Avere vent’anni: maggio 2001

FALCONER – st

Barg: E così vent’anni fa cominciò la meravigliosa storia dei Falconer, corrusca gemma del power metal la cui mancata esplosione commerciale grava come un’onta mortale sulla reputazione di tutti coloro che ascoltano, anche di sfuggita, questo genere. Non mi viene in mente un gruppo power più raffinato dei Falconer, intendendo questo termine in senso letterale e senza alcuna ironia. Probabilmente ciò è stato possibile grazie al fatto che i componenti non avevano un retroterra power, essendo così stati liberi di reinterpretare il genere secondo il proprio gusto: Stefan Weinerhall e Karsten Larsson venivano dai Mithotyn (Larsson era anche nei Dawn, addirittura), e proprio dalle ceneri dei Mithotyn sono nati i Falconer; inoltre il cantante Mathias Blad veniva dal mondo del teatro, ed era completamente alieno al circuito metal. Da qui si possono rintracciare gli elementi che compongono la magia: le atmosfere, autenticamente folkeggianti ma mai birraiole, e soprattutto la voce di Blad, delicata, malinconica, evocativa, magica, lontana da qualsiasi cosa si fosse mai sentita prima in ambito power. Gli svedesi raggiungeranno una relativa notorietà col secondo Chapters from a Vale Forlorn, ma tutto ciò che li ha resi grandi era già presente in questo debutto, che appare fuori dal tempo anche a distanza di vent’anni.

shadow gallery

SHADOW GALLERY – Legacy

L’Azzeccagarbugli: Se parliamo di band che hanno davvero raccolto meno di quanto avrebbe meritato, uno dei primi nomi che mi viene in mente è quello degli americani Shadow Gallery. Autori di un interessante e personalissimo ibrido tra il progressive metal più sinfonico ed un certo AOR ottantiano, dopo un esordio promettente i nostri hanno pubblicato due dischi di grandissima fattura, ai quali ha fatto seguito Legacy, ideale prosecuzione del bellissimo Carved in Stone, chiamato in causa sin dall’iniziale Cliffhanger 2. Un brano con il quale “si va sul sicuro”, ma è impossibile non lasciarsi trascinare dalle melodie tessute da Carl Cadden-James e dall’interpretazione, come sempre meravigliosa, del compianto Mike Baker. Non tutto il disco viaggia su questi livelli: se Destination Unknown è forse il miglior brano del disco, le successive Colors (troppo melensa) e Society of The Mind girano un po’ a vuoto. L’album si riprende sul finale, soprattutto con la suite finale First Light che pur non essendo all’altezza di una Ghotship, testimonia comunque le grandi capacità di una band che, purtroppo, non è mai riuscita a fare il grande salto.

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MORRIGAN – Plague, Waste and Death

Griffar: Che i Morrigan siano la reincarnazione dei Mayhemic Truth, gruppo tedesco che gode tuttora di venerazione smodata da parte dei blackster della prima epoca, penso lo sappiano anche i sassi. I vinili dei Mayhemic Truth hanno prezzi agghiaccianti, entrambi pubblicati postumi perché nel frattempo Beliar e Balor, i due capoccia della band, avevano deciso di cambiare moniker rinominandosi Morrigan. Fin dall’assalto frontale che tritura le ossa, la title-track di Plague Waste and Death ci sbatte in faccia l’impostazione che si vuole seguire: ispirarsi ai Bathory dei primi tre dischi e radere al suolo tutto, senza preoccuparsi di macerie e vittime. La seguente This Bitch will burn at night è un po’ più tranquilla, mentre In Memoriam e Straight War sembrano un remake di Pace ‘Til Death, che, anche se si trova su Blood Fire Death, ha il classico sound bathoriano dei primi tempi. Il primo pezzo cadenzato epic/pagan della storia dei Morrigan è il quarto The arrival of Dana, in cui emerge prepotente la vena epica del gruppo che li ha successivamente portati a superare gli stessi Bathory, cosa che molti faticano a credere e sulla quale io ed un mio amico abbiamo intavolato più volte discussioni infinite. Il fatto è che Beliar canta innegabilmente meglio di Quorthon, e se l’album in oggetto paga un pesantissimo tributo all’immortale band svedese, tanto che molti brani sembrano scritti dal primo, è altrettanto innegabile che questo suono è stato in seguito sviluppato in modo personale, fino ad ottenerne una versione migliore dell’originale. A volte càpita, “l’allievo che supera il maestro” è proverbiale. Non c’è sosta né requie negli otto brani, questo va detto: l’album trasuda black metal da ogni solco, roba da school of rock. Naturalmente il disco è uscito per Barbarian Wrath, e chi altri se non Blackgoat poteva produrre ad occhi chiusi qualcosa di estremo come questo? Violentissimo e coinvolgente, Plague Waste and Death è un episodio di transizione verso dischi più epico/pagani che hanno raggiunto vette di qualità assoluta.

