Avere vent’anni: luglio 2002

SOULFLY – 3
Barg: Questa recensione è semplicissima perché il titolo contiene già il voto al disco. Bello eh? Fosse sempre così, mannaggia. In realtà però 3 sarebbe un voto sin troppo generoso per questa porcheria di disco, perfettamente in linea con quella porcheria di gruppo che sono i Soulfly, che più ci penso e più mi sembrano un modo elaborato e crudele per far dimenticare come i Sepultura a cavallo tra gli ’80 e i ’90 fossero probabilmente il più grande gruppo di tutti i tempi e quanto enorme apparisse all’epoca il personaggio Max Cavalera, che neanche un decennio dopo sembrava aver subito lo stesso trattamento di Theoden sotto le amorevoli cure di Grima Vermilinguo; e chi possa interpretare il ruolo di Grima in tutta questa storia lo lascio alla vostra immaginazione. Giuro che ci ho anche provato a riascoltare questo disco con le migliori intenzioni, ma basta premere play che parte Downstroy e tutto lo schifo risale come un abbondante piatto di lasagna dopo una sbronza molesta. È tutto uguale, con le chitarre TRUTRUTRU con quella distorsione scema, Max che urla slogan da collettivo anticolonialista intersezionale prima del concerto degli Ska-P, quest’atteggiamento incazzato da borghesuccio conformista che pensa di essere esattamente il contrario di ciò che è, questo recupero straccione di influenze tribali che ha la stessa valenza di un cannabinomane coi rasta che suona i bonghetti al Forte Prenestino convinto di essere contro il sistema mentre si filma per fare una storia su Instagram. E come ciliegina sulla torta, il minuto di silenzio nella traccia nomata 9-11-01 subito seguito dalle dichiarazioni belligeranti di Call to Arms, in cui il Nostro minaccia Al Qaeda di terribili ritorsioni da parte del mondo libero e civile, manco fosse un neocon cocainomane del Midwest chiuso per un mese in una stanza con l’unica compagnia dei discorsi del gruppetto di stronzi che circondava George W. Bush all’epoca. Che è vero che siamo disobbedienti e contro il sistema, ma quando il TG ci dice di indignarci noi ci indigniamo. Direi che non manca nulla. Completano il quadretto la solita valanga di ospiti di cui non frega un cazzo a nessuno e la paccottiglia spiritualista rappresentata anche plasticamente dal simbolo induista in copertina, come a confermare che il sincretismo è la scappatoia suprema dell’intellettualmente pigro. Se dovessi indicare il punto più basso mai raggiunto dalla nostra musica, da tutti i punti di vista, sceglierei senza dubbio i Soulfly.
CATTLE DECAPITATION – To Serve Man
Griffar: Nati come una grindcore band senza se e senza ma, con il terzo disco To Serve Man gli americani Cattle Decapitation iniziarono a entrare in territori musicali più tipici del death metal tecnico, brutale quanto si vuole ma distante dagli estremismi sonori del grind. Tredici brani, tutti piuttosto brevi (i più lunghi Pedeadstrians e Writhe in Putressence superano di poco i tre minuti) e tutti assai simili l’un l’altro, composti basandosi sempre su un solo schema: assalto blast beat ad inizio brano, rallentamento, ritorno al blast beat, fine del brano. I riff non sono malaccio, e, nonostante il territorio estremo nel quale prosperano, riescono ad essere per nulla caotici e quasi memorizzabili; un po’ è dovuto all’assente compressione dei suoni che rende più nitido il risultato finale, anche se come produzione e scelta degli stessi non si può gridare al miracolo, dato che forse qualcosa di più fragoroso avrebbe aiutato. La prestazione alla voce di Travis Ryan è lontana dai livelli che avrebbe raggiunto in futuro, per non parlare dei noiosissimi suoni della batteria, incredibilmente monotoni. In seguito i Cattle Decapitation avrebbero scritto dischi indiscutibilmente migliori, tanto che oggi sono uno dei gruppi americani di death/brutal tecnico più rispettati, pur rimanendo un gradino al di sotto dei grandi nomi del genere almeno per quanto riguarda la popolarità. To Serve Man è un disco transitorio, nella media, al quale manca un po’ di mordente e – ribadisco – un po’ di diversificazione compositiva, ed è un po’ troppo lungo (due o tre pezzi in meno non avrebbero fatto alcun danno, specialmente nella seconda metà): se siete dei fan dei Cattle Decapitation sicuramente apprezzerete ma se ve lo siete perso, beh, non ci avete rimesso nulla di che, copertina ributtante il giusto compresa. Mai capito se lo zombi che offre i suoi intestini su un vassoio insieme ai broccoli sia ironico oppure solo una minchiata messa lì sperando che prima o poi il nostro Gabriele Traversa gli avrebbe dedicato un Fartwork.
