Avere vent’anni: gennaio 2003

DRAGONFORCE – Valley of the Damned

Barg: All’inizio del millennio i Dragonforce erano già da qualche anno diventati un mezzo fenomeno su internet grazie ai pezzi del demo (a nome Dragonheart) che avevano scalato le classifiche del sito mp3.com. A causa della particolarità della proposta (chitarre schizofreniche, assoli lunghissimi, melodie da cartone animato col peperoncino nel culo) l’aspettativa era paragonabile a quella che qualche anno dopo ci sarebbe stata per Cloverfield; e Valley of the Damned confermò esattamente tutto quanto: un disco-mostro (nel senso di inaudito, inusitato, grottesco nel bene e nel male) che per cinquanta minuti pompava parossisticamente con velocità altissime fino al blast beat, una voce da aerosol di elio, chitarre impazzite che facevano ciò che nessuno aveva mai voluto/potuto/sentito la necessità di fare prendendosi la scena in modo quasi insensato. Per un senso o per un altro era difficile prendere troppo sul serio i Dragonforce: alle composizioni mancava l’anima, tutto sembrava più una riedizione di giochi infantili, un po’ mamma guarda senza mani e un po’ a chi piscia più lontano, l’intento sembrava scopertamente parodistico… Sensazioni che accompagneranno i Dragonforce anche nel proseguimento della loro carriera, nonostante belle intuizioni, belle melodie e – qui e lì – addirittura qualche bella canzone nel complesso. Valley of the Damned è comunque uno dei loro dischi migliori: sentirlo tutto di fila per quanto mi riguarda è assolutamente fuori discussione, ma ogni tanto qualche pezzo sparato a cannone fa la sua porca figura.

OLD MAN’S CHILD – In Defiance of Existence

Michele Romani: Confesso di aver avuto sempre un rapporto complicato con gli Old’s Man Child, band che dopo il primo straordinario demo mi ha sempre lasciato piuttosto indifferente, incluse anche le prime cose come Born of the Flickering e soprattutto quel The Pagan Prosperity che ho sempre trovato noiosissimo, nonostante ai tempi sulle riviste di settore ne parlassero come uno di quei dischi che avrebbe dato nuova linfa al black metal norvegese. Col passare degli anni le redini del gruppo sono state prese esclusivamente da Galder, tanto che questo In Defiance of Existence è l’ultimo ad avere una formazione vera e propria, composta da Jarder e da prezzemolone Nicholas Barker. Il disco in questione inevitabilmente risente tantissimo dell’entrata di Galder nei Dimmu Borgir, tanto che sembra una sorta d’incrocio tra Spiritual Black Dimensions e Puritanical Euphoric Misanthropia, quindi un classico black metal bombastico come andava di moda ai tempi, che mischia senza grande ispirazione le aperture sinfoniche del primo coi retaggi maggiormente death-thrash del secondo. Non parliamo neanche di materiale così malvagio alla fine, alcuni pezzi come l’opener o Sacrifice of Vengeance non sono neanche male, anche se quella sensazione di deja vu continua imperterrita ad accompagnarti per tutta la durata del lavoro, che è anche l’ultimo loro che abbia mai ascoltato.

