Avere vent’anni: MARILYN MANSON – Antichrist Superstar

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Il 20 aprile del 1999 due diciottenni entrano nella Columbine High School in Colorado armati fino ai denti, massacrano tredici persone, ne feriscono almeno il doppio e poi si tolgono la vita. I cadaveri sono ancora caldi, ma l’opinione pubblica ha già identificato in Marilyn Manson il mandante morale della strage. A prescindere dalle considerazioni sulla maturità di una società che trova capri espiatori tra i cd sugli scaffali del supermercato, l’episodio ci serve a dare un’idea della dimensione che il personaggio Marilyn Manson aveva assunto nella seconda metà degli anni ’90. In poco più di cinque anni, tramite un furbissimo mix di marketing e dichiarazioni deliranti, il sig. Brian Warner era riuscito a farsi eleggere dai media generalisti come simbolo di devianza e far percepire intorno a sé un livello di pericolosità assolutamente fuori misura. Oggi non ci crede più nessuno, ed è anzi inevitabile un certo tipo di sarcasmo verso un tizio che un tempo andava in giro vantandosi di aver fumato ossa umane e oggi invece espone sue ipotetiche fragilità, parla di depressioni, divorzi e altre faccende umane, troppo umane per uno che per un lungo periodo è stato insignito del titolo di divinità del Male. Questa sua ascesa a re degli inferi era già in corso da qualche anno, ma si rende pienamente compiuta a seguito dell’album del 1996: Antichrist Superstar è una profezia auto avverantesi, riesce ad introdurre un simbolismo distorto in heavy rotation su MTV e nei notiziari delle otto di sera. Rende sexy il brutto e il negativo, fonde in maniera inscindibile gli elementi che fin dalla scelta del moniker ne erano stata la ragion d’essere. Ed è questo che lo fa avvertire (e quindi lo rende) davvero temibile, non banalizza il Male ma lo rende bello, desiderabile. Attrazione e repulsione finiscono per equivalersi.

troppo sexy!

Per come funzionano i cicli nel rock‘n’roll, nel 1996 l’esplosione di una cosa come Marylin Manson era semplicemente inevitabile, troppi anni di rockstar del popolo la cui apparente cifra stilistica era proprio una qualche forma di similarità e continuità col pubblico di riferimento (i vari tipi flanellati di Seattle, ma anche quelli in tuta del britpop). Marylin Manson prende questo modo di presentarsi e lo ribalta, ponendosi come qualcosa di totalmente altro rispetto all’ascoltatore e, con paraculaggine magistrale, riesce simultaneamente a rompere senza mezzi termini con il contemporaneo ed entrare in un’area nota e di continuità con una tradizione molto ampia (oltremodo scontato riferirsi ad Alice Cooper e i Kiss ma c’è anche dentro molto del glam rock settantiano con Bowie in testa). Ad ondate il pubblico ha bisogno di questa roba; si tratta solo di aggiornare il codice e tirare fuori il disco. E il disco Marilyn Manson lo tira fuori eccome.

Musicalmente e concettualmente coeso, raffinatissimo nella produzione, è un album i cui pezzi funzionano alla perfezione da soli ma ancora meglio nel lavoro nel suo complesso. La variante che rende il tutto possibile è il tocco inestimabile di Trent Reznor, che riesce a conferire al tutto quell’aura di sincera malattia e che rende Antichrist Superstar la rock opera negativa definitiva, un distillato di nichilismo per le masse che l’hype e la popolarità riescono a scalfire solo in parte. Perché per certa gente avere successo e vendere dischi è il più grande crimine che si possa commettere. Portato avanti da uno dei singoli più azzeccati di sempre (The Beautiful People), l’album nasconde nelle sue pieghe una quantità enorme  di negatività e cattiverie assortite, come difficilmente se ne vedono in dischi che raggiungono vendite di questo tipo. Antichrist Superstar è un miracolo di sintesi, e in quanto tale resta irripetibile e irriproducibile. Il periodo di fama delle icone killer andrà avanti ancora un po’, ma nessuna delle altre uscite si avvicinerà minimamente a questi livelli (no, neanche Mechanical Animals con le sue vendite milionarie e i suoi video scopiazzati a Jodorowsky). Per quel poco che è durato è stato bello crederci. (Stefano Greco)

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