ILDJARN/NIDHOGG – Compilation
Michele Romani: Vidar Våer è sicuramente uno dei personaggi più particolari ed enigmatici appartenenti alla gloriosa scena black norvegese dei primi anni ’90. Dopo aver fatto parte dei Thou Shalt Suffer con Samoth e Ihsahn, decise sin da subito di non seguire i due compagni nei neonati Emperor per cominciare un percorso musicale sotto il moniker di Ildjarn, con una miriade di demo, EP, compilation etc, di un black metal ultra-lofi e grezzissimo registrato sempre con il solito 4 piste con cui ha “composto” tutti suoi dischi, un suono talmente marcio che al confronto Under a Funeral Moon sembra uscito dai Finnvox Studios. Per il lavoro in questione il misantropo norvegese ha unito le sue forze con Roger “Nidhogg” Holte, con il quale ha registrato un paio di EP, la seconda parte del bellissimo Hardagenrvidda (contenente solo musica atmospheric ambient) e per l’appunto questa compilation che spazia un po’ per l’intera produzione Ildjarn – Nidhogg, compresi due inediti che sono anche tra i pezzi più belli e con una registrazione quanto meno decente rispetto al resto del marasma sonoro: Ekistensens Jeger (l’unico brano di Ildjarn di cui sia mai stato pubblicato un testo) e l’incredibile Svart Dag (The Nothingness), per quanto mi riguarda uno dei più bei pezzi black strumentali mai composti, una drum machine modalità giradischi che si blocca e due riff in croce, ma che ti fanno veramente gelare il sangue. Di lì a poco l’attività musicale di Ildjarn conoscerà la fine; Vidar Våer sicuramente non leggerà mai il suo nome nell’Olimpo del back metal, ma questo genere l’ha vissuto intensamente e, soprattutto, senza compromessi di alcun tipo.
GLASSJAW – Worship and Tribute
Ciccio Russo: Con l’ingresso nel nuovo millennio, l’heavy metal esaurì la tensione innovativa che lo aveva attraversato per tutti gli anni ’90. Spinte creative potenti e inedite avevano nel frattempo iniziato a travolgere, invece, il circuito hardcore, seducendo anche quei metallari meno integralisti che non si erano trovati a proprio agio tra il boom del power e la (provvisoria) normalizzazione del black metal. Everything You Ever Wanted to Know About Silence, il debutto dei Glassjaw, fu una delle testimonianze più indelebili di quel fermento. Un album che mostrava una disinvoltura sorprendente nel giocare con generi e influenze – dai Fugazi ai Faith No More – senza mai perdere il filo. Worship and Tribute, pubblicato due anni dopo, sempre con Ross Robinson nel ruolo di produttore, fu ancora un buon disco ma non ebbe lo stesso impatto, in primo luogo perché, per stessa ammissione della band, fu composto in un arco temporale molto più breve e ha pertanto una natura meno eclettica. Oltre alla vena NYHC originaria, andò a sfumare anche quella componente jazz che nel lavoro precedente era stata esaltata dal peculiare utilizzo del basso. E l’appeal a tratti quasi radiofonico dei momenti più melodici viene bilanciato in misura minore dalle esplosioni di violenza, divenute più rare. Poco dopo i Glassjaw si sarebbero presi una pausa di riflessione. Un terzo Lp sarebbe uscito solo quindici anni dopo.
