Avere vent’anni: maggio 2003

BLIND GUARDIAN – Live

Barg: Ed ecco qui la mia prima delusione a nome Blind Guardian. Il momento preciso in cui ho capito, e intendo capito davvero, che i Blind Guardian in fondo erano esseri umani fallibili e non augusti semidei custodi della tradizione orfica. La fine dell’innocenza, si può dire. Comprensibile quindi come non abbia più avuto voglia di ascoltare questo live album dai tempi della sua uscita. Lo riascolto ora e non mi sembra per niente male, in realtà, ma questo non vuol dire nulla se non che all’epoca avevo aspettative talmente alte su di loro che qualsiasi cosa non fosse stata a livelli eccelsi sarebbe stata una delusione. Invece Live restituisce un gruppo ancora bello carico, soprattutto per quanto riguarda la voce di Hansi Kursch che non aveva ceduto le armi al passare del tempo. Da un certo punto di vista questo è il sigillo conclusivo del periodo dorato dei Blind Guardian, dato che arrivava dopo A Night at the Opera, l’ultimo dei loro dischi inattaccabili. La scaletta è ampia, con una ventina di pezzi che vanno a pescare soprattutto dalla parte all’epoca più recente della loro discografia: dai primi due album solo un estratto ciascuno (Majesty e Valhalla), mentre viene riproposta buona parte di Imaginations, Nightfall e ANATO. Purtroppo però i pezzi più recenti sono anche quelli meno adatti a una riproposizione dal vivo, e questo è uno dei mille motivi per cui quel capolavoro immortale di Tokyo Tales rimarrà per sempre l’unico possibile disco dal vivo dei Blind Guardian.

SEPULTURA – Roorback

Marco Belardi: Ho smesso di credere nei Sepultura con Roorback. Ricordo ancora il battage mediatico che anticipò Against: su MTV passavano questi intermezzi pubblicitari col logo spinato e pochi secondi di musica che mettevano addosso una curiosità bestia. Accertato che Against aveva poco più che una bella canzone, Choke, e che Nation almeno si sforzava di prendere una direzione che guardasse oltre Roots, con Roorback i Sepultura si misero a sedere di nuovo. Forse lo fecero perché Nation, per quanto li avesse brutalmente ridimensionati, non era poi così male. Poi Andreas Kisser cacciò fuori un altro album semplicissimo, carico di attitudine hardcore e libero da quelle minchia di brasilianate che dall’intro di Altered State erano finite dappertutto, come un’erbaccia infestante. La produzione di Steve Evetts suonava nitida ma spompa da morire, incapace di graffiare a partire dalla batteria. Ma il più spompo di tutti era l’armadio d’ebano a due ante che avevano messo al microfono: Derrick Greene ci metterà una vita ad ambientarsi, e qui era ancora un pesce fuor d’acqua. Apprezzai per qualche motivo la velocità di Come Back Alive e Leech, disperati tentativi di rifare una Biotech is Godzilla senza il carisma e la rabbia necessari. The Rift era pure migliore. Carucce anche Godless, Apes of God e Mindwar, ma Roorback rimane un disco di merda, con buona probabilità il loro peggiore, poiché all’epoca di Dante XXI e A-Lex si percepirà almeno l’intento di rimettere insieme i cocci e ricominciare da zero o quasi. Il fondo del barile dei Sepultura, un nome troppo ingombrante perché le spalle di Andreas Kisser potessero realmente sorreggerlo.

ODAL – Einst Vererht Von Allen

Griffar: Sugli Odal sono di parte, non riuscirei a parlarne male neanche se si mettessero a suonare cover elettrodance di tutti i successi straordinari, incommensurabili di Jovanotti. Ma per fortuna non ce n’è mai stato bisogno, perché Taaken di dischi in vita sua ne ha sbagliati pochi, e nessuno con il vessillo Odal. Einst Verehrt von Allen è un EP, purtroppo solo un EP perché i quattro pezzi sono uno più bello dell’altro, con quel classico black metal tedesco in minore, evocativo e romantico, privo di funambolismi strumentali e nemmeno sempre lanciato a velocità da razzo interstellare in piena potenza. Durchwandernd Die Heimat, il secondo brano e forse il più bello, è così: atmosferico, quasi dimesso, parte veloce poi stacca in acustico e diventa lento, meditato, intimista. L’omonima in apertura è più martellante e marziale, eppure anche i riff di quest’ultima sono venati da un’ombra di malinconia avvilita e sconsolante, lo sfogo rabbioso di un’anima in pena che cerca vendetta. Pochi riff composti da poche note, tremolo picking prevalente eseguito alla perfezione, suoni e produzione privi di inutili rifiniture. Schiettezza, genuinità, enorme talento nel concepire black metal. Cosa può risultare da tutto questo? Grandi pezzi inclusi in un grande album. Uscì per Christhunt records in CD e in vinile in formato split con i Raven’s Empire, ma senza il brano conclusivo Germansk, e dovrebbe trovarsi ancora a prezzi non eccessivi. Dovrebbe essere di recente approdato anche su Bandcamp sotto l’egida Eisenwald, probabilmente proprio perché ne ricorre il ventennale.