ARKHON INFAUSTUS – Filth Catalyst

Griffar: A mettere un consistente paletto su quale sarebbe stato il disco più violento nelle poll di fine anno ci pensarono gli Arkhon Infaustus già a gennaio. Filth Catalyst è il loro secondo lavoro, a poco meno di due anni dal precedente Hell Injection. È appena un paio di minuti più stringato, quindi non va a limare il difetto più evidente del primo lavoro: è troppo lungo. In questo caso i pezzi sono otto, appena più rifiniti rispetto alla catastrofe sonora precedente ma neanche più di tanto: quello che importa agli Arkhon Infaustus è martellare le orecchie con un continuo assalto frontale tesissimo che ha come ingredienti principali la violenza sonora e la blasfemia; tutto quanto possa assomigliare a un’armonia o a qualcosa di orecchiabile o memorizzabile viene ritenuto del tutto superfluo. La loro musica è un ibrido tra il black metal europeo e il death metal brutale americano (non il brutal death: non c’è nulla dei Suffocation qui, piuttosto pensate a qualche influenza Angelcorpse o similari), impostato in partiture semplici per la maggior parte del tempo proposte al massimo della velocità, occasionalmente inframmezzate da stacchi più lenti, stop’n’go, brevi assoli di chitarra lancinanti o arrangiamenti di sola batteria della durata di un battito di ciglia. Forse la sola Nox Microcosmica ha una resa sonora un po’ più melodica (in senso molto lato). Il basso distorto in bella evidenza rende i suoni più compatti, la voce sdoppiata scream/growl si fa apprezzare per la malignità conferita ad ogni composizione. In fin della fiera Filth Catalyst non è affatto distante dal loro primo disco: un paio di anni di esperienza in più non sono passati invano, ma non ci sono stati miglioramenti troppo eclatanti. Quando si ha voglia di farsi del male e di divertirsi con musica ultraperfida per una quarantina di minuti va più che bene, senza aspettarsi qualcosa di meno rozzo di un calcio nelle palle. Mi permetto di consigliarvi di non portare con voi il disco nel confessionale la prossima volta che andate in chiesa, il prete guardandone la copertina potrebbe avere qualcosa da ridire e consigliare a un esorcista di venire a farvi visita a casa vostra.

MUNICIPAL WASTE – Waste’em All

Marco Belardi: Il batterista che suonava coi Municipal Waste all’epoca era Brandon Ferrell, spettacolare nel suo personalissimo approccio allo strumento. A partire dal seguente album Hazardous Mutation, che personalmente è il secondo e ultimo che adoro della suddetta band, al suo posto troveremo Dave Witte. Bravo, ma un’altra storia. Lo stesso paragone potrei farlo coi Machine Head all’alternare Chris Kontos con Dave McClain: bravo il secondo, ma non mi ha mai lasciato niente, almeno non con quella band. Ma la magia dei Municipal Waste di Waste ‘em All non risiedeva nel loro batterista e in quello soltanto. Erano ispirati. Erano un thrash metal affogato nell’hardcore punk, un pezzo più tardi l’hardcore punk affogato nel thrash metal. Erano violenti come il grindcore qualche traccia più in là. Erano completamente a briglia sciolta, divertenti ma non demenziali, irriverenti ma non del tutto scemi. Non erano i S.O.D., e in loro riconoscevo, piuttosto, certe peculiarità attribuibili ai Nuclear Assault. Bastava pensare alla voce per ricollegarsi ai Nuclear Assault. Il disco era molto bello, con brani incapaci di sforare la soglia dei due minuti di durata per uno scorrimento complessivo di poco oltre il quarto d’ora. Blood Hunger e Jock Pit nel finale due delle perle più riuscite; Substitute Creature la regina dell’altra metà. Recuperatelo, e dimenticate la loro discografia mediana e magari pure quella recente.

CALVARIUM – The Skull of Golgotha

Griffar: Supergruppo finlandese che vantava gente eminente come Lord Sargofagian (Baptism, Horna, Uncreation’s Dawn), Veilroth (Behexen, Alghazanth, Funeris Nocturnum) e Molestor Kadotus (una pletora di band più o meno note), i Calvarium esordirono nel gennaio 2003 con il loro unico full The Skull of Golgotha, episodio che fu poi annoverato come uno dei migliori di tutto quell’anno reggendo ai ritmi che si stavano via via velocizzando, fino ad arrivare ai giorni d’oggi in cui un disco che ha due mesi viene considerato roba vecchia. In realtà l’opinione pubblica fu piuttosto divisa: c’era chi li considerava un progetto costruito a tavolino con grossi nomi per spillare un po’ di soldi agli allocchi e chi invece li vedeva destinati a sedersi al tavolo dei grandi interpreti del genere per via del loro illustre passato e presente, proiettati verso una fulgida carriera che ne avrebbe garantito l’immortalità. Non fu così: parlando di vendite i riscontri non furono eccezionali, e la band sparì nel nulla l’anno successivo dopo aver pubblicato il molto gradevole EP Assaulting the Divine. The Skull of Golgotha rimane alla storia come un più che apprezzabile disco di classico black metal veloce e aggressivo in stile finlandese, con riff prevalentemente in monocorda e discretamente melodici caratterizzati da trame maligne che ben si sposano ai testi ultrasatanici e superblasfemi. Velocità assai sostenute per la maggior parte della durata dei pezzi accolgono rallentamenti molto crunchy, e qualche rara tastiera accompagna le sezioni sulle quali si voleva accentuare l’atmosfera. Tendenzialmente i brani sono sorretti da chitarre, basso e batteria come black metal comanda, mentre la voce ha il classico timbro screaming alto che in Finlandia ci hanno fatto apprezzare in più di un’occasione. Il fatto è che le otto canzoni (più intro, immancabile come la morte e le tasse) funzionano tutti, hanno tiro, hanno presa anche perché ripropongono in modo più che fedele gli schemi del genere. Un più che buono esempio di black finlandese scritto, arrangiato e suonato da manuale. Non è poco, ma non bastò comunque.

