DIE APOKALYPTISCHEN REITER – The Divine Horsemen un cazzo

Pare che i Die Apokalyptischen Reiter avessero a disposizione oltre otto ore di musica, il giorno in cui sono terminate le jam session per The Divine Horsemen. Cominciate, ci hanno detto, soltanto ieri.

L’album è stato concepito così, in una sorta di tributo al primo quarto di secolo di carriera. Ed è stato presentato con una foto promozionale a metà fra i Sepultura di metà anni Novanta – che giocavano a fare i palombari/guerrieri nel fango, con le lance e i monili per combattere spiriti, capitalismo e invasori d’ogni sorta – e il Jerry Cantrell di Boggy Depot che si rigenerava l’epidermide in pozzanghere sotto la cui superficie è andato a marcire ogni animale ammalatosi in tutta l’Arizona. Il reale intento dei Die Apokalyptischen Reiter, lo sappiamo, è sempre stato quello di provocare un forte choc all’ascoltatore, e, per quanto il giochino gli fosse ben riuscito all’epoca di Allegro Barbaro e All You Need is Love, a un certo punto si è fatto ripetitivo e inefficace. Così come ha perso ogni credibilità il fattore citazionismo, con tutti quei titoli che goffamente e noiosamente ruotano attorno ai cavalieri dell’apocalisse, alla parola Reiter e a quant’altro. Voglio dunque ricordarli così, presuntuosi, vestiti in giacca e cravatta ed alle prese con un tipo di heavy metal che, seppur contemporaneo agli Hollenthon e in qualche modo infilato a forza nel calderone del folk, era pressoché inclassificabile. E funzionava bene, oltre a incuriosirci un po’ a priori.

Delle otto ore di cazzate estrapolate da una jam session di quarantotto ore ci si è ridotti a una selezione finale di ottanta minuti di musica, un’esagerazione se si considera che i nove che compongono Inka sono la solita musica che avreste di sottofondo in una di quelle stanza dove si fanno le inalazioni di sale per ripulire i bronchi. Ci sono stato una volta, c’era uno schermo da un milione di pollici che riproduceva pallosissime immagini amatoriali di montagne e boschi e la musica era niente meno che Inka dei Die Apokalyptischen Reiter. O una sua fedele riproduzione embrionale, tipo Roots Bloody Roots quando uscì mezza industrial e poi diventò quella definitiva.

Generalmente ascolto un album due, tre, anche dieci volte finché non mi sento pronto a scriverne. Non c’è una regola scritta e so soltanto io quale sia il momento per troncare con l’ascolto, buttar giù due righe (che esploderanno in un volume enciclopedico a pomeriggio inoltrato), ed eventualmente riprendere in un secondo momento. Ci sono poi album che apprezzo e non riascolterò mai in vita mia, come l’ultimo delle Crypta che ho appena recensito: un paradosso, questo, se considero che odio Illud Divinum Insanus ma lo riascolterei sino allo sfinimento, anche in questo preciso istante e con la febbre. Anzi, lo metto.

Ho scritto di The Divine Horsemen nel momento preciso in cui ne ho terminato il primo ascolto, un approccio da compito in classe, da medicinale che devi buttar giù. Se mai mi fossi fermato a metà scaletta, la risultante non si sarebbe spostata di una virgola: abbiamo in eredità (per celebrare un quarto di secolo di carriera di cui cinque annate buone) quattro o cinque abbozzi di canzoni – e un paio sono davvero passabili, ma comunque delle energiche b-side – più quella Aletheia da cui hanno pure estratto un videoclip di quattro minuti e mezzo, ritraente teste di cavallo, tamburi e un banale motivetto che vorrebbe essere la loro Ratamahatta quanto Ghostriders in the Sky volle essere il loro inno da osteria, boccali pieni e bandiera della Germania che sventola. In quel caso, sebbene io la detesti, andò comunque meglio che oggi.

Considero i Die Apokalyptischen Reiter una band in pieno stallo creativo già da Have a Nice Trip del 2003, con un’unica parentesi positiva individuabile in quel Riders on the Storm uscito un po’ più avanti nella linea temporale. Per quanto Der Rote Reiter ci avesse di recente offerto timidi segnali di risveglio, il calcio nei coglioni che definiscono “disco” nel 2021 (quando tutti hanno avuto il tempo necessario a produrne uno sensato, se non buono, mentre loro si sono limitati a chiudersi in sala per 48 ore, tempo massimo oltre il quale i Pantera, nel 1996, se segregati nella medesima stanza, si sarebbero uccisi a vicenda) è un qualcosa di inqualificabile e ingiustificabile. E non lo rimetterò mai su, neanche per una parziale seconda passata. Rimetto i Morbid Angel, quei Morbid Angel, che tutte le volte soffrirli e sopportarli è una vera goduria. (Marco Belardi)

One comment

  • I primi 5 (fino a Samurai) ce li ho anch’io, e li ho sempre considerati una specie di joke-band. Un paio di ascolti sono divertenti, riascoltarli una volta ogni 5 anni pure, magari ad una festa come divertissement funzionano bene. Peró obiettivamente c’è di molto meglio in giro e non incidono un disco apprezzabile da tanto di quel tempo….

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