TWISTED TOWER DIRE – Crest of the Martyrs

Barg: Da sempre i Twisted Tower Dire si erano mossi sull’evanescente linea di confine che separa due generi la cui definizione esatta è impossibile formulare, cioè l’epic metal e il power americano (o US metal). Arrivati al terzo album sparigliarono ulteriormente le carte facendosi produrre da Piet Sielck, mammasantissima del power metal europeo di marca tetesca, e difatti Crest of the Martyrs, nonostante le ovvie differenze stilistiche, suona esattamente come ogni altro disco prodotto dal pelatone di Amburgo, con quella batteria meccanica, le chitarre tendenti al grattato, i cori che esplodono come da tradizione crucca e la voce dello stesso Sielck, inconfondibile, che spunta qua e là come una firma d’autore. Ma, nonostante tutto sembrerebbe portare al disastro, Crest of the Martyrs è uscito fuori una bomba. Ma non una bombetta normale, intendo proprio una di quelle esplosioni da Fast & Furious quando Vin Diesel fugge via a bordo della sua Pontiac mentre alle sue spalle un quartiere intero salta per aria. È una roba clamorosissima che chiunque sia vagamente interessato al metallo classico dovrebbe mandare a memoria, e inoltre quella produzione di cui si è parlato prima lo rende paradossalmente molto attuale, tanto che in alcuni passaggi diventa evidente quanto gruppi come i Visigoth vi abbiano tratto ispirazione. Buttate all’aria tutto quello che state facendo e ascoltatevelo prima di subito.

DARK LUNACY – Forget Me Not

L’Azzeccagarbugli: Dopo il fortunatissimo esordio e un ottimo split, i Dark Lunacy ritornavano sul mercato con uno dei loro lavori più riusciti e malinconici in assoluto. Forget Me Not riprende le atmosfere più melò che già caratterizzavano Devoid e le pone al centro delle loro composizioni, con gli archi e le orchestrazioni che, da accompagnamento, si inseriscono nella struttura portante dei brani senza perdere di impatto e di freschezza. Una caratteristica che si percepisce sin dall’iniziale Lunacyrcus, tra i migliori brani dei Nostri, e si ritrova nella gran parte delle canzoni, da Trough the Non-Time all’intensa Serenity (molto vicina a certi Dark Tranquillity) fino all’omonima conclusiva. Al netto di alcune prolissità presenti in ogni loro album, Forget Me Not rappresenta una delle migliori uscite della scena italiana dell’epoca, e quella malinconia che ne è il fulcro rappresenta il valore aggiunto di una band di cui andare orgogliosi.

KLIMT 1918 – Undressed Momento

Roberto Angolo: Vent’anni in un momento: risfogliare le pagine del diario sentimentale ed emozionale dei Klimt 1918, dopo tutto questo tempo, ha quel gusto di quando ritrovi da qualche parte le foto di una vecchia camera in cui hai vissuto e, per un secondo, sedersi ancora lì, ricordare ogni dettaglio ed immaginarne di nuovi. Undressed Momento suona come la ricostruzione di una piccola colonna sonora adolescenziale che è al tempo stesso rielaborazione personale e vissuta di tutto un immaginario sonoro, crocevia ideale tra il pop e la new wave britannica degli anni ’80 e la Svezia metal più malinconica degli anni ’90, filtrati da quella sensibilità capitolina dei primissimi 2000. Tra le sue pennellate tenui, che delineano passaggi e paesaggi di canzoni raccolte e racchiuse su loro stesse, c’è tutto l’entusiasmo dell’adolescenza e la malinconia del futuro, in un saliscendi di chiaroscuri, sprazzi di luce e sferzate più gelide. Il tempo è stato gentile con queste canzoni, cristallizzate in un punto della nostra storia, punto d’inizio e anche d’arrivo, in attesa di essere (ri)scoperte.

DOLCINIAN – Penitenthiagite

Griffar: Opera prima e unica del trio veneto Dolcinian (poi successivamente insieme sotto il vessillo Fourth Monarchy), Penitenthiagithe è un EP di tre tracce (più la intro Gaudeamus Omnes) di un religious black metal assolutamente eccellente. I pezzi sono intrisi di una malvagità assoluta e cristallina e non hanno nulla, ma proprio nulla da invidiare ai fenomeni del genere tipo, che so, i Katharsis. Il riff portante del primo pezzo Penitenthiagithe è un arrangiamento ispirato al canto popolare bisbigliato dal gobbo Salvatore nel film Il Nome della Rosa quando viene cristianamente bruciato sul rogo. Le partiture svariano dal classico assalto frontale black metal a interludi acustici ispirati dalla musica medioevale; vale anche per il secondo brano Historia Fratris Dulcini Heresiarche, nel quale si rintraccia un flauto che accentua la sensazione che la loro fonte d’ispirazione principale fosse la musica delle dark middle ages. Uscito in CD per la minuscola Militia Templi Records, il disco fu ristampato in formato sette pollici gatefold nel 2011 dalla Ordo MCM con il titolo di Poenitentiam Agite alleggerito dell’ultimo pezzo strumentale folkeggiante Hodie Benedicamus Domine, mentre gli altri brani sono riproposti pari pari. Disco di nicchia, vale una riscoperta. Il sette pollici si trova su Discogs a prezzi irrisori, se v’interessa.

