Avere vent’anni: MANOWAR – Warriors of the World

Warriors of the World è la consacrazione formale dei Manowar, e il percorso per arrivarci parte da lontano. Loro avevano sofferto tantissimo il periodo a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta: innanzitutto la mancanza di pubblico, visto che le mode erano cambiate e gruppi come loro erano agli antipodi di ciò che andava per la maggiore, anche solo concettualmente; poi le defezioni di Scott Columbus ma soprattutto Ross the Boss. Lo scioglimento sembrava molto più di una possibilità teorica. E tutto questo poco dopo il trionfale tour di Kings of Metal, che sembrava poterli proiettare verso nuove dimensioni. Una situazione che avrebbe portato moltissimi a fare compromessi per sopravvivere, ma la loro risposta fu incredibilmente true: The Triumph of Steel, un disco cupo, ostico, cattivo, rancoroso, aperto da una suite di quasi mezz’ora come a dire vaffanculo voi e le camicie di flanella, abbiamo ragione noi. Poi arriva il revival del metal classico, con orde di giovani metallari che riscoprono le vecchie glorie e idolatrano i cloni delle stesse. Loro tornano con Louder than Hell, disco anthemico più che epico, quasi beffardo, che sa di euforia sbruffona dopo averla scampata per il rotto della cuffia. A quel punto è fatta: lo status di leggende gli è riconosciuto universalmente, i festival fanno a botte per averli come headliner e la loro fama addirittura aumenta rispetto agli anni Ottanta. I Manowar erano entrati nel giro dei grandi.

Dunque non c’era mai stata un’attesa per un nuovo disco dei Manowar come fu per Warriors of the World. All’inizio del millennio legioni di metallari guardano a loro come a dei Messia dalle cui labbra pendere, aspettando loro nuova musica come si aspetta un’apparizione divina che dall’alto elargisce beatitudine e verità. Loro lo sanno, sono pienamente coscienti del ruolo che gli è stato dato da interpretare e dell’importanza che verrà data alla loro musica e alle loro parole. Sentono di avere delle responsabilità. E per una fortunatissima combinazione di fattori positivi scrivono esattamente quello che dovevano scrivere.

La struttura dell’album è strana. Si apre con una chiamata alle armi, Call to Arms. Il secondo pezzo è una specie di marcetta militare, The Fight for Freedom. Poi il Nessun Dorma. Poi una ballata incredibilmente epica, Swords in the Wind. Poi An American Trilogy, una cover di Elvis. Poi una strumentale di quattro minuti, The March. Dopodiché il disco prende una piega inaspettata.

Scott Columbus entra in midtempo pestando quel rullante come un fabbro, Joey si sovrappone col basso. È Warriors of the World United, inno identitario e immancabile cavallo di battaglia in ogni concerto dei Manowar di lì all’eternità. With dreams to be a king, first one should be a man. Un pezzo talmente semplice che ti chiedi com’è che non l’avesse mai scritto nessuno.

E poi ci sono i tre pezzi veloci alla fine. Perché abbiano voluto ingolfare la parte centrale con pezzi lenti e poi mettere i tre pezzi veloci tutti insieme alla fine è un argomento su cui all’epoca si sono scritti fiumi di inchiostro virtuale. Dopo un po’ che lo ascolti però capisci perché. Le corde che i Manowar toccano sono troppo profonde per farle vibrare a balzi, quindi Hand of Doom, House of Death e Fight Until we Die, ognuna più veloce e violenta della precedente, è un climax di furia che va sentito d’un fiato, quattordici minuti di fomento puro capaci di farti superare qualsiasi sentimento negativo. La gente paga fior di quattrini a strani guru motivazionali quando invece potrebbe semplicemente sentire Hand of Doom, House of Death e Fight Until we Die a volume inumano. La band suona dritta, potente, coi riffoni da distruggerci i palazzi, ed Eric Adams pronuncia ogni parola come se la stesse scolpendo col fuoco in un monolite di alabastro. La sua è la voce del leggendario capo guerriero che si lancia all’assalto frontale con furia inumana. With blood in our voices we ride. Non penso che sia mai esistito un cantante come Eric Adams.

Sui testi ci sarebbe troppo da dire, quindi mi limito alla conclusione del discorso: da un punto di vista lirico, Warriors of the World è il miglior disco dei Manowar. Se con Call to Arms volevano scrivere la chiamata alle armi definitiva, ci sono riusciti:

I can see by the look that you have in your eyes
You came here for metal, to fight and to die
Defenders of steel, now we are home

Ci sono molti gruppi che cercano di copiare concettualmente i Manowar, spesso qui ne ho anche parlato, ma mai come in questo caso l’originale è imparagonabile alle copie. Qui è tutto serissimo, non c’è niente da ridere. Swords in the Wind è una preghiera a Odino di un guerriero prima della battaglia, ed è toccante sul serio. Chi altri avrebbe potuto riuscirci? L’orgia di sangue dei tre pezzi finali è un tripudio di proclami bellicosi e minacce di morte che farebbe salire il sangue in testa pure al Dalai Lama. In questo senso Warriors of the World sembra un lascito, l’ultima impresa memorabile di un eroe che sente di essere per l’ultima volta nel pieno delle forze, il discorso da tenere a mente per quando i tempi saranno più bui. Per quanto mi riguarda, l’ultimo vero capolavoro inattaccabile dei Manowar. (barg)

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