Avere vent’anni: gennaio 2002

KING DIAMOND – Abigail II

Marco Belardi: Sarò del tutto sincero con voi: dei concept album di King Diamond, così come di quelli dei Pain of Salvation o di qualsiasi altra band sulla faccia della terra, non mi è mai fregato un beneamato cazzo. Non ho tempo per perdermi dietro alle funeste storie raccontate dalle liriche del mio artista preferito o di chicchessia, e preferisco leggermi i testi di una singola canzone piuttosto che addentrarmi in un infernale mappazzone su case infestate, riti nella Louisiana e fantasmi che lasciano il riflesso a una finestra nelle giornate più nebbiose e merdose. È più forte di me, non si tratta di mancanza di rispetto verso una porzione tutt’altro che piccola dell’operato di un artista. Figuriamoci di King Diamond, porca puttana, col suo faccione bianconero che, in tutti questi anni di onorata carriera, avrebbe come minimo dovuto far scattare la scintilla in dirigenti come Marotta, Paratici e i vari discendenti degli Agnelli e pronunciare la fatidica frase: “Lo usiamo come logo della Juve o sprechiamo un’opportunità come questa e diamo quei soldi a Dybala?”.
Nel 2002, tuttavia, ero come un cane in calore e la mia tempesta ormonale per il metal raggiungeva probabilmente il culmine. Non so perché, ma mosso da un invisibile motivo finii per interessarmi ai concept di King Diamond proprio col più paraculo dei suoi concept. Mi lessi tutti i testi e poi andai a rileggermi più a fondo quelli passati, soffermandomi naturalmente su quelli del capolavoro del 1987. L’album era più che carino e Mike Wead era stato infilato pure qua; un peccato, considerando che l’alchimia fra LaRocque e Drover in House of God, la resa strumentale, la produzione così viva, generalmente m’erano piaciuti in blocco. Abigail II suonava impastato al confronto e non riuscii a godermi il suonato quanto i suoi pezzi, fra i quali mi esaltarono Mansion in Sorrow e la seguente Miriam.

RAGNAROK – In Nomine Satanas

Griffar: Non mi ricordo perché, ma avevo la convinzione che il quarto album dei Ragnarok, alfieri della seconda ondata del puro e classico norwegian black metal, non fosse niente di speciale. Molto probabilmente lo confondo con qualcos’altro per via della copertina un po’ anonima. Beh, la mia convinzione era una pura stronzata, perché anche In Nomine Satanas, che segue la triade Nattferd/Arising realm/Diabolical Age (pura carneficina) è una fucilata sparata a fior d’orecchio, e cazzi vostri se non vi eravate muniti di dispositivi di sicurezza. 9 brani, 9 calci nelle palle sferrati calzando un rampone chiodato di quelli che si usano per fare arrampicata sulle cascate ghiacciate. Una manciata di pezzi scritti secondo tutti i dettami dello stile, riff in tremolo picking con melodie occulte e ripetuti in varie tonalità, voce in screaming di altissimo livello (anche se Lord Arcamous/Christer Eversen ha cantato solo in questo disco), sezione ritmica fragorosa, affiatata, precisa come un metronomo e fottutamente riempitiva anche quando i brani rallentano (non succede molto spesso, ma succede) o si avventurano in passaggi più atmosferici (ci sono anche rari momenti di clean guitar). Qui c’è il meglio del meglio, cosa mendicare oltre? No keyboards were used on this album scritto nel booklet del CD, la thanklist degl amici con i quali si sono sfondati di alcool, i testi dei brani… che bei tempi. Per chi ama il black norvegese è un must assoluto, una delle sei cartucce nel tamburo della Smith & Wesson di Clint Eastwood: i Ragnarok fino al sesto album Collectors of the King del 2010 altro che revolverate a grosso calibro in pieno volto non hanno sparato. Ferocia pura, un gruppo storico, imperdonabile non ascoltarli. Peccato mortale essermi perso il loro concerto al Colony di Brescia nel 2018, non li avevo mai visti dal vivo e speravo di riuscirci in quell’occasione ma, come molte altre volte, il lavoro mi ha fottuto, ed adesso penso che non ce ne sarà un’altra. Sparatevelo nello stereo a tutto volume e fate crollare le pareti.