DYING FETUS – Stop at Nothing

Ciccio Russo: Destroy the Opposition fu uno dei migliori dischi di death metal americano del decennio, forse il migliore, sicuramente il più influente. Subito dopo la band si sfasciò. Da una parte Jason Netherton, Sparky Voyles e Kevin Talley, che diedero vita ai Misery Index; dall’altra John Gallagher, che rimise in piedi il gruppo con gente nuova. All’epoca Stop at Nothing fu una delusione tremenda. Il confronto mi sembrò impietoso non solo con l’ingombrantissimo predecessore (grazie al piffero) ma anche con Overthrow, l’eccellente Ep che gli ex compagni avevano fatto uscire un paio d’anni prima. Se, al netto dell’operaio in copertina, il concept marxista se ne era andato insieme a Netherton, il suono in realtà non era cambiato così tanto. Gallagher aveva consolidato gli stilemi che nel frattempo erano stati copiati da decine di band, dall’uso lancinante degli assoli al modo di cantare sui mid-tempo, accostabile a volte a una sorta di rap in growling. Però mancavano i pezzi, mancava il manico, mancavano quei guizzi che fanno la differenza. Riascoltato oggi con un po’ di obiettività, Stop at Nothing non è affatto male ma Gallagher avrebbe fatto di meglio in seguito, soprattutto una volta passato alla formazione a tre.

MARILYN MANSON – The Golden Age of Grotesque

Marco Belardi: Vent’anni fa ne lessi di tutti i colori. Che l’album fosse esplosivo, bellissimo, un attacco all’America. Chi addirittura citava Dante Alighieri. Io mi ruppi le palle dal primo istante, e già Holy Wood era stato un grosso passo indietro. Marilyn Manson era un artista avanti: aveva compreso che l’epopea rock e metal per come l’avevamo vissuta negli anni Novanta era bollita, così si buttò sull’estetica. Prima quella glam di Mechanical Animals. Poi quella anni Trenta e Quaranta di The Golden Age of Grotesque con tanto di riferimenti al nazismo. Musicalmente, del compositore efficace e rivoluzionario di Antichrist Superstar non era rimasto più niente. Il disco era una palla allucinante: un’opener elettronica e minimale, con gli arrangiamenti orchestrali per darsi un tono e intitolata This is the New Shit, come a dire che questo passava il convento. Un singolo, mObscene, divertente e di sicuro effetto come Disposable Teens un album addietro, poi un altro paio di singoletti che non ho mai apprezzato fino in fondo. Con tutti quei giochini di parole insulsi tipo (s)Aint. La più famosa del disco divenne una cover dei Soft Cell (a sua volta una cover) proprio come accaduto in Smells Like Children che, però, era di fatto Smells Like Children. Cioè una trappola dei discografici ai nostri danni. Fra i titoli meno morigerati figuravano Ka-Boom Ka-Boom e Doll-Dagga Buzz-Buzz Ziggety-Zag: cioè, ma te ne vuoi andare affanculo? La miglior cosa di The Golden Age of Grotesque fu il titolo, perché all’epoca lui aveva capito anche questo, e oggi ci siamo dentro fino al collo.

AGALLOCH – Tomorrow Will Never Die

Barg: Niente panico se non lo conoscete, perché non vi state perdendo molto. Tomorrow Will Never Die è un semplice EP di sette minuti che contiene solo due pezzi strumentali rimediati dalle registrazioni di The Mantle, il capolavoro degli Agalloch nonché con ogni probabilità uno dei migliori dischi mai creati da mano umana. Il primo pezzo è The Death of Man (part III), null’altro che la riproposizione dell’intro di The Mantle con qualche effettino in più; una cosuccia che a chiamarla trascurabile si rischia di sopravvalutarla. L’altro pezzo è Tomorrow Will Never Come, piacevole divagazione di chitarra classica che si ricollega, come atmosfere e stile, a Desolation Song, il pezzo conclusivo di The Mantle, sempre in bilico tra neofolk e ambient, e sarebbe potuto essere un’ottima outro del disco. Tutto qui. Che io sappia l’EP in questione è stato pubblicato in sole 500 copie e distribuito un po’ ai concerti un po’ agli iscritti al fan club, quindi non ha pretese di alcun genere – e difatti non lo troverete neanche sulle piattaforme streaming.

