Avere vent’anni: aprile 2003

1349 – Liberation
Michele Romani: Tra i tanti casi che non mi riesco a spiegare all’interno del contorto mondo del black metal ci sono sicuramente i 1349. La band di Oslo balzò agli onori della cronaca nei primi anni 2000 proprio con questo Liberation, il loro esordio discografico attorno al quale si era creata una certa attesa soprattutto per la presenza di Frost dietro le pelli e per la notevole campagna promozionale della Candlelight atta a spacciarli come una sorta di next big thing del black metal norvegese. Il disco inspiegabilmente andò benissimo e portò a un tour dietro l’altro e a ulteriori sei album con l’intento di danneggiare e infastidire il nostro apparato uditivo. Avrei provato a dar loro una chance con il secondo disco per poi lasciarli definitivamente perdere. Voi vi chiederete qual è il motivo: molto semplice, i 1349 fanno cagare, e questo Liberation ne è la riprova. Un disco brutto, suonato male, con una delle registrazioni più fastidiose mi sia mai capitato di sentire. L’intento sarebbe quello di scopiazzare un po’ i Gorgoroth del periodo Destroyer, con quel tipico riffing supersaturo e schizofrenico alla Infernus, il tutto però con gusto della melodia sotto zero e una totale incapacità di scrivere brani interessanti che venga voglia di riascoltare. Il fatto che abbiano avuto tutto ‘sto successo per me rimane un enorme mistero. Ripeto, non ho ascoltato la loro produzione dal terzo disco in poi, ma dubito si distanzi molto da ‘sta robaccia.
SUNN O))) – White 1
L’Azzeccagarbugli: Nella prima metà dei 2000 ci fu un’esplosione di portali e webzine musicali di ogni genere.
In questo mare magnum spuntarono realtà davvero libere e incredibilmente interessanti anche in Italia; in particolare ricordo con immenso affetto la straordinaria Moonlight del mio grande amico Tony Aramini e Metalwillneverdie.net diretta da Luca “Sentenced” Di Maio. Su entrambe le webzine scrivevano tantissime firme passate su Metal Shock o, successivamente, su questo blog. Su Metalwillnerverdie fu pubblicata una delle recensioni più belle di sempre a firma di Francesco “Kekko” Farabegoli. Il disco era White 1, uno dei lavori più importanti degli ultimi vent’anni. Non solo il miglior Sunn O))) (insieme a Monolith & Dimension) ma anche uno dei dischi più inquietanti e totalizzanti che mi sia mai capitato di ascoltare, superato solo dal progetto Teeth of Lions Rule the Divine, di cui ho parlato qualche tempo fa. All’epoca sapevo recitare a memoria la recensione, pubblicata al centro della pagina, oggi ho qualche dubbio e la mia memoria ogni tanto fa cilecca, ma faceva più o meno così: “Sunn O))) ha riscritto Frankie Teardrop. Si chiama My Wall, la canta Julian Cope. Disco dell’anno. Voto 10”. Sono passati vent’anni ma penso, ieri come oggi, che non ci sia nulla da aggiungere.
RIVENDELL – Elven Tears
Griffar: Oscuro e per lo più ignoto al grande pubblico, il progetto Rivendell nasce in Austria sul finire degli anni ’90 dalle ceneri dei Fangorn per volere dell’unico elemento stabile, il compositore e polistrumentista Falagar. Nel 2000 ci fu l’esordio con un buon disco (The Ancient Glory), seguito da questo Elven Tears; dopodiché ce ne sarebbe stato un terzo nel 2005 (Farewell: The Last Dawn, nomen omen) e poi più nulla. Qui Falagar viene affiancato da due session a basso e batteria, gli ex Enid e Vindsval Patrick Damiani (poi nei Rome) e Boltthorn. Il genere è un epic/pagan metal con influenze folk e medievaleggianti e pure qualche incursione di musica araba. Nonostante siano stati definiti spesso black metal, qui, a parte la voce in screaming, di black non c’è assolutamente niente. Spesso accostati a Enid (per forza), Falkenbach, Thyrfing, Vintersorg e Moonsorrow, i Rivendell sono di gran lunga i meno violenti e oscuri del lotto. Nelle composizioni, tutte impostate su velocità medio-basse, viene fatto largo uso di flauti e tastiere, queste ultime arrangiate nei modi più svariati, dal classico suono Bontempi all’accordion alla campana e quant’altro, in questo (e solo in questo) mostrando una vaga influenza Summoning, oltre alle quasi onnipresenti chitarre acustiche che rendono marginale la chitarra elettrica. Nel complesso è difficile trovare in Elven Tears difetti terribili; oddio, a me la voce pulita di Falagar piace poco ma questo riguarda me e basta, il fatto è che più di una buona metà del disco viene cantato in questo modo e per me è pallosetto anzichenò. I testi sono revisioni di scritti di Tolkien, nulla di trascendentale. È proprio questo il problema di Elven Tears: non è nulla di trascendentale e credo sia per questo banale motivo che non lo riascoltavo da un pezzo e che credo lo rimetterò sullo scaffale una volta per sempre.