ON THORNS I LAY – Angeldust

Michele Romani: Gli On Thorns I Lay, assieme ai The Elysian Fields, e ad altri nomi minori, fanno parte di quella che possiamo definire la “seconda ondata” della gloriosa scena greca, nella quale molte di quelle bands nate tra il ’94 e il ’95 cercarono di portare avanti un percorso musicale che si differenziasse dal tipico death/black metal suonato dai nomi storici che ben conosciamo tutti. Se i secondi che ho nominato bene o male sono rimasti comunque sempre ancorati alle radici black metal, gli On Thorns I Lay, dopo i primi dischi in tipico stile death/doom, hanno cominciato a sperimentare parecchio e adinglobare nel loro sound di sonorità gothic rock/metal, di cui questo Angeldust è un esempio calzante. È innegabile che il sound delle composizioni presenti scimmiotti molto il goth metal leggerino e infarcito di componenti elettroniche che andava parecchio di moda nei primissimi anni 2000, ma il tutto risulta comunque piacevole all’ascolto, tra suadenti voci femminili, chitarre sullo stile un po’ Lifelover/Katatonia del periodo di mezzo (sentitevi la title-track ad esempio) e altre soluzioni melodiche molto leggerine e pipparole che di metal hanno poco o niente. Nulla da tramandare ai posteri, ma all’interno di ‘sto genere ho sentito molto di peggio.

BLAZE – Tenth Dimension

Barg: Per il secondo disco della sua carriera post-Maiden Blaze Bayley conferma tutta la formazione del debutto, l’ottimo Silicon Messiah. Tenth Dimension è un buon disco, anche se non al livello del precedente: il genere è sempre quello, un heavy metal attualizzato ai tempi, ma qui – anche a causa della produzione firmata da Andy Sneap – spesso dà la sensazione di essere un po’ troppo asfittico. I pezzi migliori sono probabilmente l’omonima, l’apertura Kill and Destroy, l’ultima Stranger to the Light e Leap of Faith, la più veloce del disco, accostabile alla bellissima The Launch del disco precedente. La soglia dell’attenzione invece cala con i pezzi più lenti, come in Meant to Be, in cui il nostro idolo cerca di fare qualcosa di diverso mancando nettamente il bersaglio. Tenth Dimension è un onestissimo album di heavy metal senza particolari pretese, perfetto come sottofondo durante un viaggio in macchina o mentre si puliscono le verdure per il minestrone. Con una decina di minuti in meno, e con un suono più dinamico, sarebbe potuto essere al livello di Silicon Messiah.

dewscented_inwards

DEW-SCENTED – Inwards

Ciccio Russo: Con Iowa non furono solo gli Slipknot a perdere il treno ma tutto il carrozzone nu metal. Nessuno sapeva più bene quale diavolo potesse essere la prossima tendenza. La Nuclear Blast ci vide lungo, puntò sul thrash redivivo e incattivito alla The Haunted e mise sotto contratto questa formazione tedesca già fattasi notare con tre Lp acerbi ma promettenti e un’attività live instancabile che aveva consentito loro di farsi un nome nell’underground estremo anche quando ‘sta roba non tirava manco per nulla. Inwards non è solo un salto di qualità dovuto ai buoni uffici di una casa discografica potente in quegli ultimi anni in cui una casa discografica potente faceva la differenza sul serio (in termini di produzione, in termini di suoni, in termini di mettere la band nella direzione giusta) ma è anche il picco assoluto della carriera di un gruppo sottovalutatissimo, che fu capace come nessun altro di sposare quella moderna incarnazione del genere che a breve avrebbe rotto i coglioni a tutti per la saturazione di band inutili con il piglio viscerale ed essenziale della vecchia scuola crucca, con l’obbligatoria componente slayeriana a rendere il tutto ancora più letale. Molto meglio di tanti gregari allora blasonati come, che so, i Carnal Forge. Recuperatelo e mi ringrazierete.