DIFER NOM BASTA – Bloangen

Griffar: Oscura entità secondaria del panorama brutal death, questi messicani dal nome bizzarro durarono il proverbiale battito d’ali. Il debutto fu pubblicato dalla connazionale, trucidissima American Line recordings, devota alla produzione di gruppi goregrind ultraviolenti come Oxidised Razor, Paracoccidioeccetera e cose così. Bloangen in realtà non è così annichilente. Si può trovare fastidiosa la batteria elettronica, fin troppo sparata nei tempi e nei volumi, ma altri difetti il disco non ne ha. Innanzitutto, è brevissimo (sette brani per mezz’ora appena). Il riffing è frenetico e intricato, ispirato un po’ ai vecchi Cannibal Corpse e un po’ a certo death metal svedese, più tecnico, più attento alla melodia. Le voci non sono eccessivamente estreme e talvolta vengono distorte da effetti elettronici che le rendono particolari e stranianti. Una piccola gemma di brutal death tesissimo e coinvolgente. Da riscoprire, potrebbe sorprendervi. Di loro pare esista anche una demo uscita dieci anni fa, inosservata ed irrecuperabile, poi il nulla: lo status su Metal Archives è “sconosciuto”. Abbiamo capito, Bloangen non avrà mai un seguito.

nasum_helvete

NASUM – Helvete

Ciccio Russo: Benché li avessi scoperti con Human 2.0, da giovincello Helvete era il mio album favorito dei Nasum. Il predecessore mi era sembrato un lavoro di transizione rispetto al formidabile Lp d’esordio Inhale/Exhale, che ancora risentiva di quelle influenze crust e d-beat alle quali il compianto Mieszko Talrczyk avrebbe poi reso il giusto tributo con i suoi Genocide Superstars. Oggi la vedo in modo un po’ diverso: Helvete fu un disco più accessibile, più in grado di catturare al primo impatto proprio perché il suono degli svedesi ne uscì addomesticato, se non annacquato. I metallari ne andarono matti, qualche grindarolo della prima ora storse il naso. Troppa melodia, troppa linearità, non abbastanza sbrocchi. Poi il disco è comunque una bomba, si capisce.

STAIND – 14 Shades of Grey

Barg: Nel 2003 gli Staind erano un gruppo famosissimo e decine di milioni di persone aspettavano ansiosamente il loro nuovo album nella speranza che potesse essere un degno successore di Break the Cycle. Giuro, non sto scherzando. Alla prova del fuoco poi 14 Shades of Grey deluse parecchia gente, perché non aveva singoloni spaccaclassifica acustici o semiacustici come Outside o It’s Been a While, ma io sono tra i pochi che preferiscono questo quarto album di Aaron Lewis e soci al precedente. Mi è sempre piaciuto tantissimo, anche perché lo trovo più omogeneo, nonostante duri un’ora abbondante: di pezzi deboli ce ne sono pochi (uno tra tutti Layne, dedicato a potete immaginare chi) e di contro è pieno zeppo di pezzoni. I testi sono quelli che sono, e grossomodo si muovono tutti su lagnanze e lamentazioni sulla vita che fa schifo, il che fa chiaramente più presa su un adolescente; però un adulto è tale anche perché è in grado di contestualizzare le cose, no? Posso comunque spingermi ad affermare che 14 Shades of Grey è per me il miglior disco mai uscito fuori dal nu grunge. Se il genere vi repelle passate oltre, altrimenti sapete cosa fare.

THYRANE – Hypnotic

Griffar: I Thyrane hanno scritto tre dischi imperdibili: Black Harmony, Symphonies of Infernality e The Spirit of Rebellion, tra il 1997e il 2000. Questo quarto lavoro esce a nome Thyrane ma non ha assolutamente nulla a che fare con quanto composto in precedenza, e cioè black sinfonico talvolta intricato e thrasheggiante oscillante tra il sublime e l’incommensurabile. Non è neanche più black metal, è una sorta di techno-industrial con vaghissime reminiscenze heavy metal che ti fanno chiedere: “Ma se del black metal non gliene fregava più un cazzo e volevano suonare musica diversa, perché non hanno sciolto la band e proseguito con un altro moniker?”. La risposta che mi do è che così facendo avrebbero dovuto ripartire da zero, e questo comportava rifare la gavetta, scavarsi la propria nicchia, competere con altri gruppi che suonavano quel genere da molto tempo prima… Molto più semplice intortare i tuoi vecchi fan, propinargli roba quasi antitetica a quella che hai sempre suonato per poi lamentarsi se del tuo nuovo disco si scrivono opinioni paragonabili a maremoti di letame. Con tutto il rispetto ma a me questa sembra una manovra subdola di marketing infido e scorretto. Piuttosto che questo schifo date una chance agli Aborym perché il termine di paragone potrebbe essere quello, ma ho l’impressione che, mentre la band di Fabban in questo tipo di sonorità ci credesse convintamente, i Thyrane l’hanno fatto solo per seguire una moda. Il disco è pessimo e da evitare accuratamente; me lo ricordavo come obbrobrioso e ho provato a riascoltarlo senza riuscire ad arrivare al terzo brano. Esiste un altro album del 2005 (Travesty of Heavenly Essence, mai ascoltato e ci mancherebbe altro, chi si brucia con l’acqua calda ha paura anche della fredda) poi più niente. Spero fermamente che i Thyrane si guardino bene dal ritornare sulle scene, dopo oramai 18 anni. Fu il mio disco ciofeca dell’anno, se vi può interessare.