BLOOD STAIN CHILD – Silence of Northern Hell
Barg: I Blood Stain Child sono noti per essersi messi a trafficare con la trance – e il truzzame in generale – nell’ultima dozzina-quindicina d’anni, e io stesso ne parlai con toni abbastanza enfatici per Epsilon, risalente al 2011. Nel debutto Silence of Northern Hell però lo stile è completamente diverso. All’epoca i BSC erano infatti dei cloni spudorati dei primissimi Children of Bodom senza inventiva e senza nerbo, talmente spudorati da avere pure il “child” nel nome e un logo coi caratteri simili; e il fatto di essere giapponesi rende il tutto ancora più straniante. Ai giapponesi si perdonano un sacco di cose, ma il voler suonare a tutti i costi come Something Wild con ingiustificabile ritardo sui tempi non rientra tra queste. Il disco è noioso, insignificante e immaturo, e non lascia intravedere nulla degli sviluppi futuri della loro discografia, quindi interpretate queste righe come un prezioso monito nel caso vi ritrovaste nella perniciosa eventualità di dover perdere una mezz’oretta di vita ad ascoltarlo.
OASIS – Heathen Chemistry
L’Azzeccagarbugli: SPINACETO. Non è solo una zona di Roma, ma è ormai per me una vera e propria “categoria”, figlia di quella geniale scena del primo episodio di Caro Diario quando Nanni Moretti arriva in Vespa nel quartiere capitolino e afferma “SPINACETO, PENSAVO PEGGIO!”, mentre, in fretta e furia, si gira e torna indietro. Ecco, dopo aver riascoltato dopo anni Heathen Chemistry, anche io come Nanni “pensavo peggio” perché lo ricordavo un disco davvero mediocre, mentre alla fine, pur avendo solo due/tre episodi sopra la media (The Hindu Times, Force of Nature e She is Love), nel complesso non è affatto male. Intendiamoci, resta un disco fondamentalmente innocuo, ma la piena sufficienza se la porta a casa. E forse era anche normale essere più severi all’epoca, perché dopo i primi tre dischi (ok, Be Here Now un paio di spanne sotto, ma resta sempre molto bello), gli Oasis avrebbero decisamente potuto e dovuto fare di più. Però, prendendo in considerazione solo il disco in sé, Heathen Chemistry resta comunque piacevole.
PARACOCCIDIOIDOMICOSISPROCTITISSARCOMUCOSIS – Satyriasis and Nymphomania
Griffar: Quando ci si trova a dover commentare un disco come questo, pur nel suo ventennale, si corre il rischio di dover accendere un dibattito se l’intento sia quello di suonare la musica più disgustosa mai concepita da mente umana oppure se sia solo un divertissement senza alcuna pretesa che va preso per quello che è. Satyriasis and Nymphomania è il debutto dei messicani pornogrinders Paracocci-eccetera e, dei 37 minuti del disco, l’unica cosa vagamente comprensibile sono l’intro (un arpeggiato di chitarra acustica), la batteria e i campionamenti di film porno, snuff, horror gore e via dissanguando che occupano un buon trenta per cento della durata totale dell’opera; tutto il resto è un pastone ultracompresso di riff suonati da gente che avrebbe avuto ancora un gran bisogno di far pratica con gli strumenti prima di poter anche solo pensare di essere in grado di comporre musica. Spesso mi sono domandato se la – comunque notevole – fama di cui ha goduto il gruppo non fosse dovuta solo al loro assurdo moniker o ad altrettanto assurdi titoli di canzoni tipo Psicoiticoproparasitoscopociabscesoinfangiectasiespasmo y Hemático che inevitabilmente pongono il dilemma se sia tutto uno scherzo. Allora si ritorna al quesito iniziale: tutto ciò è fatto con il preciso intento di disgustare oppure no? Sono passati vent’anni e non l’ho ancora capito, il disco è disgustoso al massimo esponente, un’accozzaglia di musica prevalentemente incomprensibile con un “cantante” talmente marcio da far dubitare che sia ancora in vita, ma come si fa a consigliare di ascoltarlo, anche solo una volta? Una botta e via? Giusto per farsi l’idea di quanto in basso (o quanto in alto, questione di punti di vista) possa scendere (salire) la creatività dell’uomo? Sono passati vent’anni e non l’ho ancora capito. Oltre al presente capolavoro (tra mille virgolette) questi automi hanno nel libro d’oro un altro full nel 2007 e la bellezza di undici split con gente che fa una gara con loro a chi suona la musica più melmosa e indecifrabile. Esistono ancora: se sbarellate per il genere, buona caccia.