REBELLION – Born a Rebel
Barg: Qualcuno forse deve ancora riprendersi dall’interminabile pistolotto che scrissi per Macbeth, il debutto dei Rebellion, uno dei miei più grandi dischi-feticcio di sempre. Per questo loro secondo album sarò breve: Born a Rebel spezzò sul nascere le mie speranze di aver trovato un nuovo grande gruppo da mettere in sottofondo durante le lunghe sessioni di decapitazione dei nemici del metal, essendo poco più che un disco di metallo tetesco standard. Certo, la voce di Michael Seifert rimane sempre adorabile, e il resto dei musicisti (Randy Black e gli ex Grave Digger Tomi Goettlich e Uwe Lulis) dà una marcia in più al disco, ma davvero niente per cui strapparsi i capelli. Peraltro Born a Rebel è l’unico, nella lunga discografia dei Rebellion, a non essere un concept, preferendo una serie di testi classicamente motivazionali sulla libertà, la velocità, le moto, l’acciaio, le esplosioni nucleari e i bicipiti. A posteriori sappiamo che i Rebellion non avrebbero mai più replicato le altezze di quel primo album, ma vent’anni fa per me fu sinceramente una brutta delusione. Non è comunque un disco brutto di per sé, a parte le mie altissime aspettative dell’epoca.
WELTMACHT – And to Every Beast its Prey
Griffar: I Weltmacht sono stati un progetto di Akenathen (Judas Iscariot e molti altri), Lord Imperial (Krieg e molti altri) e Cryptic Winter (Mr. Duane Timlin, Broken Hope e una valanga di altri). And to Every Beast its Prey è il secondo e ultimo disco pubblicato dalla band, la cui storia si concluse in coincidenza con il ritiro dalle scene di Akenathen, che ne fu il primo motore. Il genere è un classico black metal, neanche troppo veloce, che riporta alla mente alcune cose dei primi Graveland quando ancora non erano in fissa con dèi pagani di ogni foggia e colore, gli Infernum, qualcosa dei vecchi Nargaroth (era Orke-Herbstleyd-Amarok, giù di lì) e qualche vaga sfumatura bathoriana. Nulla di inedito, quindi, ma un buon disco, con riff convincenti e persino qualche arrangiamento di tastiera per variare un po’ (l’organo di Among the Silence Burning Chaos, ad esempio, azzeccato). Era considerato assolutamente imperdibile vent’anni fa, quando se non ne possedevi almeno una copia eri il più lurido e fottuto dei poser meritevole di morte lenta e crudele; adesso, a vent’anni di distanza, l’album si lascia ascoltare ancora con piacere ma non ci sarebbe da strapparsi i capelli se ce lo si fosse persi.
KOLDBRANN – Nekrotisk Inkvisition
Michele Romani: I Koldbrann sicuramente sono una tra le realtà più interessanti della scena black norvegese del nuovo millennio, improntata a riscoprire le radici del genere in contraltare alla voglia di sperimentazione che aveva contraddistinto soprattutto il triennio 1996-1999. Questo Nekrotisk Inkvisition è il debutto e per quanto mi riguarda ancora oggi il miglior lavoro della band, 50 minuti di puro black metal oltranzista e carico d’odio che però non disdegna aperture melodiche (in realtà piuttosto sporadiche) e momenti più rallentati e riflessivi. La registrazione è perfetta per rendere al meglio brani di indubbio valore come l’opener Fortapelse i svovel og helvetesild (una bomba totale) o l’autointitolata Koldbrann con quel micidiale riff iniziale. Da sottolineare il particolarissimo suono della batteria, talmente secco che ho come l’impressione che il batterista non abbia volutamente attaccato la cordiera al rullante, un po’ come fece Ulrich in St Anger. Intendiamoci, Nekrotisk Inkvisition non è nulla da tramandare ai posteri, e in questo ramo è stato fatto pure di meglio, ma è comunque un buonissimo lavoro per i nostalgici del tipico black norvegese novantiano.
CAGE – Darker than Black
Barg: Con il terzo album gli statunitensi Cage continuarono ad affilare le armi e a perfezionare il proprio stile, seguendo un percorso che, più in là, li porterà a diventare uno splendido esempio di heavy metal tamarro e aggressivo come il pitbull che gira libero per il paese in cui vive Ciccio Russo annusando i testicoli ai passanti e, occasionalmente, aggredendo loro e i loro cagnolini. Però ascoltando Darker than Black non si può fare a meno di pensare di trovarsi di fronte a un pensiero in divenire, peraltro non ancora troppo originale. La prima influenza sono infatti i Judas Priest di Painkiller, qui saccheggiati in pressoché ogni aspetto; e il risultato è grossomodo trascurabile, nonostante qualche bella bordata in faccia qua e là. Il meglio i Cage lo avrebbero dato in futuro, ma ci arriveremo presto.