GLITTERTIND – Evige Asatro

Barg: Questo è un disco veramente strano. Da copertina, logo, uso della lingua norvegese e tema lirico uno potrebbe essere sicuro che si tratti di viking metal o qualcosa di molto simile, e invece proprio no. Evige Asatro, debutto dei Glittertind, è una strana commistione di generi alla cui base c’è l’hardcore melodico (o pop punk, o in qualsiasi modo lo volete chiamare), il che restituisce l’immagine di vichinghi con il cappellino al contrario e i bermuda larghi che assaltano l’abbazia di Lindisfarne a bordo di skateboard. Un pezzo come Fjellheimen Gir Meg Fred in mano ai Pennywise sarebbe potuto essere un successone mondiale, così come Se Norges Blomsterdal e la maggior parte delle altre tracce. L’album tradisce comunque una comprensibile immaturità e confusione che si traduce sia nell’esecuzione (in questo senso molto punk) sia nell’incapacità di capire esattamente che cosa si vuol fare e dove si vuole andare. Ad esempio a un certo punto arriva Nordmannen, con la quale i ritmi si abbassano, l’andamento si fa più cadenzato e una certa vena viking riesce a fare capolino; niente di particolare però, più una specie di Oppi Fjellet da birrone in taverna. Frostriket invece ha qualcosa di power metal, e Olav Digre sembra suonata da dei Falconer liceali all’assemblea d’istituto. Il disco è carino come potrebbe essere carino un disco del genere, e parte del suo fascino è derivato proprio dalla sua ingenuità, al punto che se il riff portante di Sonner av Norge inizia uguale a Nella vecchia fattoria non ci si fa neanche troppo caso. Da ascoltare come sottofondo in macchina ora che è arrivata la bella stagione.

LAMB OF GOD – As the Palaces Burn

Marco Belardi: Ribadisco tutto quel che dissi a proposito dei Lamb of God nel 2020, dunque non sarà il caso di redigere alcun riassunto. Ma, se proprio devo tesserne le lodi, questa è l’occasione giusta: il ventennale di As the Palaces Burn, non più spontaneo come i primi lavori, quelli in cui Chris spadroneggiava, ma un album maturo e che fa il paio col celeberrimo Ashes of the Wake. Fra il 2003 e il 2004, a mio parere, i Lamb of God hanno raggiunto l’apice per poi ridiscendere, e in quel biennio ho provato a dedicar loro tanti ascolti e tanta pazienza. Ma, se occasionalmente ne rimetto su un disco, è quasi sempre As the Palaces Burn. Forse perché me ne ricordo qualcosa, a differenza di quasi tutto il resto della loro discografia, tanto bella nei riff e nel groove quanto inconsistente nelle canzoni. As the Palaces Burn è una fucina di riff vincenti e arrangiamenti curati col piglio di chi ha raggiunto la maturità artistica. È divinamente prodotto da Devin Townsend, un fattore che all’epoca contribuì non poco ad avvicinarmi a loro, che all’epoca alcuni definivano i nuovi Pantera, altri un misto di Slayer, At the Gates e tant’altro. L’omonima aveva in effetti un che del modus operandi del gruppo di Tompa Lindberg, così come 11th Hour ritirava fuori un certo flavour scandinavo con tanto di ripartenza alla Dark Tranquillity dei bei tempi. L’inizio di quel pezzo è tutt’ora considerabile da manuale, così come Ruin. Un bell’album in cui riesco a godermi più la parte esecutiva che i brani in sé: qui i Lamb of God avevano davvero raggiunto la cima.

ENDSTILLE – Frühlingserwachen

Griffar: Questa recensione breve sarà breve veramente, per la gioia di Ciccio. Non c’è una gran necessità di dilungarsi troppo sul secondo disco dei tedeschi Endstille: come tutta la prima parte della loro discografia – diciamo fino al quarto album, Navigator – la loro musica è pesantissimamente influenzata da Panzer Division Marduk, di conseguenza qui troverete in prevalenza fast black metal tiratissimo a tema guerresco senza grandi pause e senza per questo dover essere etichettato war black metal. Ci sono sì alcune parti rallentate a movimentare un po’ le partiture di quello che viceversa sarebbe un blast beat continuo (la parte iniziale di Defloration ad esempio), ma nel complesso direi che non è un errore definire Frühlingserwachen un figlio di primo letto del famosissimo disco dei famosissimi svedesi. Come tale è divertente perché ha grinta da vendere e fa della violenza sonora il suo unico credo, inoltre dura abbastanza poco – meno di trentacinque minuti – i pezzi funzionano, i riff sono scritti bene e si riascolta con piacere anche dopo vent’anni… e quasi si fa fatica a dover accettare che ne siano già passati così tanti. Non fanno uscire nulla di nuovo da una decina d’anni ma ogni tanto suonano ancora dal vivo, specialmente ai megafestival. Chissà, prima o poi… anche se non è che gli album che hanno pubblicato più recentemente siano roba da strapparsi i capelli per la libidine. Bisogna essere fiduciosi.