VINTERSORG – Visions from the Spiral Generator
Michele Romani: Questo quarto full di Vintersorg l’ho sempre volutamente evitato per parecchio tempo, tanto che lo ascoltai per intero solo uno o due anni fa, quando ormai erano passati quasi vent’anni dalla sua uscita. Devo infatti ammettere che, da fanatico delle prime produzioni di Andreas Hedlund, mi ero fatto passare totalmente la voglia di ascoltarlo a causa delle recensioni dell’epoca: si parlava di influenze prog, avantgarde, addirittura la presenza di Steve diGiorgio (che poi mi sono sempre chiesto come cazzo sono venuti in contatto i due), insomma tutti aspetti che col Vintersorg che ho amato fino a Cosmic Genesis c’entravano poco o nulla. L’influenza dei Borknagar di Empiricism (disco in cui parteciparono sia Andreas che il batterista Asgeir Mickleson) è piuttosto palese, e in generale i brani presentano una componente prog-black (brrr) piuttosto marcata, con un alternarsi continuo tra scream e voci pulite ed una serie di brani che sembrano esplodere da un momento all’altro senza però mai farlo, se escludiamo A Star-Guarded Coronation che ha un ritornello davvero splendido. Decisamente non il Vintersorg che ho amato nel corso degli anni, ma non escludo comunque che con questo disco il problema ce l’abbia io, visto che conosco molte persone a cui piace parecchio.
MAJESTY – Sword and Sorcery
Barg: Più che un disco Sword and Sorcery è un atto di amore. Amore verso il metallo, ovviamente, ma soprattutto verso i suoi supremi rappresentanti: i Manowar. A partire dalla copertina di Ken Kelly, quasi tutto ciò che contiene Sword and Sorcery proviene direttamente da quella vivificante fonte di acciaio fuso che è la discografia dei Manowar, tanto che le rare uscite dal seminato diventano stranianti; l’unico pezzo che si discosta abbastanza dal canovaccio è Epic War, in cui l’influenza principale sembrano i Virgin Steele. Per il resto si parla di una versione profondamente tedesca dei Manowar fatta coi mezzi a disposizione, prima fra tutti la voce di Tarek Maghary, leader e fondatore della band nonché cofondatore del festival Keep it True (peraltro titolo del debutto dei Majesty), che si sforza davvero tanto nonostante Madre Natura non sia stata per niente generosa con la sua estensione vocale. Ma non ce ne frega un cazzo, perché i pezzi dei Majesty vanno urlati a squarciagola roteando ombrelli e lunghe posate di legno verso il cielo gonfiando il petto e lasciando che la potenza dell’heavy metal riempia i polmoni e gli intestini. Qua dentro ci sono pezzoni clamorosi come l’omonima, Fields of War, Heavy Metal (con l’assolo di Ross the Boss, nientemeno), la semiballad Aria of Bravery o il capolavoro METAL TO THE METALHEADS (perdonatemi, non riesco a scriverla in minuscolo), un midtempo lento, incalzante e guerresco, una dichiarazione d’intenti, una chiamata alle armi, un manifesto dell’esistenza. Un disco da amare, da mandare a memoria e da ascoltare cantandoci sopra. Insieme a Head of the Deceiver degli Wizard è uno dei dischi più assurdi e sottovalutati in questo genere tra quelli usciti a inizio millennio.
