E come ENSLAVED

Due anni dal precedente In Times, e niente è cambiato. O meglio: se n’è andato Herbrand Larsen, tastierista e voce pulita sin dai tempi di Isa, il disco della svolta definitiva per la band di Grutle Kjelsson e Ivar Bjornson. Una defezione non da poco, perché l’impronta di Larsen aveva contribuito parecchio a definire lo stile degli Enslaved e a portarlo al livello di perfezione attuale. Non ci si aspettino però troppi scossoni da E, perché le coordinate stilistiche sono esattamente quelle degli ultimi album; e Hakon Vinje, il giovanissimo sostituto di Larsen, suona – e soprattutto canta – esattamente come il suo predecessore: grossomodo stesso timbro, stessa tonalità, stesso modo di entrare nella melodia principale. Nessuna nuova era per gli Enslaved, dunque, consci come sono di aver raggiunto un ispiratissimo punto di equilibrio e una propria unicità; ed è forse per questo che, in principio, E mi aveva dato l’impressione, per la prima volta, che gli Enslaved avrebbero potuto deludermi. Cercavo la progressione, lo slancio, il movimento in avanti, come da sempre mi avevano abituato, fin da quando li scoprii vent’anni fa con Eld. Invece questo è semplicemente un disco magnifico di un gruppo maturo che non ha mai sbagliato un colpo – e citatemelo voi un gruppo che nell’arco di quattordici dischi non è mai sceso sotto la soglia del magnifico, pur cambiando così tanto nell’arco della propria storia. Con questo album gli Enslaved non si sono evoluti, ma si sono affinati; e tutto ciò, sia detto chiaramente, senza l’ombra di accademia o mestiere. La sensazione è che E suoni a grandi linee identico ad In Times perché loro non hanno ancora esaurito questo tipo di ispirazione; e che, quando questo stile inizierà a venir loro a noia, lo cambieranno, come del resto hanno sempre fatto. 

E è un disco che punta alla suggestione, all’evocazione paesaggistica, pittorica, da ascoltare ad occhi chiusi in cuffia lasciandosi trasportare dalle ondate di emozioni sensibili che il quintetto riesce a trasporre in musica. Sembra di sentire la pioggia, l’umido, la sensazione di camminare nel sottobosco norvegese, con l’odore dolciastro delle foglie morte e bagnate che crepitano sotto le scarpe. Oltre ogni punto di riferimento, ma con le radici ben salde nel proprio passato, senza mai vergognarsene. Unico tra i gruppi viking, unico tra i gruppi folk, al punto da non poter essere rubricato sotto nessuna delle suddette definizioni, ma essendolo intimamente e veracemente, portando in musica il canto dello spirito del suolo nordico. Due singoli splendidi; Sacred Horse con il suo gioco di pieni e vuoti; Axis of the Worlds che è il pezzo più ottantiano possibile per gli Enslaved; Hiindsiight e il suo sassofono stortissimo; Djupet che insegna il mestiere a chiunque voglia suonare black evoluto nel 2017… Se gli Enslaved non saranno per l’ennesima volta in cima alla mia playlist di fine anno sarà solo perché ho sentito centinaia di volte quel capolavoro dei Lunar Shadow. E l’incomprensibile cover finale dei Royksopp ci ricorda che anche a loro piace cazzeggiare. (barg)

7 commenti

  • Ma le foglie morte bagnate, se calpestate, crepitano?

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    • dipende dalle foglie. quelle del parco dietro a casa mia crepitano, si spezzettano in mille parti e poi si infiltrano nel pelo del mio cane che poi ci si rotola dentro e devo passare mezz’ora a togliergliele manco lo stessi spidocchiando.

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  • A me la prima impressione di delusione è rimasta anche dopo reiterati ascolti. Ci sta, eh, dopo millemila capolavori.
    Ho una mia teoria sull’evoluzione del primo impatto a un disco. Ma molto dipende anche dai giudizi sugli album precedenti e dalla passione, sedimentata negli anni, per una band. Per semplificare propongo 3 macro-categorie.
    I fuochi fatui: sono le botte secche coi lucciconi o l’adrenalina. Quelle che non appena becchi qualcuno che ascolta la tua stessa merda gli fai: eeehhhh non poi capì. Capolavoro. Al terzo ascolto invece t’ha già rotto er cazzo, però per non fare la figura dell’incoerente/banderuola/Spalletti fai allo stesso amico: ah, l’hai sentito pure te. Daje fico.
    L’amore a rilascio graduale. Tipo Xanax. All’inizio fai…mmmh. ‘Mazza la 3 e la 7 le devo risentire. Terzo ascolto: ‘orcoddio. Decimo: perché cazzo fino a 2 settimane fa ascoltavo altra robbaaaaaa!!! E via, ruota e ascolti a nastro come se non esistesse un cazzo di altro. Ma la prova assoluta che testimonia che hai perso la testa è che vai dalla tua donna (lei che ha il gusto di un marsupiale) e le fai: devo farti sentire una cosa. Cosa? L’uccello? Ma se non me lo dai da un mese…Sempre con le cuffie stai!! E tu: no dai, niente. Addio.
    Infine: As above, so below. Così era prima, così resta dopo. Ce la metti tutta per smentirti, sudi come un suino a Canicattì, pensi che non hai abbastanza attitudine, che sei distratto, che hai dei problemi alla prostata. Ci riprovi, sei prossimo al convincimento, ci sei quasiii!!! Daiiiiiii!!!!
    Niente. È anche una sindrome che alcuni di noi anziani hanno avuto ai tempi di Load.
    “E”, come Enslaved, resta “E”. Al limite “Ehhh”. Che du’ cojoni…

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