BLUR – Think Tank

L’Azzeccagarbugli: Mentre gli ex “ragazzi” di Colchester stanno per tornare con un nuovo album, The Ballad of Darren, anticipato dal riuscito singolo The Narcissist, ci troviamo a festeggiare i vent’anni di quello che sarebbe potuto essere – come è stato per molti anni – l’ultimo disco dei Blur. Think Thank incorpora il suono di una band che non aveva più niente da dimostrare e che stava per scoppiare, con Graham Coxon presente solo sulla buona ballad Battery in your Leg. L’album può essere riassunto con due passaggi tratti dai primi due brani: I ain’t got nothing to be scared of (dalla bowieana Ambulance) e And you’ve been so busy lately / That you haven’t found the time  /To open up your mind (dalla splendida Out of Time). Think Tank infatti è l’ultimo passo di un allontanamento totale dal brit-pop degli esordi, in cui i Nostri (e soprattutto Albarn) hanno messo dentro tutto quello che avevano in mente e che apprezzavano musicalmente in quel periodo, senza paura. Incide l’esperienza dei Gorillaz in brani come Crazy Beat e Brother and Sisters, l’influenza dei Talking Heads in Moroccan Peaole Revolutionary Bowls Club e c’è spazio persino per il punk in We Got a File on You, mentre per trovare composizioni più facilmente riconducibili alla band dobbiamo attendere la dolcissima Sweet Song e la conclusiva e già citata Battery in your Leg. L’album è quasi “ontologicamente” altalenante e all’epoca divise molto, ma per chi scrive Think Thank resta il lavoro più libero dei Blur e quello che, anche dopo due decenni, è capace di sorprendere di più e di anticipare tutte le traiettorie future di quel grande artista che è Damon Albarn.

GRAVE DIGGER – Rheingold

Barg: Finisce l’intro e parte per l’ennesima volta il riff di Heavy Metal Breakdown, così ci sentiamo tutti a casa. Dopodiché dobbiamo affrontare quasi un’ora di musica per arrivare alla fine; sarei tentato di dire che ne sarebbe bastato un terzo per farci un EP, ma non sono neanche così sicuro che qui dentro ci siano idee bastanti per un EP di venti minuti. Rheingold mostra già chiaramente l’andazzo preso dai Grave Digger negli ultimi due decenni abbondanti: un metallino tetesco scolastico, esasperatamente corale, con pochissimi guizzi, che punta un po’ troppo sui ritornelli a scapito dei riff e delle chitarre in genere. Nell’album in questione forse la migliore è Hero, dimenticata in fondo alla scaletta, una malinconica semiballata elettrica che, proprio per questo suo essere altro rispetto al resto del disco, ne emerge nettamente. Per il resto tanta noia, come nell’incomprensibile Valhalla o in Liar, quest’ultima preoccupantemente simile alla’omonima di Excalibur di pochissimi anni prima. Non si sa proprio cosa salvare di Rheingold, e probabilmente fu proprio con questo disco che mi decisi a mettere l’anima in pace coi Grave Digger e azzerare le mie aspettative per il futuro. Una nota di colore: l’album si conclude con Goodbye, terrificante ballatona voce-piano-tastiere che potrebbe dare soddisfazione solo se sentita in una qualche gasthaus in mezzo a tedeschi sbronzi vestiti in costume bavarese che singhiozzano abbracciandosi e cantando tutti in coro. Quindi, se non avete in programma di sbronzarvi in una gasthaus nel prossimo futuro, consiglierei di rimettere su Tunes of War, ché non ci si sbaglia mai.

COBALT – Hammerfight

Griffar: Mi fa piacere parlare dell’esordio degli americani Cobalt perché Eric Wunder, factotum dell’intero progetto, è stato un mio “amico di penna telematico” ai tempi del forum della Fullmoon productions, che era sì pieno di casi umani ma veniva frequentato anche da Malefic (Xasthur), Lord Imperial (Krieg) e per l’appunto Eric, con il nick Cobalt Attack. Ci rispettavamo a vicenda e abbiamo condiviso idee o discussioni riguardo il black metal che a quei tempi erano ancora possibili, mentre oggi – immagino, dato che non frequento i social network – andrebbero in vacca al quinto post. Visto che poi le spese di spedizione non erano imbecilli come odiernamente, comprai al volo il loro EP d’esordio, realizzato in 300 copie in modo abbastanza artigianale da un’etichettina di nome Pestifer records. A quei tempi il ragazzo (che aveva all’incirca 20 anni) suonava war black metal, di quelli grezzi che più grezzi non si può. A confronto i Conqueror sono Malmsteen, ma un termine di paragone più calzante sono i Blasphemy. I quattro pezzi sono comunque piuttosto lunghi visto che la durata dell’EP è di circa 22 minuti. Il disco ha un demo sound da registrazione in presa diretta in una cantina di qualche fatiscente chalet in Colorado da fare invidia alle Black Legions francesi, melodie scarse o quasi del tutto assenti, furia, aggressività, odio e cazzimma a bizzeffe. Un disco giovanilistico, perché in seguito i Cobalt hanno spostato i loro orizzonti musicali verso situazioni sludge a-la Neurosis, sempre mischiato con un tocco di black metal tipico di questi tempi primevi (vedasi il consigliatissimo Gin, 2009). Risultano ancora attivi, ma il quarto e per ora ultimo episodio Slow Forever risale al 2016.

