epicità a mille, roba che ti fa sbattere su e giù la capoccia con la smorfia soddisfatta e le braccia che scattano al cielo durante il ritornello. Inoltre la strumentale El Secreto del Faraon ricorda parecchio la sigla di Game of Thrones, nonostante sia più vecchia di un decennio. Che volete di più?

5 commenti

  • Eposodio succosissimo per quanto mi riguarda, specialmente per i sottovalutatissimi Månegarm e per Live Cannibalism, che pur essendo live non riesco a non considerarlo uno dei miei dischi preferiti.
    Gli Einherhar sinceramente a parte Far Far North e qualche episodio sporadico non mi hanno mai preso molto, peccato.

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  • Live Cannibalism è il loro miglior disco e uno dei migliori live del metal. E anche Darkness Forever è da quelle parti. E sì, fa impressione parlare solo di album live.

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  • Pure questo mede una fracca di robba in mostra!! Allora agli Electric Wizard c’è poco di aggiungere, il mio disco preferito senza alcun dubbio, mentre volevo spezzare una lancia a favore di Viogna, si è diverso da Addisiu, più complesso e strutturato e quindi meno immediato, forse qualche passaggio a vuoto qua e là ci sta, ma nel complesso un bel disco. Degli Enjehrer o come cazzo si scrivono, mi piacevano molto il primo EP e il full-lenght di debutto, poi non li ho più seguito. Dei Craft, ricordo che ero all’epoca in piena sbornia Black Metal ero molto entuasiasta di Terror Propaganda, ma ora come ora non ne ricordo una sola nota, mentre dei Manegarm ho solo questo, comprato su consiglio di qualcuno, ma non mi ha mai preso molto e di conseguenza non ho approfondito il resto della discografia. Sui Porcupine Tree mi vedo d’accordo, anche io non sono mai riuscito a farmeli piacere, eppure di Prog ne sento in tutte le salse, ma loro boh mai piaciuti, o forse meglio dire mai approfonditi.

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  • Supermariolino

    Mitico Kronic!

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  • Bargò sti nostradami non si possono sentire, mi ricordano i primissimi blind guardian ( quando ancora erano i lucifer’s heritage) non sapevano suonare e copiavano gli iron maiden ogni due minuto e mezzo, per essere un disco uscito nel 2000 suona vecchio di qualche decade 😀

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