spirit caravan

SPIRIT CARAVAN – Elusive Truth

Lorenzo Centini: Faccio il vecchietto rompicoglioni, ma all’epoca lo stoner era un’altra cosa. Credo che mi ripeterò in futuro. C’era uno spirito naif, underground, polveroso che non è affatto quello di oggi, super prodotto, basato su riff riciclati degli Sleep e (qui mi attiro qualche vaffa) su video stupidi, anziché sull’immaginario di antenne spaziali, antiche civiltà, magia, colate di lava, pejote e belle figliole discinte. Per un tempo brevissimo, è stato il punk o il grunge che non potevo aver vissuto in diretta per motivi anagrafici. Durò poco, però, poi la pletora di gruppetti che facevano il verso ai Kyuss (nella migliore delle ipotesi) o ai Fu Manchu (nella peggiore) evaporò al sole e ne rimasero ben pochi della prima ondata. All’epoca c’era poi quella vecchia quercia di Wino che aveva voglia di spiegare due o tre cose ai ragazzini chiassosi. Quel Wino che, dove suona e canta in prima persona, alla fine fa sempre la stessa band, che sia più doom (Obsessed) o più prog (Hidden Hand). Gli Spirit Caravan erano quelli più stoner e in assoluto quelli che preferisco, con quel taglio romantico (no, non come lo intende il Traversa) e polveroso come un tappeto persiano da sistemare sotto la batteria sopra i pallet di un sottoscala che puzza di piscio, marijuana e incenso. Elusive Truth venne a stoner ormai moribondo, dopo quel Jug Fulla Sun che era stata proprio una lezione di gran classe, ed è più o meno uguale. Quindi praticamente ugualmente bellissimo. Ovvio, vi deve piacere Wino, ma se non vi piace che cazzo ci state a fare su Metal Skunk.

staind

STAIND – Break the Cycle

Barg: Qualcuno ora potrà anche non crederci, ma c’è stato un periodo in cui questa musica andava fortissimo e gli Staind erano delle superstar. Questa musica sarebbe il nu grunge, ovvero quella specie di derivato omogeneizzato degli Alice in Chains montato su una struttura vagamente nu metal, con chitarre stoppate e ribassate, batteria fracassona, screaming occasionali, etc. Il mood di base era un incrocio tra i due generi (grunge e nu metal), quindi un depresso spinto con tendenze autolesionistiche. Tutto ciò covava già sottotraccia, ma esplose grazie al successo mostruoso di Creed, soprattutto, ma anche Staind, che con questo Break the Cycle fecero il botto. Il video di It’s Been Awhile passava a qualsiasi orario del giorno e della notte pure al citofono di casa, Aaron Lewis si ergeva a Layne Stayley di una generazione senza vergogna e per un brevissimo istante pensammo che, in fondo, la cosa poteva anche avere un senso. Nei confronti di questo genere io devo confessare un guilty pleasure che inspiegabilmente ancora va avanti, e quindi sulla base della mia imbarazzante competenza nel settore devo specificare che gli Staind avrebbero dato il meglio di sé col successivo 14 Shades of Grey, meno lagnoso e più concentrato.