KAMELOT – Epica

Stefano Mazza: Ricordo i Kamelot con una certa simpatia perché li conobbi in un periodo per me piuttosto intenso e costruttivo, in cui di giorno lavoravo parecchio (facevo il chimico fino alle 18 e insegnavo basso a volte fino alle 21), mentre di notte, dopo essere rientrato dalle uscite, accesi computer e modem, frequentavo il bel mondo delle chat su mIRC. Fra le genti che perdevano il sonno con me c’era un giovane utente che era fissato con il power metal, le ballatone e le tastiere struggenti. A volte mi mandava gli mp3 delle canzoni che gli piacevano di più, su mIRC o più facilmente su ICQ, dato che era più stabile per lo scambio di file. Il giovane amico mi mandava cose tipo Stratovarius, Angra e, per l’appunto, Kamelot, che erano fra i suoi preferiti. I miei gusti erano diversi: mi è sempre piaciuto il metal più intenso e aggressivo, tuttavia capivo l’importanza che un gruppo come i Kamelot potesse avere per un giovanissimo che si stava accostando al metal e ne apprezzavo l’indole prog (per la quale ho un debole) unita a un grande senso della melodia e della composizione. Queste caratteristiche si trovano tutte su Epica, che tuttavia era un album scritto e realizzato a tavolino, con l’ingombrante presenza dei produttori e arrangiatori Sascha Paeth e Michael “Miro” Rodenberg che si portarono dietro un discreto numero di turnisti, fra cui una seconda voce femminile, per non sbagliare proprio nulla. In più fu scritto come un intricato concept sul Faust di Goethe, per cui inevitabilmente si perse più del solito la spontaneità della scrittura a favore di intermezzi e lentoni. Resta senza dubbio un disco bello da ascoltare, anche abbastanza vario, che può piacere agli appassionati di power, di metal opera e a chi ricerca suoni e composizioni cristalline, ma per i più navigati può risultare a tratti prolisso e poco interessante. Ottima la prova vocale di Roy Khan. Luca Turilli appare nel brano Descent of the Archangel.

NIGHTINGALE – Alive Again

Barg: Nati nel 1995 come gruppo gothic rock/metal con il peraltro pregevole debutto The Breathing Shadow, già dal secondo disco i Nightingale si erano messi a suonare tutt’altro. Per questo quarto album (il cui titolo completo è Alive Again: The Breathing Shadow part IV), così come per il precedente I, si può parlare legittimamente di metal melodico a forti tinte prog, laddove il progressive è ricercato più come atmosfera che come sbrodolamento di note superflue. Il pezzo più affascinante del disco è forse proprio Eternal, di undici minuti, che ricorda parecchio ciò che diventeranno gli Opeth del periodo più rilassato. Per chi non lo sapesse, i Nightingale sono uno dei tanti gruppi di Dan Swanö, e come tutti i gruppi di Dan Swanö è stato sempre incomprensibilmente sottovalutato e poco considerato dalla massa degli ascoltatori. Se siete persone serie, però, non potete proprio fare a meno di approfondirli.