GRAVELAND – Blood of Heroes
Griffar: Blood of Heroes è un episodio abbastanza marginale nella discografia dei Graveland: temporalmente segue di pochissimo il full Memory and Destiny che contiene cinque tra i mgliori inni di epic/pagan black dai tempi di Blood Fire Death e Hammerheart, due capolavori che Rob Darken in quel periodo penso ascoltasse giorno e notte. Quest’ultimo se ne uscì quindi con un’opera mastodontica di Vahalla black metal epico, atmosferico, celebrativo delle gesta eroiche di antichi dei pagani e muscolosi prodi in guerre totali di gloria ed onore. Mentre in Memory and Destiny i pezzi tendono ad essere mid-tempo cadenzati con grande utilizzo di tastiere operistiche che conferiscono grande epicità al risultato finale, i due pezzi del sette pollici Blood of Heroes (da considerare una sua appendice) sono probabilmente brani esclusi dal capitolo primario, vuoi per evitare che lo stesso arrivasse all’ora di durata appesantendolo eccessivamente (Memory and Destiny già dura 48 minuti), vuoi perché i due pezzi sarebbero stati abbastanza slegati dalle altre composizioni: I Am What They Fear è un pezzo decisamente più veloce e la title track è molto meno epica, nonostante la profusione di tastiere. Inizialmente uscì in vinile sette pollici limitato a 1488 copie (88 delle quali in vinile bianco, stava abbastanza emergendo la simpatia di Rob Darken per il nazionalsocialismo) per la schieratissima label canadese Vinland Winds, dopodiché è stato ristampato in CD dalla No Colours e, svariate altre volte in tempi successivi, in tutti i formati più utilizzati. Se siete fan dei Graveland e volete avere tutto non dovrebbero esserci problemi a reperirne una copia senza svenarsi.
BRUCE SPRINGSTEEN – The Rising
L’Azzeccagarbugli: Ho un’opinione abbastanza impopolare su The Rising, il primo con la E-Street Band da Born in The U.S.A., per molti il disco della rinascita e l’ultimo capolavoro di Springsteen. Per chi scrive non si tratta né del Time Out Mind di Bruce né del suo miglior lavoro del nuovo millennio, superato sia dall’ultimo Letter To You che dall’imperfetto Wrecking Ball. The Rising pur essendo un disco decisamente riuscito, soffre di un’eccessiva durata, della produzione di Brendan O’Brian – che distruggerà a botte di melassa il suono della E-Street Band anche nei successivi album – e di una certa disomogeneità. Dopo l’11 settembre, infatti, il processo compositivo di Springsteen ha subìto una virata davvero netta e improvvisa: se una prima parte dei brani composti nel 1998 e nel 2000 (oltre alla buona Nothing Man recuperata dal 1994) è decisamente più solare, come testimoniato dalle due scialbe e impalpabili Waiting for a Sunny Day e Let’s Be Friends, le canzoni composte dopo quell’evento hanno un mood totalmente diverso. Ed è proprio in questo pugno di canzoni che Springsteen dà il meglio di sé e, nonostante una produzione non sempre adeguata, riesce a lasciare il segno. La prova tangibile emerge sin dal primo brano scritto a pochi giorni dalle Twin Towers, quella Into the Fire che lascia poco spazio all’immaginazione e colpisce al cuore: The sky was falling and streaked with blood / I heard you calling me, then you disappeared into the dust / Up the stairs, into the fire. Ma anche la mediorientale Worlds Apart o la rabbiosa – soprattutto a livello di testo – Empty Sky colpiscono nel segno e ci mostrano il lato più sofferto di Bruce, quello che il popolo americano ha chiesto a gran voce all’indomani dell’11 settembre. In mezzo a questo clima di rabbia e sofferenza c’è però anche voglia di riscatto, di ripartire dalle macerie di My City of Ruins (unico brano scritto in precedenza e dedicato ad Asbury Park, che ben si lega al mood dei brani post 9/11), perché bisogna trovare un modo per superare questa giornata di solitudine (Lonesome Day) per risorgere insieme, attraversando l’oscurità (The Rising, uno dei brani preferiti in assoluto del suo autore).