rem

R.E.M. – Reveal

Lorenzo Centini: Quando il Barg maltrattò UP e tutto quello che ne seguì ci rimasi male, così stavolta ho deciso di prevenirlo. Il Barg è senza cuore, tanto che gli piace minacciare ritorsioni su micetti indifesi. Diciamo che, anche senza lasciarsi andare al livore come il suddetto, si può ammettere tranquillamente che non sia questa la fase più lucida della carriera dei nostri. Che però ancora qualche cartuccia ce l’avevano, anche se immersa in una bambagia (per definizione: cotone di scarto) di suonini sintetici. Una Chorus and The Ring, però, avrebbe potuto trovare spazio in New Adventures in Hi-Fi, altro che. L’andazzo di All the Way to Reno, che gli vuoi dire. E The Lifting, Barg, ti sfido a duello se osi criticare forse l’ultimo vero capolavoro dei gentiluomini di Athens. Ok, se ho voglia di REM non metto praticamente mai questo, semmai un Fables of the Reconstruction o un Monster. Ma ci vuole anche rispetto per chi per venti anni non ha sbagliato una mossa e poi è rimasto un po’ a corto di idee, dai. E che si è defilato con classe quando proprio non ne aveva più. Mica hanno mai tirato fuori un Lulu, loro.

L’Azzeccagarbugli: Reveal è un disco sul quale, nel corso degli anni, si è letteralmente passati da un eccesso all’altro (da disco minore a capo d’opera) e che, a mio parere, è sempre stato molto frainteso. E ciò in quanto è spesso stato considerato come un “ritorno” alla classicità dopo un disco come UP (oggi giustamente salutato come un disco fondamentale per la carriera del gruppo, con l’eccezione di quell’interista di Barg), mentre in realtà, al di là dei suoni e dell’elettronica, l’approccio compositivo prosegue l’opera iniziata con quel disco: un tono decisamente più dimesso, brani spesso lenti e che (ad eccezione di quella perla pop byrdsiana chiamata Imitation of Life) raramente “esplodono”, rimanendo splendidamente sospesi. Sin dall’iniziale The Lifting si intuisce, infatti, la vicinanza ad un pop non di immediata lettura e di non facile assimilazione, che riesce a convincere sia nei brani più armonici, come le bellissime Beat a Drum e I’ll Take the Rain (tra i migliori brani in assoluto dei R.E.M.), sia in quelli meno classici, come I’ve Been High o la finale Beachball con quei fiati anni ’60 che chiudono meravigliosamente l’album. E se Reveal non vale di certo un Reckoning o un Automatic For The People, resta comunque un ottimo disco che testimonia la grandezza di una band che, dopo vent’anni e undici dischi, aveva ancora tanto da dire.

ambeon

AMBEON – Fate of a Dreamer 

L’Azzeccagarbugli: Ricordo come se fosse ieri l’annuncio di questo nuovo progetto di Arjen Lucassen (uno dei miei “eroi” musicali da sempre) che vedeva la partecipazione di un’unica cantante, la sconosciuta Astrid van der Veen di appena 14 anni. Anticipato dal brano dal brano Cold Metal, che aveva stuzzicato la curiosità di molti, Fate of a Dreamer, originariamente nato come un progetto strumentale di Lucassen, grazie all’approccio della giovanissima Van der Veen è diventato presto tutt’altro. Il progetto “ambient” di Lucassen si è infatti presto trasformato in un qualcosa molto più vicino alle atmosfere più eteree di Into the Electric Castle e The Dream Sequencer degli Ayreon, ma in una chiave completamente diversa, ricca di influenze vicine a un certo gothic e a territori lontani dal metal (all’epoca si accostarono anche ai Depeche Mode). Ora come allora, il risultato, più che discreto, soffre di una certa ripetitività e di eccessive lungaggini e, nonostante la presenza di brani davvero riusciti (Ashes, Fate e Dreamer su tutte) e l’ottima prestazione della nuova promessa olandese, personalmente non mi sento di inserire Fate of a Dreamer tra i migliori episodi della carriera di Lucassen.