WIRE – Send

Lorenzo Centini: Pink Flag, Chair Missing, 154. 1977, 1978, 1979. Punk, post-punk, new wave. I Wire non si sono limitati a fare la Storia: ne hanno fatte tre, in tre anni. Anima triplice, anche: dualismo art rock intellettuale (Colin Newman, voce e chitarra) contro rabbia punk con la bava alla bocca (Graham Lewis, voce e basso), ma anche romantica psichedelia barrettiana, straniante, spesso dai toni oscuri. Completavano la formazione il chitarrista Bruce Gilbert e il batterista Robert “Gotobed” Grey. Sempre comunque buoni nel corso degli ’80 (flirtando con dance e techno), per gran parte dei ’90 il nome Wire è rimasto sottobrace, sia in quanto a produzione che di riconoscimento di una generazione impegnata a suonare altro (parlo sempre di rock, nell’elettronica spero gli abbiano tributato quanto meritano). Nel 2002, l’uno-due inaspettato degli Ep Read & Burn 01 e 02, poi confluiti nel 2003 in questo Send (non integralmente, un capolavoro come Trash/Treasure è rimasto inspiegabilmente fuori dalla scaletta originale del disco). In Send ritrovammo la formazione originale, incanutita, con gli acciacchi dell’età e gli occhiali per correggere la presbiopia. In Send ritrovammo un gruppo monumentale. Il terzo di psichedelia quasi del tutto sacrificato, al suo posto un approccio elettronico cinico ed affilato. Approccio solamente, perché Send è quasi del tutto suonato. Send è un disco di punk suonato come fosse elettronica. Send ha una lucidità di visione che una band di 25 anni di carriera raramente ha. Solo i Killing Joke, quello stesso anno (con l’omonimo), ma ancor di più tre anni dopo (con Hosannas from the Basement of Hell), sarebbero riusciti a fare altrettanto. Comunque, prima i Wire avrebbero ricomposto l’ordine atteso col terzo Read & Burn (03, del 2007), poi avrebbero ancora prodotto uscite rilevanti. Ma il calcio in culo di Send resta un unicum.

CATAMENIA – Chaos Born

Michele Romani: Sarebbe da chiedersi il reale motivo per cui, negli anni, i Catamenia siano stati così sbertucciati da riviste specializzate (prima) e webzine (poi). Negli anni ’90 infatti la principale “colpa” del sestetto di Oulu era quello di suonare troppo melodico rispetto al black metal che andava per la maggiore, e la cosa è abbastanza buffa considerando che il suono dei primi Catamenia non è troppo distante dalla gran parte di band finlandesi che al giorno d’oggi vengono idolatrate. Chaos Born ( sempre con l’immancabile lupo in copertina) da questo punto di vista non si distanzia quasi per nulla dai primi quattro dischi: siamo sempre di fronte ad un black ipermelodico di tipica scuola finnica con abbondante uso di tastiere, anche se qui si può già notare qualche rimando all’heavy classico e ad atmosfere più goticheggianti (The Fear’s Shadow ad esempio) che prenderanno il sopravvento nella purtroppo deludente produzione successiva. Per il resto, come dicevo, il disco si muove sul classico imprinting dei Catamenia, vale a dire brani sparati alla velocità della luce, assoli ultramelodici di tutto rispetto e sporadiche aperture acustiche che compaiono qua e là. In pratica, tutto l’armamentario che ha fatto amare/odiare i finlandesi nel corso degli anni.