CEPHALIC CARNAGE – Lucid Interval
Ciccio Russo: Exploiting Dysfunction, per quanto acerbo e scombinato, ebbe una discreta eco nell’underground. È però con Lucid Interval che i Cephalic Carnage iniziarono a fare sul serio e consolidarono il loro status nella scena, grazie anche al momento magico di una Relapse che in quegli anni sembrava trasformare in oro tutto quello che toccava. Sebbene la principale fonte di ispirazione del quintetto del Colorado continui a essere la marijuana, stavolta, complici forse gli sprazzi di lucidità evocati nel titolo, anche le idee più eterodosse vengono contenute da una scrittura più coerente. La struttura dei riff, la scelta dei suoni, la pesante componente sludge (all’epoca non così abusata) continuano a conferire un’impronta originale alla musica dei Cephalic Carnage. Grattando la patina di canzoni chiamate Black Metal Sabbath e Puff De La Morte, emerge tuttavia una matrice death metal più canonica di quanto possa apparire di primo acchito. Nulla di male, anzi, è proprio questo che negli album successivi consentirà a questa manica di fattoni di mantenere la bussola.
APOTHEOSIS – Farthest from the Sun
Griffar: Incomprensibilmente ed immeritatamente sottovalutata opera del compositore e polistrumentista maltese Sauron, Farthest from the Sun arriva al traguardo del ventesimo compleanno senza che il suo effettivo valore sia mai stato riconosciuto in pienezza. Uno dei pochi dischi (se non l’unico) ad unire rock progressivo, musica elettronica, influenze di musica classica, heavy metal anni 80, thrash e black metal senza risultare un pasticcio, perché la musica degli Apotheosis non è semplicemente un collage di tanti generi incollati assieme in modo più o meno studiato (oppure casuale), no: è tendenzialmente black metal suonato con l’impostazione classica del progressive rock. Come se gli Yes o i Genesis si fossero messi a suonare la musica dei Satyricon, con le sonorità dei Satyricon e la violenza dei Satyricon riviste in chiave progressive rock. Incomprensibile che una simile proposta musicale non abbia avuto successo – tra l’altro il disco uscì per Nocturnal Art productions, quella di Arcturus, Limbonic Art eccetera, e fu promosso alla grandissima come ci si poteva aspettare da una label di quel calibro – e che Farthest from the Sun non abbia mai avuto un seguito: il disco ha tutto per piacere alla maggior parte dei metallari che impreziosiscono questo sfigato pianeta, sia che siano fan dei Summoning che degli stessi Arcturus, degli Emperor, dei Satyricon e compagnia bella (brutta, in verità). Certo, la proposta è complicata e l’album non è immediato, ma quale disco progressive rock lo è? Probabilmente la causa maggiore del suo insuccesso è che le composizioni sono troppo complicate per chi ascolta rude black metal urlando Hail Satan a squarciagola insieme ad Abbath, e allo stesso tempo troppo violente per un fruitore di musica più moderata quale il progressive o il prog metal moderno. Due dei quattro brani sono strumentali (il primo è come fosse una lunga intro, Kingdom invece è una suite black prog) ed anche il fatto che The Maimed God e la già citata Kingdom oltrepassino i sedici minuti di durata (l’altro Raise the Dragon Banner, il migliore, si avvicina ai dodici) non hanno agevolato l’album a diventare un prodotto diffuso in larga scala. Farthest from the Sun merita di sicuro di essere riscoperto, è un disco che fu senza dubbio originale e che ancora oggi fa la sua figura.
FIREWIND – Between Heaven and Hell
Barg: La stima per Gus G passa necessariamente dal fatto che, nonostante sia considerato universalmente un grande virtuoso dello strumento, nei suoi dischi le parti di chitarra sono sempre strettamente funzionali alla sostanza. Ho perso il conto dei gruppi e dei dischi in cui ha a vario titolo suonato, eppure non ricordo sbrodolamenti ed eccessivi svolazzi chitarristici in alcuno di questi. Il debutto dei Firewind in questo senso è emblematico: un disco roccioso, quadrato, dai riffoni dritti e tendenzialmente semplicissimi, e che trae la propria forza proprio da ciò. L’omonima in apertura è uno dei pezzi più belli della carriera del chitarrista greco, ed è un trionfo di palm muting sorretti da una batteria talmente monolitica ed uguale a sé stessa da arrivare ad un effetto ipnotico; una canzone da sparare al volume più alto possibile e capace di buttare giù i muri, in cui la chitarra solista si sente praticamente solo nel breve assolo. È tutto qui: Gus G è forse l’unico guitar hero che nella sua vita si è sempre concentrato esclusivamente nello scrivere canzoni, a costo di mettere sé stesso in secondo piano. Laddove invece la chitarra si prende più spazio, come in World of Conflict, a rimanere in mente sono le armonizzazioni maideniane in stile primi In Flames e non le partiture di chitarra solista, qui sì abbondanti ma sempre in secondo piano rispetto a ciò che davvero conta. Between Heaven and Hell è un gran bel disco, con la voce roca di Stephen Fredrick che ben si intona con la distorsione delle chitarre ritmiche e quella batteria martellante. Da recuperare e rivalutare, anche alla luce del fatto che successivamente i Firewind avrebbero cambiato genere, e non in meglio.
