ALICE IN CHAINS – Rainier Fog

Da ragazzino ero proprio fissato con gli Alice In Chains, anzi direi che nel periodo in cui ero andato completamente sotto col metal rimasero per me uno dei pochi gruppi rock verso cui non era necessario nutrire una insana ingratitudine. Poi passano i lustri e succede che questi tizi qua ricominciano a suonare e pubblicano pure un album, Black Gives Way To Blue. Me lo vado a sentire in maniera distratta, perché i dischi di reunion solitamente sono una merda, e quindi figuriamoci quelli senza Layne Staley. “No, un momento, questa roba è davvero una ficata”. Dopo quell’esclamazione di getto, mi sono riascoltato Black Gives Way To Blue con cadenza regolare almeno quattro o cinque volte ogni anno, e se proprio devo trovargli un difetto, ha uno stile irregolare e che rende i pezzi un po’ troppo eterogenei: cosa che già aveva penalizzato a suo tempo il Boggy Depot del Cantrell solista. Con la differenza che quello del 1998 era un album registrato un po’ per sfogo e contenente anche qualche scarto dell’ultimo, omonimo lavoro firmato Alice In Chains. Qua invece Cantrell faceva proprio sul serio, tanto che Check My Brain a suo tempo mi scosse proprio, e penso tuttora che si tratti di uno dei pezzi rock più potenti dell’ultimo ventennio. Naturale che il disco successivo generasse in me un hype insostenibile; innaturale invece che mi desse una sensazione paradossalmente opposta: un dannato macigno difficile da ascoltare, ma comunque più sostenibile dell’album col cane di Cantrell in copertina, merito anche dei quattro pezzi iniziali che erano di livello invidiabile. Quando ho pensato che Check My Brain, o al limite A Looking In View rappresentassero un punto non realisticamente raggiungibile, mi sbagliavo dato che lì dentro c’era Hollow, ovvero una canzone con buona probabilità migliore di esse. Insomma, hype chiama hype e dopo cinque anni di attesa gli Alice In Chains se ne tornano in scena con del nuovo materiale, che in nome delle proprie origini intitolano Rainier Fog perchè è lì che sono entrati in studio, a pochi chilometri dal vistoso monte che domina la vallata di Seattle. O almeno, è lì che hanno inciso tutta la sezione ritmica e le prime linee di chitarra, prima di utilizzare ben altri tre studio di registrazione collocati in giro per gli Stati Uniti. 

Per capire quanto siano importanti per il sottoscritto gli Alice In Chains di oggi, per intenderci quelli con William DuVall, occorre andare a ritroso nel tempo e sputtanare un minimo la memoria storica che ho di uno dei miei gruppi preferiti di sempre. Ho sempre pensato, già dagli anni Novanta, che questa band avesse dato il meglio del meglio nel periodo in cui incise Dirt e Jar Of Flies. Il primo, come ho scritto in un articolo poche settimane fa, è quella collezione di classici talmente vasta da assomigliare ad una sorta di best-of, un Simbolo inattaccabile nella sua pressoché totale interezza che gareggiava con forza coi vari Ten o Nevermind pur appartenendo ad una dimensione rispetto ad essi inedita. Il secondo ha attratto pure l’attenzione di un semi-detrattore dell’acustico come me, perchè Jar Of Flies era un capolavoro totale e Rotten Apple sarebbe diventata una delle canzoni dominanti della mia adolescenza tutta, uno di quei brani-scazzo che te la fanno prendere bene oppure malissimo a seconda di come ti gira da pischello. E niente di paragonabile a quei due sigilli discografici era presente in tutto ciò che gli Alice In Chains hanno inciso con Layne Staley alla voce prima che, già tossicodipendente di lungo corso, perdesse la fidanzata finendo in depressione profonda, e lasciasse marcire ogni facoltà mentale e fisica nel tentativo – fallimentare già in partenza – di riprendersi durante le numerose fasi di riabilitazione a suon di metadone. “Con me non funziona”, disse a riguardo, anni dopo Above dei Mad Season, anni dopo la comparsata all’MTV Unplugged in condizioni a dir poco pietose.