BLODARV – Heksen

Griffar: Nel 2002 i Blodarv di dischi ne fecero uscire ben 4, cosa che all’epoca non era molto usuale ed in seguito è stata battuta con molteplici record, neanche fosse una gara a chi fa uscire più musica nel corso dello stesso anno solare. Per cui consideriamo chiuso il capitolo “Avere 20 anni/Blodarv” con questa rece, ché una basta, mica possiamo passar la vita a recensire un disco ogni tre mesi dello stesso gruppo. Oltre a Heksen, uscito in vinile sette pollici con due pezzi della demo del 2000 Misteriis rivisti e riarrangiati in modo meno grezzo, i Nostri nel 2002 hanno fatto uscire un altro 7 pollici (Beyond Life), uno split CD con gli slovacchi Silva Nigra (dai quali prendono pallate belle secche) e un altro split CD con gli australiani Baalberith (ai quali invece le suonano belle secche). Una vittoria, una sconfitta e due pareggi nella stagione, un cammino da centroclassifica. Più o meno la storia della loro vita, perché i Blodarv sono un gruppo che non ha mai avuto picchi estremi né in negativo né in positivo, dato che scrivono un black metal atmosferico con qualche traccia di influenza goticheggiante, pescando a piene mani dalla tradizione norvegese con poche o pochissime tastiere, qualche arrangiamento di voce femminile, pezzi medio-veloci che a tratti si lanciano in up-tempo energici e a volte rallentano ancora. Hanno anche provato, nel tempo, a focalizzare le loro composizioni sulla storia di una presunta strega, tal Linaria Amlech, per attirare più attenzione…  A dirla tutta le composizioni sono anche piuttosto piacevoli, hanno ‘ste melodie cupe che le fa risultare gradevoli e coinvolgenti, e poi il fatto di essere uno dei pochi gruppi danesi ad avere un seguito più o meno cospicuo quasi ti costringe a simpatizzare con loro. Fino al 2018 hanno pubblicato dischi con una certa regolarità, per ora non si sa se ci sia qualcosa di nuovo che bolle in pentola.

…AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD – Source Tags & Codes

Lorenzo Centini: Al terzo disco, gli impronunciabili texani prendono definitivamente il volo con un album che si candida come Capolavoro del Rock e che, a dire il vero, lo è. Il misto indie noise + hardcore si apre a ventaglio, le chitarre dei Sonic Youth accolgono la sfacciataggine dell’epoca d’oro di un Billy Corgan nello schiaffarti in faccia le proprie turbe adolescenziali irrisolte (It Was there that I Saw you, megalitica, con quelle rullate insensate e pazzesche). Di più c’è l’attitudine lasciva tipo Greg Dulli, tipo l’arricchito di talento, cavezza e puzza di colonia e vino, che entra nel salotto buono e si siede coi piedi sul tavolo. Classe libera di fluire, superiorità senza snobismo elitario. Da qui parte il loro viaggio verso mondi sempre più prog e fatati (ma non ovattati). Homage e Days of Being Wild sono calci nei denti. Another Morning Stoner meriterebbe un monumento. How Near, How Far e Monsoon rarefatte, immaginifiche. Forse miglioreranno persino. Eppure la fotografia perfetta dello stato di grazia della band di Keely e Reece è Source Tags & Codes. Uno dei segreti meglio custoditi della musica con le chitarre.

RAVENTHRONE – Endless Conflict Theorem

Michele Romani: Ricordo come fosse ieri l’acquisto immediato di questa seconda e ultima fatica targata Raventhrone, progetto capitanato da uno dei personaggi storici della vecchia scena black austriaca che risponde al nome di Ray Wells, che aveva già collaborato nelle demo dei Summoning e che fu leader dei particolarissimi Pazuzu, i quali in realtà di metal non hanno mai avuto nulla. Quella che ricordo bene è anche la delusione cocente mentre scorrevano i brani di questo lavoro, soprattutto se confrontati con quelli del precedente capolavoro Malice in Wonderland. Dell’epic/folk/black metal malinconico e sognante del suddetto disco purtroppo è rimasto poco o nulla. O meglio, Endless Conflict Theorem tutto sommato non si allontana dalle sonorità del debutto (anche se la componente death metal è molto più preponderante) ma non ha più nulla della magia e dell’ispirazione che aveva caratterizzato l’esordio. Non c’è molto da aggiungere, anche perché i brani (se vogliamo escludere l’iniziale The Gargoyle) sono uno peggio dell’altro, e mi sorprende come un personaggio come Roberto Mammarella di Avantgarde, che ha sempre messo il lato artistico davanti a quello economico, abbia potuto licenziare un prodotto simile. Peccato.

