Avere vent’anni: ENSLAVED – Eld  

Signori e signore, il viking metal. Quello vero, quantomeno inteso nell’accezione originaria, piuttosto lontano da ciò che spesso oggi è considerato tale. Eld, secondo disco (e mezzo) degli Enslaved, già mostrava la tendenza allo slancio in avanti della band norvegese, che peraltro adesso, a vent’anni e dieci dischi di distanza, ne è diventata probabilmente la caratteristica principale. Dopo Frost, tutto sommato perfettamente contestualizzato all’interno del movimento black norvegese di quegli anni, con Eld gli Enslaved iniziano a cercare la propria strada, da spiriti inquieti, pronti ad abbandonare il guscio protettivo dello status di gruppo di genere.

Viking metal, si diceva: un concetto sfuggente quanto il suo gemello, l’epic metal, di cui il viking è diretta emanazione spirituale. Laddove adesso questa definizione ha preso ad indicare pressoché qualsiasi gruppo a tema vichingo e dai toni vagamente epici, incluse certe carnevalate buone giusto per il fomento della terza birra sul pratone di un festival estivo all’aperto, in origine le sfumature erano molto più sottili. Eld è davvero una versione black dell’epic metal, quantomeno in spiritu: e, in certi passaggi, del black metal ha giusto il necessario retaggio stilistico che un gruppo con la biografia degli Enslaved non poteva non avere. Ad un ascolto più ragionato ci si accorge come Ivar e Grutle stessero destrutturando quegli stilemi per reinventarli e renderli più complessi e personali: un’osservazione resa molto più semplice, adesso, sapendo che da lì in poi gli Enslaved avrebbero preso una strada che li porterà a ciò che sono diventati oggi.

L’elemento forse più caratterizzante di Eld sono le linee di batteria. Sarebbe peraltro difficile ragionare del disco senza parlare delle linee di batteria, anche perché questo è l’unico episodio della loro discografia con Harald Helgeson dietro le pelli, il quale nel booklet ringrazia Mike Portnoy per l’ispirazione. Un’ispirazione evidente non solo nel volume altissimo dello strumento, peraltro nitido e chiaro come forse mai prima di allora in un disco black, ma anche nel modo di interpretarlo. Helgeson è stato preziosissimo per rendere Eld un disco unico; e, inoltre, col suo modo di suonare rende più scoperte le influenze progressive che poi esploderanno nel successivo Blodhemn e rimarranno in vario modo nel corso dell’intera carriera degli Enslaved. Nella scena black norvegese c’erano altri batteristi molto bravi e molto personali: Hellhammer, Frost, quelli degli Emperor; ma Helgeson era diverso: senza di lui, una For Lenge Siden non sarebbe quello che è; così come pezzi più canonici come Glemt e Alfablot avrebbero, per motivi diversi, perso moltissimo. Per la cronaca, sappiate che ora Helgeson è l’organizzatore del Karmoygeddon Fest.

L’inizio con la lunghissima 793 (Slaget om Lindisfarne) è un apertissimo omaggio ai Bathory: inizio atmosferico, partenza morbida, incedere cadenzato, vocalizzi epici, andamento marziale, lunga parte strumentale nel mezzo; ciò che non è bathoriano è, tra le altre cose, la perizia tecnica, i cambi di tempo, gli svarioni progressive, l’atmosfera placida. I Moonsorrow hanno preso tantissimo da questo pezzo. 793 è quasi una dichiarazione d’intenti, in cui tutte le carte vengono messe sul tavolo; le restanti sei tracce, con un profilo molto più basso, sviluppano quelle premesse ma in un contesto più canonicamente black metal, almeno in apparenza. Ho scritto almeno venti articoli sugli Enslaved nella mia vita ma questo su Eld, nonostante sia di gran lunga il loro disco che ho ascoltato di più, è quello che più di tutti mi sta causando difficoltà, perché non riesco davvero a esprimere in forma compiuta tutto quello che avrei da dire. Magari un giorno recupero con un articolo di riparazione; nel frattempo sappiate che non c’è una sola nota stonata in questo album, per quanto mi riguarda il migliore degli Enslaved. (barg)

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