Facelift era un disco che suonava fresco e innovativo per un 1990 in cui già si celebravano Jane’s Addiction e Faith No More e la sua Man In The Box fu un pezzo rock dannatamente importante, ma il dato di fatto è che non me lo riascolto quasi mai. Non erano ancora pronti, ed è normale che fosse così anche se i dati di vendita parlarono più che chiaro, cioè completamente in loro favore. Detesto con tutto me stesso l’appeal radiofonico di SAP, che presumo sia pure la causa di scrittura di hit future come No Excuses, e di cui in Rainier Fog ritroveremo certamente qualcosa. E quanto all’album omonimo, ne adoro semplicemente lo stile e lo ritengo di difficile lettura anche oggi, che lo riascolto nuovamente a ventidue o ventitré anni dalla prima, ma con qualche punto interrogativo in meno stampato in fronte. E’ senza dubbio la cosa più oscura che gli Alice In Chains abbiano mai scritto nella loro carriera, ma tolte Grind, Shame In You e Frogs mi ricordo ben poco di lui, una volta premuto il tasto stop. Mi ricorderò, piuttosto, che era abbastanza lungo ed a tratti noioso, e che Staley faticava tantissimo; e il fatto che un paio di sue b-side siano finite dentro al variopinto Boggy Depot non ha sicuramente aiutato neppure quest’ultimo. Ma per forza di cose si arriva agli Alice In Chains odierni grazie a due elementi chiave: quel disco, e soprattutto il secondo album solista di Cantrell, l’unico che per quanto mi riguarda aveva un senso davvero compiuto, Degradation Trip. Quello, in particolar modo, è il punto di partenza per i dischi con DuVall. Grande artista, quest’ultimo, anche se per anni è stato l’unico punto d’appiglio per i detrattori contemporanei della band di Jerry Cantrell, di Inez e di Kinney, costretto a passare dalle parti di Staley in coppia col chitarrista, ed effettuando sovra incisioni proprio come accadeva allo storico tandem. Un’eredità impossibile da sostenere, ma lui è ancora lì, sempre più al centro di un progetto che funziona e ancora oggi in punta dei piedi, con umiltà da debuttante e infinito rispetto per chi in passato fu dietro a quel microfono.

Tolti Dirt e Jar Of Flies, io preferisco gli Alice In Chains odierni a quelli del primo periodo. Sono due contesti diversi, ballano milioni di copie vendute e l’epoca d’oro del grunge oltre che del rock e del metal in generale, intesi come fenomeno di musica mainstream oltre che di aggregazione. Ma la continuità e la solidità che questa band offre oggi non è comune a molti, anzi continuo a vederli come dei pionieri assoluti di un movimento; e nonostante l’età che ha sforato oltre i cinquanta non mi hanno mai dato l’impressione di essere un gruppo rinato per entrare in pilota automatico, arrotondare il conto in banca e prenderci tutti quanti per il culo. Gli Alice In Chains attuali sono la rivincita di un artista, Cantrell, che pur soffrendo come un cane per la perdita di un amico non si sarebbe mai voluto fermare, neanche mentre lo vedeva deteriorarsi a vista d’occhio accompagnando l’uscita di un album con un tour di sole sette, faticose date. Per questo si meritano tutta l’attenzione ricevuta dopo Black Gives Way To Blue, è una questione di risultati e per niente affatto mediatica, e mi sento più vicino a loro oggi, inteso come fan, piuttosto che ai tempi in cui vedevo Jerry in TV dichiarare che Layne sta bene e stiamo nuovamente scrivendo dei pezzi. Forse si riferiva a Get Born Again, che comunque era destinata al suo disco solista, ma che Columbia Records rigirò altrove per tenere in vita un qualcosa che avrebbe dovuto ad ogni costo fermarsi.

E il disco nuovo? Rainier Fog è molto bello, meno d’impatto di Black Gives Way To Blue che ti convinceva in un istante con Lesson Learned o la metallarissima Last Of My Kind, e tutto sommato meno pesante di The Devil Put Dinosaurs Here. Apparentemente non ha le vette del primo, e non concentra il meglio di sé in partenza come il secondo; anzi, è in fondo che finisce per diventare addirittura esaltante. Rainier Fog è il disco della rinnovata maturità degli Alice In Chains, merito anche di un suono pazzesco che mette finalmente l’accento sulla batteria e su dieci canzoni – un numero tutto sommato giusto e che allontana via l’ombra dei filler – direi che me ne piacciono circa otto. C’è The One You Know, singolone già anticipato da tempo che si candida a nuova hit come A Looking In View o Stone, e che ricorda vagamente nelle ritmiche e nel ritornello facile proprio quella Man In The Box dei tempi che furono; c’è l’ingombrante e ricorrente paragone con Facelift e con la sua tipica sfrontatezza a venir ricordato in Never Fade e non solo, ed altri brani che richiamano momenti passati ben distinti e riconoscibili. Ad esempio Deaf Ears Blind Eyes è l’unica che pare sputata fuori dal disco del 1995, linee vocali a’la Staley incluse. So Far Under, dominata dalle dissonanze che erano state un punto di forza di Black Gives Way To Blue e del suo solido successore, è invece più vicina a certe cose di Dirt. Il resto sono gli Alice In Chains contemporanei, definitivamente definiti e non in modalità cantiere come potevano sembrare a ridosso degli album da solista di Jerry. E poi troviamo addirittura tre lenti, la prima – Fly – incapace di replicare un già classico come Voices, le altre due semplicemente magistrali. Maybe sarà una leccata di culo gigantesca ma è dal canto suo pure irresistibile, un po’ come nel 1994 poteva esserlo No Excuses (che personalmente non ho mai sopportato, preferendole a mani basse una più pessimista Nutshell). All I Am invece chiude il disco con i suoi ingombranti sette minuti di durata, ed è probabilmente il punto più elevato a venire toccato dall’album intero. Che vive di altri momenti di totale fierezza, come una title-track che replica lo stile di Check My Brain senza pretendere di esserne la copia, ed perciò che fa centro; e l’ottima Drone – piazzata ai limiti dello sludge – con un break centrale ed un assolo da dieci in pagella, che chiudono la trafila degli highlights insieme ad un altro pezzo più che discreto come Red Giant, nel quale fa maggiormente capolino il metal. Quest’ultimo sicuramente in secondo piano rispetto al passato prossimo, ma ingrediente ancora una volta consolidato anche quando lo intercettiamo a piccolissime dosi, come accade qui.