ULFSDALIR/ MYRWID – Split

Griffar: Erano bei tempi quando, prima di esordire con un album di lunga durata, i gruppi del profondo underground si facevano un po’ di gavetta per poi magari firmare con una label parimenti underground come la Christhhunt productions, che tastava il terreno pubblicando un sette pollici split giusto per vedere l’interesse che avrebbe potuto destare. Nel gennaio 2003 uscì questo bel dischetto in vinile contenente due pezzi ognuno della durata di circa otto minuti, quasi il massimo che una facciata di un sette pollici riesca a contenere. Il pezzo degli Ulfsdalir paga forte pegno a Burzum ma è piacevole e giustifica la loro carriera successiva (8 full, 3 EP e 3 split usciti tra il 2003 e l’anno scorso, anno della cessazione delle attività), anche se non tutta la roba che hanno fatto è ugualmente valida – nel dubbio, consiglio di recuperare per primi i dischi più vecchi. I Myrkwid invece sono un più che accettabile progetto epic/pagan black metal d’impronta tedesca, sul genere Nachtfalke, progetto di uno dei tipi degli Ewiges Reich di cui, prima di questo split, erano uscite solo alcune demotape in pochissime copie praticamente irreperibili sin da subito. Successivamente hanno fatto altri tre dischi (Part I, Part II e Part III, usciti solo in vinile tra il 2003 e il 2013 in un numero di copie mai superiore a trecento) e un altro split coi conterranei e assai simili Schattenheer. L’impostazione dei Myrkwid è più aggressiva e veloce rispetto al black lento, grezzo e cadenzato dei loro compagni di avventura, e nel complesso entrambi i gruppi fanno la loro figura senza grossi scostamenti qualitativi. Non ci troviamo al cospetto di un disco imperdibile; io ve ne parlo perché è una curiosità, una piccola chicca uscita prima che l’era digitale relegasse i sette pollici a produzioni marginalissime, anche perché a quanto pare hanno prezzi fuori mercato vista la durata della musica in essi contenuta, giocoforza ridotta. Un piccolo oggetto da collezione che va apprezzato anche per il suo valore storico, proprio di tempi che stavano cambiando sempre più in fretta.

SPAWN OF POSSESSION – Cabinet

Marco Belardi: All’epoca c’erano gli Spawn of Possession, svedesi, quelli di Cabinet per intenderci, e i Paths of Possession, i quali ospitarono nel tempo pezzi da novanta come George Fisher e Richard Brunelle. Senza però mai convincermi nonostante la virata melodica sul tema del death metal autoctono. Confondere un nome con l’altro era facile per uno come me, alle prese forse con troppe birre trappiste. Eppure mi sciroppai ciascun album d’entrambe le formazioni, e gli svedesi, fuori a distanza di qualche annetto con Cabinet prima e con Noctambulant poi, furono certamente i più convincenti. Mentirei però se vi dicessi che, a distanza di tutto questo tempo,, io da Cabinet mi ricordi qualcosa di più di Swarm of the Formless. Che poi era il primo brano subito dopo l’introduzione. All’epoca ci sentii la stessa volontà di mescolare caos e tecnica tipico di certi lavori dei Cryptopsy e degli Origin. Consumai l’album e mi convinsi, almeno per un po’, che potesse davvero esserci una nuova ondata di death metal tecnico. La realtà mi si sbatte in faccia oggigiorno se provo a rimettere su i primi due degli Atheist e ne confronto il mood, la resa, l’efficacia, con il tiro a pallettoni di questa gente qua. Buon disco, comunque.

ON THORNS I LAY – Egocentric

Michele Romani: La trasformazione degli On Thorns I Lay nel corso degli anni è un qualcosa di veramente incredibile: partiti da un particolarissimo death doom metal a tinte un po’ psichedeliche (andatevi a recuperare Orama che è veramente un discone), nel corso degli anni la band ha sempre più alleggerito e affinato la loro proposta fino ad arrivare alle ultime produzioni che di metal non hanno quasi più nulla, compreso questo Egocentric. Il sound è quel tipico goth rock leggerino che andava parecchio per la maggiore nei primi anni 2000, quando molti gruppi cercavanoo di fare il colpaccio. Ai nostri ellenici però andò piuttosto maluccio, considerato che non se li è inculati quasi nessuno. Per ulteriori informazioni vi rimando alla mia recensione del precedente Angeldust del 2002, in quanto il disco è sostanzialmente identico.