taraxacum

TARAXACUM – Spirit of Freedom

Barg: Nel 2001 il power metal viveva ancora qualche scampolo del suo periodo di gloria, e così continuavano a moltiplicarsi progetti solisti, gruppi a latere e supergruppi nell’affannoso tentativo di ritagliarsi un angolino al sole. Non ci fu però molto scalpore all’uscita di Spirit of Freedom, debutto del gruppettino da dopolavoro di Tobias Exxel, vispo bassista degli Edguy. E sì che lui ci aveva anche provato a fare le cose per benino. La formazione è composta da ottimi mestieranti: alla batteria si alternano Felix Bohnke (sempre Edguy) e Franky Wolf, ex Squealer. Danny Klupp alla chitarra veniva dagli Haggard, mentre non si contano le collaborazioni sul curriculum del chitarrista Ferdy Doernberg e del cantante Rick Mythiasin (quest’ultimo storicamente dietro al microfono degli Steel Prophet e per un anno addirittura nei Pantera prima di Phil Anselmo). Il disco è poi prodotto agli Hansen Studios e in un modo o nell’altro ci sono quasi tutti i Gamma Ray, con  Kai Hansen e Dirk Schlachter che si sono occupati del missaggio ed Henjo Richter che ha disegnato l’artwork. Insomma, non c’è niente che non vada in Spirit of Freedom, che considerato il periodo e i personaggi presenti avrebbe dovuto fare il botto, e invece. E invece mancano i pezzi, o quantomeno i pezzi sono troppo perfetti, come tutto il contorno del resto, e, pur non riuscendo a trovare neanche un difetto oggettivo nel prodotto finale, alla fine non ti rimane niente in testa. Difetto mortale per un disco del genere, e motivo per il quale i Taraxacum, nonostante l’impegno, ebbero storia brevissima.

elbow

ELBOW – Asleep in the Back

Lorenzo Centini: Dopo una cosetta da niente come OK Computer il brit rock/pop doveva per forza reinventarsi. Perse l’irruenza più rock, chitarrosa e giocosa (anche i Blur ne risentirono) e si fecero avanti compagini dal tono confidenziale e un po’ immaginifico, come Starsailor, Turin Brakes, Doves. Altrove i Travis restavano fedeli alla serenità di un pop vittoriano, mentre una minuscola band, i Coldplay, sarebbe rimasta grandiosa ancora per un solo disco. E poi c’erano gli Elbow, inclassificabili, arrivati come un incrocio tra Radiohead, Mogway e Massive Attack. Già, anche il trip hop aveva superato da poco la fase di perfetta maturazione ed il frutto era ormai precario e stava per cadere dal ramo. Elbow, dicevamo, in cui all’epoca riponevo grandissime speranze, sobillate dalla splendida Newborn che avevo sentito in anteprima (una piccola epopea prog semiacustica con finale esplosivo e caleidoscopico). All’epoca contattavo tutti i metallari della mia città per mettere su una band. Tra questi c’era Lapide, che andava in giro coi capelli lunghi, la lametta di rasoio al collo e la maglietta di Fear of The Dark. Dopo le presentazioni, provammo per un paio di pomeriggi i riff dei Pantera, poi scoprimmo la comune passione per questi gruppetti lacrimevoli inglesi, lui si tagliò i capelli e finimmo per cercare di suonare brit pop (triste). È incredibile come non sia mai riuscito a suonare metal, e che quando proponevo a qualcuno di mettere su una band poi questi si convertiva all’indie o al jazz. Che vita di merda. Comunque, vi dovevo parlare degli Elbow. Beh, con quelle aspettative in realtà finì che il disco non lo compresi. Dimesso, spoglio. Io volevo comunque esplosioni soniche, anche se brit. Newborn mi aveva fatto ben sperare, e invece niente. A riascoltarlo oggi è in realtà un bellissimo disco, col senno di ciò che è avvenuto poi, soprattutto. Perché poi gli Elbow hanno preso la strada diametralmente opposta a quella che speravo io. Ed hanno avuto ragione loro, diventando una delizia di pop gentile, elegante e vittoriano, capaci di comporre canzoni/romanzo indimenticabili. Ma all’epoca che ne capivo, io.

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