MARILYN MANSON – Heaven Upside Down

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Al termine dell’ennesima giornata passata a combattere con la tracheobronchite batterica grazie agli amici amoxicillina, acido clavulanico e corticosteroidi, per poi guardare film come Il Pasto Nudo di Cronenberg, non potevo non concludere in tema dedicandomi a quel cottone di quasi cinquant’anni che è Marilyn Manson. A cui, vent’anni fa, ho voluto un sacco di bene per circa un lustro, forte dall’entusiasmo rilasciatomi in vena dal fondamentale Antichrist Superstar. Il momento discografico in cui ho iniziato a perdere la pazienza con il signor Brian Warner è stato The Golden Age Of Grotesque, ovvero un full length che va per i quindici anni d’età. Il Reverendo godeva ancora di un forte appeal commerciale, sputava singoli da classifica come se si trovasse impegnato con un cocomero pieno di semi, e sentirlo alle prese con materiale così leggerino come mOBSCENE mi irritò tantissimo. Il disco era oltretutto bruttino, ma soprattutto, il primo di una lunga serie di non-proprio-riusciti che si concluderà di recente con Born Villain.

Avete presente quando un amico insiste nel ripetervi una cosa, e voi non gli date retta perché ritenete scontato che stia dicendo un mucchio di cazzate? Tipo, “vai al cinema a vedere Deadpool“. E tu lo eviti come la peste perché ti immagini l’ennesimo riciclaggio Marvel da un altro fumetto che non si inculava nessuno; alla fine ti convinci ad andare, e realizzi che è uno dei migliori film del 2016. Con The Pale Emperor è andata più o meno così: ne sono stato alla larga per quanto potevo nonostante mi avessero messo in guardia, e alla fine ho fatto un sacrificio constatando che quello di due anni fa è probabilmente il migliore album dei Marilyn Manson da Holy Wood in poi. Raffinato, patinato, maturamente rock oriented ma con dei pezzi davvero azzeccati al suo interno, e finalmente uno stile definito e che usciva dai canoni della canzoncina metal leggera, confezionata per bimbe gotiche che sono tristi perché hanno l’esame e non hanno studiato niente, tipo The Nobodies per intenderci. 

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Avendo sentito The Pale Emperor molto di recente, e letto i pareri dell’autorevole e solitamente cinico Messicano circa il ritorno in studio della band, su Heaven Upside Down mi sono fiondato subito. Che dire? Quest’album scontenterà coloro che vedevano il Reverendo finalmente sui binari giusti, perché se lo stile di The Pale Emperor è ancora presente, deve stavolta subire l’opprimente coinquilino dell’industrial metal – di ritorno più da Holy Wood che da Antichrist Superstar – oltre che una sottile vena glam attribuibile al fortunatissimo Mechanical Animals del 1998. Parliamoci chiaro: Marilyn Manson ha quasi cinquant’anni e quanto a follia, grinta, paura ed energia sprigionata non sconvolge più di un sudamericano in un autobus stracolmo di gente, col volume del cellulare al massimo e in heavy-rotation la musica che solitamente ascoltano i sudamericani. Però il suo lavoro è tornato a farlo a livelli non solo accettabili ma decisamente buoni.

Il disco è dannatamente equilibrato: Tyler Bates – anche produttore – è il chitarrista giusto come all’epoca Ginger Fish fu il batterista perfetto per suonare industrial metal sfrontato ma fondamentalmente mainstream (e in seguito Rob Zombie lo capì, assumendolo). La tracklist si suddivide in brani più energici come l’opener, We Know Where You Fucking Live o SAY10 (per favore qualcuno elimini Johnny Depp dalla scena rock, perché non si sopporta più), e manifesti dell’estetica ottantiana tanto cara al compositore: Tattooed In Reverse valorizza Twiggy Ramirez e ci riporta ai ritmi di Mechanical Animals, aggiungendo una forte vena blues di ispirazione David Gahan nel cantato, mentre Saturnalia arriva a scomodare il dark degli anni ’80 accelerando i tempi e di rimbalzo anche la ballabilità. Insomma, ce n’è per tutti nessuno escluso, ma è proprio questo aspetto che potrebbe ulteriormente dividere e non unire il responso generale dei fan. In ogni caso, cinque anni fa avreste firmato per qualcosa del genere, anche se rispetto ai tempi in cui vendeva camion pieni di dischi, oggi il Reverendo è, e resterà, una stella che si sente un po’ sola. (Marco Belardi)

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