RED HOT CHILI PEPPERS – By The Way
L’Azzeccagarbugli: Al contrario degli Oasis, By The Way non rientra nella categoria Spinaceto e resta un disco davvero inutile, spento e ripetitivo. Uno sterile bignami scritto con la mano sinistra di quello che i Red Hot Chili Peppers sono stati nel corso degli anni. I due singoli By The Way e Can’t Stop rappresentano al meglio questo concetto: sembrano canzoni di una cover band di serie D del sabato sera, senza alcun mordente e personalità. A questo punto decisamente meglio brani squisitamente pop come The Zephyr Song, ma il livello non si alza mai in modo significativo. Un disco che conferma che i Red Hot avrebbero fatto meglio a sciogliersi dopo Californication, perché, se si eccettua il discreto I’m with You, sulla successiva fase della carriera è meglio stendere un velo pietoso.
INFERNAL 666 – Summon Forth the Beast
Griffar: Progetto di David Parland aka Blackmoon formato appena lo stesso fuoriuscì dai Dark Funeral, gli Infernal 666 (c’è che li chiama 666 Infernal, io tra loro, la questione non è mai stata appianata) nel 2002 pubblicano il loro secondo EP (il debutto omonimo uscì in CD nel 1999 e fu ristampato anche in versione split LP con gli stessi Dark Funeral, i pezzi dei quali sono quelli dell’EP d’esordio anche per loro… sia detto en passant, io ho sempre pensato che quel vinile fosse un bootleg). All’interno di esso un quarto d’ora di musica classica, dove per “classico” s’intende il fast black metal svedese che tutti conoscono. Due pezzi inediti (Branded by Hellfire e Infernal Holocaust), le cover di Bleed for the Devil dei Morbid Angel, quella di Devil Pig dei VON (ricorda maledettamente Satanic Blood in Secrets of the Black Arts) e quella di …Of Doom dei Bathory, tutti suonati in pura ottica Dark Funeral. Con qualche assolo di matrice slayeriana in più, ma Summon Forth the Beast questo è: un disco dei Dark Funeral pubblicato (sotto altro nome) da uno che aveva smesso di suonare nei Dark Funeral e si era messo in testa di fare concorrenza ai Dark Funeral allo scopo di deliziare i fan dei (primi) Dark Funeral. Riuscendoci anche, perché no? L’EP vale ogni minuto del tempo che vorrete dedicargli. Ci vollero successivamente otto anni prima di sentir di nuovo parlare degli Infernal 666 (un terzo EP, The Infernal Return, anch’esso niente male), poi Blackmoon è andato a verificare se davvero Satana esista o meno e l’orda (la Legione?) è passata definitivamente alla storia.
FLAMING LIPS – Yoshimi Battles the Pink Robots
Stefano Greco: “Do you realize that everyone you know someday will die?” Così, secco, senza starci a girare tanto intorno. Ripeto: “Tutti quelli che conosci a un certo punto moriranno”. In quei tre minuti i Flaming Lips rendono quasi superfluo tutto il resto che rende Yoshimi un loro classico. “Do you Realize??” è uno dei pezzi pop più brutali di sempre, ed è proprio il suo essere morbido e solare a renderlo qualcosa di abominevole, perché senza l’epica, il terrore e il doom il concetto che resta è che un domani realmente dovrai dire addio al tuo gatto e a tutti quelli a cui vuoi bene. Ed essere un seguace del metallo e di un mondo in cui tutto è culto e celebrazione della morte rischia davvero di non esserti d’aiuto.