DIAMATREGON – Charognard

Griffar: Ed è tempo di compleanno anche per Charognard, breve EP uscito in vinile sette pollici che chiude in un certo senso il primo capitolo della storia dei francesi Diamatregon, originari di Grenoble, Alta Savoia, ambiente alpino, montagnoso e dannatamente freddo, se porta il tempo. Tutte cose che si sentono nel suono del gruppo, che scrive un black metal rozzo, gelido, molto ispirato dalla prima tradizione nordica. L’approccio dei Diamatregon alla scrittura dei brani è sempre stato decisamente primitivo, anche nei due full immediatamente precedenti a questo EP, e cioè The Satanic Devotion (2000) e Blasphemy for Satan (2002). I ragazzi vomitano un black metal spartano, grezzo, privo di alcun arrangiamento rifinito che possa addolcire o mitigare la rozzezza sulla quale sono intenzionalmente imperniati tutti i loro pezzi. Charognard contiene tre brani originali più due cover: Sex and Violence dei Carnivore (la prima band di Pete Steele) e Majestic Desolate Eye dei DarkThrone, ma nel disco precedente avevano coverizzato anche i Misfits (Death Comes Ripping), per ribadire quali fossero le loro influenze principali e quanto ne andassero fieri. I tre pezzi originali sono un assalto frontale, un concentrato di brutalità che soddisferà senza dubbio i puristi del black metal della prima ora e provocherà smorfie di disgusto in tutti gli ascoltatori che prediligono una visione più rifinita del genere. Dopo questo EP la band fu messa in ghiaccio per un periodo di tempo non brevissimo. In seguito uscì un terzo full (Crossroads, 2009) con alcuni brani meno diretti affiancati ad altri più consoni alle loro composizioni più datate; infine un sette pollici contenente pezzi non inclusi nell’ultimo disco (To Death) fu pubblicato nel 2012 da Drakkar records. Sembrava che dopo decenni di profondo underground i Diamatregon si fossero accasati presso un’etichetta che gli avrebbe garantito più visibilità, invece l’EP è rimasto un episodio isolato e da allora del gruppo non c’è più traccia.

ELECTRIC SIX – Fire

Barg: Per qualche tempo la mia suoneria del telefono è stata il riff di Gay Bar, uno dei singoli di quest’album. Questo potrebbe lasciare intuire quanto mi avesse preso bene Fire, debutto di quell’assurda band che sono stati gli Electric Six; e dico sono stati perché, anche se esistono tuttora e hanno pubblicato ben QUATTORDICI dischi in vent’anni, questo Fire è l’unico che abbia mai ascoltato. Ma l’ho ascoltato parecchio, fidatevi: del resto una volta messo nel lettore è difficile non arrivare alla fine battendo il piedino con un sorriso scemo stampato in faccia. Il genere è abbastanza indefinibile, come di solito accade con i gruppi che non si prendono strutturalmente troppo sul serio, e la tradizione è lunga, da Frank Zappa a Elio e le Storie Tese. C’è comunque parecchia fascinazione per la discomusic anni Settanta, nei ritmi e nell’immaginario, mischiata a un indie rock abbastanza tamarro che tradisce l’origine prima dei membri del gruppo. Gli Electric Six fanno sghignazzare, volutamente e in senso buono: pezzi come Dance Commander, Danger! High Voltage, Naked Pictures (of your Mother), la citata Gay Bar o ancora Nuclear War (on the Dance Floor) e Synthetizer sono talmente assurdi ed esagerati che diventa impossibile non innamorarsi di loro, a meno che non abbiate il famoso bidone della spazzatura al posto del cuore. E, vi prego, guardate i video.

DIE APOKALYPTISCHEN REITER – Have a Nice Trip

Bartolo da Sassoferrato: Ho sempre pensato che i Reiter fossero la classica band che sembra cazzarona ma non lo è, e che per questo riceva meno attenzioni di quante meriterebbe. La storia si ripeterà spesso, nel loro caso. La registrazione del disco ebbe storia travagliata a causa di problemi di salute dei musicisti, che si videro costretti a cambiare qualche membro in corso d’opera. Ma i cambi, è risaputo, possono donare nuova vitalità. E Have a Nice Trip propone in effetti musica totalmente nuova: da un certo punto di vista potrebbe essere considerato l’album della svolta per i Die Apokalyptischen Reiter, che probabilmente a causa di un embolo collettivo presero a comporre musica particolarmente eclettica. Il disco non appartiene a un genere specifico. È metal perché il metallo c’è, ed è la parte preponderante. Ma troviamo influenze di musica iberica e mediorientale. Troviamo growl e troviamo cantato pulito. Troviamo tirate thrash, troviamo doom e troviamo funk. Anche dal punto di vista lirico c’è molta varietà: dalle domande filosofiche sul senso della vita si passa alle smargiassiate da metallari ubriachi. Insomma, troviamo la pizza e i fichi. Troviamo il cazzo e la fregna. Ce n’è per tutti i gusti. Ma c’è del metodo nella composizione delle canzoni e dell’intero disco, che risulta piacevole  anche dopo vent’anni (e, dal punto di vista della produzione e del missaggio, sembra uscito ieri). I musicisti sono validissimi e capaci ma su tutti spicca il cantante: non ha solamente una voce invidiabile e una tecnica vocale che gli permette variazioni stilistiche fulminee, ma anche un carisma veramente trascinante, tutte cose che si possono sentire nella splendida cover di Master of the Wind dei Manowar. Nota personale: Terra Nola, uno dei più riusciti del disco, è un ottimo brano per fare sequenze di boxe al sacco pesante. Provare per credere.

6 commenti

Lascia un commento