Tre album, non uno che sia anche lontanamente deludente o sottotono, motivo e condizione per cui potrei tranquillamente aspettare quattro o cinque anni per essere sicuro di poter esultare di nuovo. Un’attesa ripagata, quella di oggi. I miei complimenti quindi agli Alice In Chains, per quello che stanno vivendo – anche se non è più il tempo delle rock star e delle facce sulle copertine che contano – e perché se lo meritano a pieno. E se da buoni nostalgici mi ribadite che le cose degli anni Novanta avevano più anima ed erano rigettate da giovani disperati che stavano vivendo a fatica un qualcosa che è già storia, vi dico che oggi, sì proprio oggi, ho aperto la mail e ho letto che a breve sarebbe uscito un nuovo Metal Allegiance su Nuclear Blast, con collaborazioni che vanno da Portnoy a Skolnick, passando per la White-Gluz. E sono tornato alla realtà, ovvero al fatto che la musica degli Alice In Chains è più meritevole, viva e reale di tante cose che vengono spacciate per non so esattamente cosa. Cantrell è uscito dalla gabbia degli anni bui da qualcosa come tre lustri; il problema – ora – pare proprio riuscire a fermarlo. Che cazzo di artista. (Marco Belardi)

8 commenti

  • ancora in pasturazione, ma da quello che ascolto non riesco ad esaltarmi. Già con il precedente ho fatto una fatica pazzesca, e tolte una manciata di brani mi ha detto ben poco. Vediamo se riesco a sbloccarmi con questo “Rainer Fog”…

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  • Analisi ineccepibile. Condivido tutto. Aggiungo solo una considerazione: la cosa più sorprendente è che a cinquant’anni suonati questa gente abbia ancora qualcosa di importante, valido e significativo da esprimere artisticamente. Non accade quasi mai, soprattutto quando, saturo di denaro e svuotato di obiettivi, perdi di vista il contatto con la vita reale. Invece in questo in caso si respira l’urgenza di continuare a elaborare qualcosa che ti tormenta, di portare avanti una ricerca senza fine.
    Davvero, complimenti.

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    • Sì, sono davvero pochi quelli che a cinquant’anni suonati abbiano ancora qualcosa di importante da dire. Credo che anche Fantarecchia sarà fra questi, i segni sembrano tutti confermarlo.

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      • Guarda, di cose da dire e da tralasciare di dire, ne ho parecchie. Non stare a crucciarti troppo per me. Piuttosto impara a metterci la faccia quando scrivi. Non sei simpatico, tra l’altro.

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  • Non hai capito un cazzo

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  • Magnifica recensione, da leggere attentamente e rileggere più volte. Grazie.

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  • A più di 4 anni dalla uscita (ma è passato già cosi tanto tempo??) ho ripreso in mano il disco, che all’epoca bollai come poco ispirato, e me ne sto rapidamente innamorando. Probabilmente all’epoca non ero mentalmente in grado di apprezzarlo vai a capire, fatto sta che l’inconscio sembra capirci ben più di me di musica, e a capodanno mi è venuto in mente senza motivo di rimetterlo la mattina appena sveglio e mi è sembrato un disco veramente ispirato (ma quant’è bella Maybe?). Ora tocca riprendere anche il precedente, che aveva dei pezzoni clamorosi ma che alla lunga, come dice anche il buon Belardi, era un disco piuttosto insostenibile. Ma novità su un disco nuovo? Direi che a sto punto è ora…

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