VISION DIVINE – Send me an Angel

Barg: Ai Vision Divine ha sempre nuociuto la reputazione di gruppo parallelo, o supergruppo, con cui sono stati presentati inizialmente. Non che si avesse torto a farlo: tre quinti erano membri dei Labyrinth (Thorsen, Stancioiu, De Paoli), e gli altri due erano l’allora sconosciuto Andrea Torricini al basso e infine, alla voce, Fabio Lione, peraltro ex cantante dei Labyrinth. È un peccato perché sono sempre stati un gruppo che ha raccolto molto meno di quanto meritassero effettivamente. Il loro secondo album Send me an Angel, ad esempio, è un ottimo dischetto di power metal italiano raffinato, suonato con dovizia, arrangiato con cura e a cui è difficile muovere significative critiche, tranne forse che per il suono. Qui dentro ci sono piccole gemme come Pain (splendida, uno dei pezzi più belli mai usciti dal power italiano) ma anche cose come Taste of a Goodbye, Black & White o l’omonima, che spiccano in un album comunque bello dall’inizio alla fine. Ma la vera marcia in più del disco è che ascoltandolo sembra che loro si siano divertiti a suonarlo e che quindi si siano riusciti ad esprimere singolarmente al proprio meglio. Provate a dargli un’occasione, se non lo avete mai approfondito.

ANCIENT CEREMONY – The Third Testament

Griffar: Noi un termine che traduca alla perfezione l’americano cheesy non ce l’abbiamo. In pratica significa qualcosa di stucchevole, artisticamente scadente, che fa ammosciare. Ci si è messa in mezzo quella letterata diversamente maggiorenne che s’è tirata fuori l’aggettivo petaloso a cercare di dirimere la questione, senza grandi successi. Come si gridava al miracolo, al tempo… manco fosse nata una novella Manzoni. The Third Testament è il quarto (problemi con la matematica, eh?) ed ultimo album dei cheesy gothic/symphonic black metallers tedeschi Ancient Ceremony, nati per emulare, vissuti copiando e defunti allargando la cerchia della gente da scopiazzare. I loro dischi sono la copia carbone dei Cradle of Filth in primis, dei peggiori Ancient (Mad Grandiose Bloodfiends, presente?) in secundis, e, nel caso del disco in esame, visto che i Destruction stavano ritornando ad avere un seguito considerevole grazie a All Hell Breaks Loose e The Antichrist, pure del thrash tedesco, con il quale incattiviscono un pochino i brani. Aspettatevi screaming stile Dani Filth, tastiere onnipresenti mixate pure alte quindi fin troppo invadenti, composizioni e partiture senza infamia né lode, riff in tremolo picking spinto, voci femminili sparse qua e là, puntando tutto su melodie aggressive non raramente fini a sé stesse, non particolarmente memorabili e lontanissime dal fare storia, sebbene la loro prosopopea, che puntualmente sbattevano in faccia ai blacksters nelle varie interviste che rilasciavano impettiti alle ‘zine di settore, fosse superiore persino a quella di Zlatan. Preti a pecorina, chiese alluvionate dai flutti di sangue del Capro, vampiri sodomizzatori, demoni orgiastici… che palle. Roba che neanche gli adolescenti in tempesta ormonale ad Halloween. Non che i loro dischi precedenti siano stati migliori, anzi. Così come l’ultimo EP P.uritan’s B.lasphemy C.all del 2004, il loro epitaffio. Una band che non è mai uscita dalla mediocrità e che credo pochi rimpiangano, considerabile come la trasposizione messa in gothic black metal del termine americano cheesy. Altro che petaloso.

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