NEHËMAH – Shadows from the Past…

Griffar: Giustamente considerati oggigiorno una cult band, i francesi Nehëmah pubblicarono nel gennaio del 2003 il loro secondo album, seguito del fortunato e forse lievemente migliore debutto Light of a Dead Star. Dico lievemente più che altro per affezione, dato che tutti e tre i loro dischi sono assai simili l’un l’altro. Shadows from the Past… continua a pagare un notevole dazio alla scena norvegese e svedese; due dei nove brani hanno direttamente il titolo in svedese e uno è una cover di Call from the Grave dei Bathory, posta in conclusione dell’opera dopo un piccolo intervallo di silenzio, doveroso tributo a uno dei loro mentori. I pezzi sono tutti da manuale del black metal, mediamente lunghi e sempre intrisi di tenebrose melodie e atmosfere notturne. È spesso stato detto che il trio francese fosse molto poco – quasi per nulla – riconducibile al suono tipico della loro madrepatria, e che solo negli artwork si potevano notare richiami alle copertine delle Legions Noires, ma in realtà di copertine come quelle dei Nehëmah se ne sono viste a decine di migliaia da qualsiasi parte del mondo. Si sarebbe potuto profetizzare per loro una carriera ben più duratura e ricca di soddisfazioni ma quasi inspiegabilmente non fu così: la loro etichetta, la Oaken Shield, era sì piccola ma inserita in un contesto più che florido, trovare i dischi era tutto meno che impossibile e penso che qualche piccola soddisfazione a livello di vendite se la siano tolta; inoltre si erano guadagnati fin da subito un considerevole rispetto nella scena black metal mondiale, il motivo per il quale nel 2005, circa un anno dopo il terzo e ultimo disco Requiem Tenebrae, il trio – che oltretutto dava impressione di essere compatto ed in piena sintonia compositiva ed esecutiva – mise il progetto in soffitta. Il disco dal vivo In November Live uscì postumo nel 2006 (tra l’altro è la registrazione di un concerto del 2001), poi svariati anni dopo fu pubblicato un bellissimo cofanetto coi tre album in vinile più altro materiale inedito e un altro disco dal vivo.

DREAM EVIL – Evilized

Barg: Avevamo già cantato le lodi dei Dream Evil per il debutto, Dragonslayer, che all’epoca fu il classico fulmine a ciel sereno in grado di spaccare il culo anche a un rinoceronte sotto cocaina. Il seguito, e cioè il presente Evilized, non replicò quei livelli qualitativi, ma si rivelò comunque un disco solido, potente e orecchiabile quanto bastava per proiettarne gli autori nella cerchia dei gruppi seri, quelli da cui era lecito aspettarsi qualcosa in futuro. Promessa che, peraltro, loro rispetteranno in pieno; e ne parleremo l’anno prossimo per il ventennale dell’assurdo The Book of Heavy Metal. Nel frattempo, questo Evilized conferma i Dream Evil come gruppo da mettere su quando si ha voglia di power metal cazzuto, melodico, fatto e confezionato come si deve, con protagonisti notevolissimi: Gus G alla chitarra solista, Fredrik Nordstrom alla ritmica (e alla consolle), Snowy Shaw alla batteria e la “scoperta” Niklas Isfeldt che di sicuro non difettava in personalità. Consigliato a tutti gli amanti del power metal eterosessuale.

One comment

  • Io l’ho pure comprato quello degli Old Man’s Child. Ero in delirio da tastiere in quel periodo. E’ durato poco, tanto poi a febbraio è uscito Strapping Young Lad e tutto è rientrato.
    Tutto vero il discorso fatto sui Nightingale e Dan Swano. E’ incredibile quanta poca gente ascolti gli Edge of Sanity o i Witherscape, validissima ultima sua band.

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