BELENOS – Spicilège
Michele Romani: L’entità Belenos è sempre stata legata alla figura di Loïc Cellier, che da sempre si occupa di tutti gli strumenti facendone a tutti gli effetti una one man band. È curioso notare che, nonostante gli inizi e la zona di provenienza coincidano con quella di molti gruppi appartenenti alle famigerate Legions Noires, il buon Loïc non abbia mai condiviso né la politica né la direzione musicale di queste ultime, portando avanti sin dall’ottimo demo Notre Amour Eternel un suono indubbiamente influenzato dalla seconda ondata black norvegese ma con un tocco abbastanza personale che si è via via consolidato con le produzione a venire, tra cui questo Spicilège che ancora oggi considero il miglior lavoro dell’artista francese. Un disco che parte da una base black novantiana senza dubbio, ma che inserisce al suo interno moltissime influenze di pura estrazione pagan folk vecchia scuola, primi Enslaved e Kampfar su tutti (le voci pulite ricordano molto da vicino quelle di Dolk, mentre lo scream è di classica estrazione burzumiana). Il risultato finale è ottimo, senza picchi particolari ma tutto molto omogeneo dall’inizio alla fine, tra notevolissimi fraseggi acustiche e classiche sfuriate pagan black metal dei bei tempi andati. Un disco assolutamente da riscoprire.
BESATT – Hellstorm
Griffar: I Besatt sono uno dei gruppi più longevi della scena true black metal, non solo per quanto riguarda la natìa Polonia ma penso oramai per il mondo intero. Il debutto In Nomine Sathanas è del 1997, il secondo – e probabilmente il migliore – Hail Lucifer è del 2000 ed Hellstorm , il terzo disco, ridendo e scherzando già compie vent’anni. La loro discografia è enorme, vastissima, solo di album parliamo già di undici capitoli integrati da una serie impressionante di split, EP, album dal vivo, raccolte e quant’altro. Il loro black metal è sempre stato influenzato dai vecchi nomi della scena norvegese, rivisti in modo più o meno personale con qualche vaga infiltrazione di thrash tedesco e distanti sentori dei Bathory più antichi. Una ricetta che nei primi tre dischi sopracitati ha avuto l’apice compositivo e qualitativo: come accade sovente sono i primi episodi della carriera quelli più freschi, coinvolgenti e spontanei e i Besatt non costituiscono un’eccezione. Il loro black metal non è particolarmente complicato, è sempre teso ed intenso grazie a composizioni non eccessivamente elaborate, non ci sono decine di riff che complicano e rendono pesante il risultato finale bensì al massimo due/tre riff per pezzo, che si prendono in spalla la composizione e la portano a termine in tempi abbastanza ridotti. Per questo finiscono un po’ per stonare i due brani conclusivi, Created of Lightning e Devil’s Eyes, due tentativi non riuscitissimi di suonare pezzi più lunghi ed elaborati: troppo prolissi, poco mordaci, piuttosto blandi e di certo i meno coinvolgenti dell’intera loro sterminata produzione, tant’è vero che brani lunghi così poi non ne hanno più scritti. I Besatt migliori sono quelli che vomitano blasfemie e bestemmie in quattro/cinque minuti, pazienza se con il passare degli anni e l’accumularsi di titoli in discografia l’ispirazione un po’ è venuta a mancare ed i dischi hanno cominciato ad essere sempre la stessa minestra: non si può dire che un gruppo che tiene alto il vessillo del black metal da almeno un quarto di secolo sia composto da gregari privi di reale talento. Da annoverare tra i progetti più fedeli al true black metal di sempre, se vi piace il genere è impossibile e ingeneroso ignorarli.
Ma solo io ci leggo una bestemma nel nome del gruppo messicano? ahahah
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No no, c’è chiaramente scritto “porcaccioddio”
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Ma lasciate in pace il Max è vecchio grasso e gli puzza il culo. Perché infierire? I testi poi alla fine dai si sa che son sempre i soliti da alternativo cannaiolo scazzato…però mi si vuol forse dire che Prophecy è un pezzo brutto? Ennammo dai…
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