Avere vent’anni: AGALLOCH – The Mantle

Il ventennale di The Mantle cadeva ad agosto, ma ho deliberatamente ritardato di un mese la recensione perché questo non è un disco che si può ascoltare col caldo torrido e le infradito ai piedi. Il motivo è molto semplice: ci sono dischi che rappresentano qualcosa, che può essere un concetto, un’atmosfera, un messaggio o altro; e The Mantle rappresenta l’autunno. Autunno inteso sia come stagione dell’anno che come senso di rannicchiamento in sé stessi, quiete e tormento interiore dopo l’euforia estiva, contemplazione della morte del mondo e sonnecchiosa attesa della sua rinascita. L’autunno è forse la stagione più affascinante di tutte, e vent’anni fa gli Agalloch riuscirono a riprenderne perfettamente lo spirito.
The Mantle è intriso di tutti i sapori, gli odori, i colori e i rumori dell’autunno. Il rumore dei passi su un tappeto di foglie morte scricchiolanti. Un camino acceso mentre fuori dalla finestra piove e il cielo è plumbeo. I boschi dalle fronde marroni che danno rifugio agli uccellini fradici e infreddoliti. Le castagne che sfrigolano e scoppiettano sul fuoco. Il senso di rassegnazione per l’eterno ciclo della natura, in cui tutto muore per poi risorgere, al di là della portata delle azioni umane. L’autunno è la stagione più affascinante di tutte, e The Mantle ne è la perfetta trasposizione in musica. Il suo fascino toglie il fiato, dissecca la lingua, svuota la mente. Ora più che mai, this is the magic that a name would stain. Parlare di quanto sia stato importante e influente, o di come abbia proiettato gli Agalloch nell’Olimpo dei grandissimi è parimenti inutile, perché The Mantle va oltre i suoi stessi autori, che qui sembra si siano abbeverati alla divina fonte delle Muse. I dischi precedenti e successivi del gruppo di John Haughm sono più o meno tutti notevoli, ma a stento avvicinabili a questo capolavoro.
Descriverlo stilisticamente non è per nulla semplice, e sì che in molti ci hanno provato. Un retroterra chiaramente black metal, influenze dei primi Opeth e di tutto ciò che c’è intorno, approccio a tratti neofolk apocalittico eccetera. C’è tutto questo e molto altro ancora, ma rielaborato in un modo unico e mai neanche provato prima. Anche la scaletta è peculiare, con l’alternanza tra pezzi cantati e pezzi strumentali, con la struttura ad anello tra la prima A Celebration for the Death of Man e la penultima …And the Great Cold Death of the Earth, con la conclusiva A Desolation Song che si pone fuori dall’album per stile e tematiche, con le lunghe improvvisazioni che si nascondono nelle lunghissime strumentali. The Mantle è un’ode alla Natura da un’ottica panteista, una presa d’atto della vacuità e piccolezza dell’Uomo di fronte alle forze del Creato; e ne è l’ode definitiva, la presa d’atto definitiva. Aspetto da vent’anni un disco che riprenda queste tematiche e queste atmosfere avvicinandosi The Mantle, ma invano.
Per me The Mantle è senza alcun dubbio il disco migliore uscito dal 2000 in poi, insieme forse al solo Warriors of the World per il quale però ammetto una certa partigianeria, e probabilmente uno dei miei dischi preferiti in assoluto. Ora che la temperatura si è abbassata, la pioggia picchietta sulle finestre e il mondo si avvia verso la sua ciclica morte, è tempo di riprendere come ogni anno The Mantle, ascoltarlo a occhi chiusi e perdersi nella sua atmosfera rassicurante come il calore dei ciocchi di legno in un camino acceso. Vale la pena ripetersi: The Mantle è uno dei dischi più belli mai incisi. (barg)
Uno dei dischi che ti fa ringraziare di essere nato; e di aver iniziato, un giorno, ad ascoltare musica metal.
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Idem. Adorazione assoluta. Tra l’altro uno dei pochi dischi, assieme a una manciata degli Opeth, che mi ha tenuta legata al metal quando dal metal mi ero presa una pausa, nei primi 2000. Loro immensi, questo album tra i più belli concepiti da questo genere.
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Una delle ultime espressioni di un certo modo di mettere la malinconia in musica, che poi finirà definitivamente perso. Tra l’altro pure gli stessi Agalloch per il resto poco mi hanno trasmesso. E c’è anche una sorta di sguardo distaccato sulla natura che riporta inevitabilmente a Burzum
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Belle atmosfere, quello sicuramente! Secondo me, per semplificare al massimo il mio commento, hanno fatto un ottimo risultato mescolando molto bene le atmosfere di Burzum di filosofem, dei Katatonia di Brave Murder Day, dei Death in June di what else when the symbols shatter…. Tre gruppi che a differenza degli agalloch hanno inventato un genere proprio e personale. Nelle parti acustiche immagino che Haughm si senta l’ombra di Douglas P. dietro le spalle che lo osserva seriosa. E, come è noto, al leader dei Death in June è meglio non dargli le spalle…
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Io preferisco il primo album. Sono capolavori, ma concordo con te sulle influenze troppo ingombranti… Ma Douglas è attivo o passivo?
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I primi tre degli Agalloch sono roba proprio bella bella. Ricordo ancora che The Mantle lo comprai a 15 anni, nel negozio di dischi del mio paese. Era nella sezione “Musica per reietti sociali”, dove comprai le cose migliori della mia adolescenza.
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