Avere vent’anni: COLDPLAY – Parachutes

Shiver, il primo singolo, esce il 6 marzo 2000. La cifra a tre zeri intimorisce, svegliarsi il primo gennaio e scoprire che non è cambiato niente – interiormente e nel mondo fuori – ancora disorienta, il freddo e le giornate ancora troppo corte di una primavera che tarda ad arrivare ci mettono il resto; ognuno imprigionato nella routine scuola-studi-lavoro che ancora per un po’ non concederà spazio per respirare, è difficile accorgersi di un pezzo che dalle radio quasi non viene trasmesso, il video su MTV italiana solo a notte fonda, basilare, quattro nerd bruttissimi in sala prove. La canzone, in compenso, è una coltellata in pieno petto per chiunque in quel preciso istante si trovi nel posto che Shiver descrive fino al più infinitesimale dettaglio, con una precisione e una perfezione pari solo a totem di ansia sociale, incomunicabilità che Antonioni scansate e snervante frustrazione nel vedersi passare la vita davanti quali Half a person (Smiths) e I’m in love with a girl who doesn’t know I exist (Another Sunny Day).
I’ll always be waiting for you, for you I will always be waiting e tutto il resto, prima e dopo, strimpellato urlato sguaiato, ancora non del tutto canalizzato nei rassicuranti binari dell’autocontrollo: dentro c’è tutto il dolore e dall’altra parte tutto il silenzio del mondo, è Every breath you take ma sincera, senza il cinismo, senza il copione da thriller di serie Q, soprattutto senza i risvolti tossici. È il cuore in mano di quattro sbarbi inglesi che probabilmente venivano presi a bottigliate nei pub dagli hooligans che aspettavano l’ennesima cover band degli Oasis o di Gary Glitter; per alcuni una falsa partenza, per quel che mi riguarda il migliore pezzo mai scritto dai Coldplay. Svoltano in estate con Yellow, soprattutto con il relativo videoclip che è tra i gesti più importanti per definire il millennio in cui stiamo per entrare: finzione, illusione, tempo sospeso, tutti trick che verranno sublimati l’anno successivo nel terminale video di Imitation of life dei REM, dopo il quale nulla potrà esistere.
Il pezzo è decisamente più anodino e controllato, già guarda alle classifiche che stanno per accogliere a braccia aperte ogni successiva emanazione del gruppo, così diverso rispetto a Shiver che era stata scritta e registrata soltanto pochi mesi prima, a fine 1999, che ora sembra galassie lontano. Parachutes esce in contemporanea a Yellow, in piena estate, a prezzo speciale nelle migliori catene di negozi di dischi che nominare oggi è puro modernariato (Virgin Megastore, Fnac, HMV), poche sterle in Gran Bretagna, in Italia ventimila lire se non ricordo male: una vera e propria invasione in azione combinata. Prove tecniche di oligopolio. È roba generalista e allo stesso tempo personale, funzionale per chi soffre e sopporta, antropologicamente inglese nell’animo: farsi il culo nella City dall’alba al tramonto, cambiare tre autobus e due linee metro per tornare a casa sfiniti in qualche monolocale in qualche suburra dal nome lovecraftiano per pagare meno (ma comunque l’affitto da solo si mangia più di metà stipendio), trangugiare qualche merdata e crollare con Parachutes in sottofondo per trovare la carica di ripetere lo stesso loop domani. In questo senso Parachutes, riascoltato oggi, è addirittura ringiovanito, un Benjamin Button musicale dell’esistere: a qualità di vita e condizioni lavorative sempre più oltre la soglia dello schiavismo (per non parlare dell’inimmaginabile esperimento batteriologico/psicosociale di cui il mondo intero oggi è parte, roba da far scappare via piangendo George Orwell e Adolf Hitler messi insieme), le nenie che occupano tutta la seconda parte del disco da Trouble in poi sono anestetici tra i più efficaci in circolazione, la messa in musica del concetto di ‘volemose bbene e annamo avanti‘. Nella prima metà invece sono concentrati i capolavori senza tempo, spesso recuperati da demo e vecchie registrazioni e reincisi; a cominciare dalla canzone che apre il disco, che ai tempi sembrava il training autogeno di un depresso medio-grave senza la forza di farla finita, oggi il perfetto punto d’incontro tra uno scherzo particolarmente crudele e il finale de Il Settimo Sigillo. Titolo Don’t panic, ritornello ‘We live in a beautiful world‘ con l’intonazione di chi pensa e intende dire l’esatto contrario, punteggiato da spettrali ‘Yeah we do, yeah we do‘ in falsetto che sono la materia dei peggiori incubi. Mai un disco uscito venti anni prima è suonato altrettanto attuale. (Matteo Cortesi)
Sono talmente insipidi che ad un loro concerto devi andarci strafatto di pepsi nella speranza di fare un rutto che ti faccia salire l’ effervescenza al cervello ( sono abbastanza sicuro che in caso di rutto potresti essere cacciato da un loro show).
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Vero, però Parachutes era un bel discaccio che non sono mai riusciti non dico a superare, non dico a eguagliare, ma nemmeno ad avvicinare. Vito ha ragione, ma pospongo il loro diventare insipidi a qualche anno dopo rispetto all’esordio. Oddio, al giorno d’oggi sono ben peggio che inspidi, ma tant’è.
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“Parachutes” aveva un suo perché e suonava sincero. Mi piacevano certe atmosfere low-fi che secondo me derivavano da ascolti ripetuti di tanti capolavori dei ’90, mi viene in mente Timothy’s monster per dirne uno…. Poi, come dici tu MC, era facile immaginare questi quattro rottami nerd come dei perdenti da pub di periferia o come impiegati vessati di un qualche ufficio contabile. Pensare che ‘sta gente oggi gira su una Maybach con l’autista, facendo dischi sempre più inutili, piatti e scontati. Strano mondo quello dell’industria discografica. E comunque Don’t panic era veramente bella, poche storie.
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Bah per me trovare qui questo gruppo è una cagata pazzesca. Stracciate il contratto al Cortesi!
(Cmq disco NOIOSOOOO, preferisco le sboronate pop di X&Y e viva la Vida)
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La miglior band del mondo. non servono molte parole.
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I Coldplay sono noiosi.
Sono l’antitesi del metallo.
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