ULFSDALIR – Baldurs Traum
Griffar: Oscura e molto poco nota one-man-band tedesca di tale Ragnar, che nel frattempo si manteneva attivo suonando qua e là in svariati altri gruppi, Ulfsdalir potrebbe quasi essere considerata una cult band e, a vedere qualche prezzo dei loro dischi in giro per i siti di collezionisti, sarei portato a convincermene. Che fantastica storia è la vita. Qualche loro disco ce l’ho: questo Baldurs Traum, il precedente Grimnir, due o tre split… Certo, a quei tempi i dischi costavano più o meno la metà di adesso, specie se compravi all’estero. Più pezzi si prendevano più si ammortizzavano le spese postali, quindi perché no? In questo modo mi sono trovato tra le mani opere bibliche che venero oggi come il primo giorno. Vedere che c’è un tizio che attualmente chiede 110 euro per questo CD mi fa sorridere, perché, sul serio, non li vale. È una clonata di Burzum pura e semplice in un unico brano che dura mezz’ora. Tupatupa semplicissimo, riffing scarno, screaming satanico, stacchi di synth ed effetti che spaziano dal cinguettare di uccelli allo scroscio di pioggia. Tutto apprezzabile, ma nulla che porti l’ascoltatore a genuflettersi innanzi allo stereo benedicendo la propria mamma per averlo fatto nascere prima metallaro e poi blackster. Non è tempo sprecato (ascoltare musica non è mai tempo sprecato) ma nemmeno si ha quella gran voglia di ricominciare l’ascolto. Il black metal ha saputo offrire episodi molto migliori. Ultima nota di folklore: in tempi recenti Ulfsdalir è approdato anche su Bandcamp e questo disco, anziché essere considerato come un unico brano di mezz’ora (com’è sempre stato, anche nel lettore CD figura come pezzo singolo), è stato suddiviso in cinque capitoli. Post mortem della band, messa a riposo definitivo l’anno scorso dopo la pubblicazione di Totenkult, loro ottavo full.
CIRCLE II CIRCLE – Watching In Silence
L’Azzeccagarbugli: Sono sempre stato legato a questo disco, tanto da averne avuto – per un breve periodo e non ricordo perché – due copie, una delle quali ho regalato al nostro Trainspotting. Sono legato a Watching in Silence perché li ho visti dal vivo al Wacken di supporto a questo disco (concerto strepitoso con tanto di cover di Edge of Thorns e Taunting Cobra) e perché è il miglior album dei Circle II Circle, creatura di Zak Stevens dei Savatage e i Savatage sono una delle ragioni per le quali la vita è bella. Molti brani su questo debutto sono stati scritti con l’apporto di Jon Oliva e Chris Caffery (così come per il successivo, riuscito, The Middle of Nowhwere) ed è inutile dire che la loro impronta sia presente tanto nei brani più ritmati (la splendida Out of Reach) quanto in quelli più lenti ed accorati (Walls). Pur non raggiungendo i fasti della band di Oliva, avendo qualche passaggio a vuoto e risentendo troppo dell’influsso dei Savatage, Watching in Silence resta un album assolutamente riuscito, con alcuni ottimi pezzi che restano tali anche dopo vent’anni e con un poker iniziale che, ancora oggi, mi ha lasciato di sasso.
IN AETERNUM – Nuclear Armageddon
Griffar: Nati come cloni dei Dark Funeral (basta ascoltare i primi due dischi Forever Blasphemy e The Pestilent Plague e averli visti dal vivo, come è capitato a me due volte, per rendersene conto), in questo terzo lavoro gli In Aeternum spostarono i loro orizzonti verso il genere di black metal che in quel momento andava per la maggiore, nella fattispecie il black/death thrashettone dei Nifelheim che saccheggiava il thrash tedesco ammodernandolo e incattivendolo un po’. Nuclear Armageddon fa di tutto per risultare il più piacione possibile per gli ascoltatori che apprezzano sì la musica violenta ma se ci sono momenti di pausa e un po’ di melodia è meglio, ché se no quando se lo ascoltano a volume troppo alto la mamma si arrabbia e gli urla contro di smetterla di infastidire il vicinato con tutto quel rumore. I primi tre brani sono i più black thrash di tutto il disco, da manuale oserei dire. Scavallato lo strumentale semiacustico di forte profumo Dissection Ashes and Dust il disco cambia marcia, ritorna alle sonorità fast black metal degli esordi imbastardendole con certi afrori death metal e imparentando strettamente gli In Aeternum con gli Impiety singaporiani. Il risultato è un album assai gradevole anche se privo della benché minima originalità: se lo avete ignorato all’epoca o non avete mai sentito nominare gli In Aeternum per motivi anagrafici nessuno potrà biasimarvi. Se vi piace l’idea, però, potete riscoprirlo, vi divertirete per una quarantina di minuti. Non credo diventerà uno dei vostri dischi della vita ma non si sa mai, e in tal caso il tempo che ho impiegato a scrivere questa recensione non sarà stato sprecato. L’ultimo loro full (Dawn of a New Aeon) uscì nel 2005 ma esistono anche due EP successivi, uno del 2007 (Cursed Devastation), l’altro del 2016 (The Blasphemy Retrurns). Da allora più nulla, anche se risultano ancora attivi.
TWILIGHTNING – Delirium Veil
Barg: Qualche tempo fa, a proposito del debutto dei Nostradameus, dissi che quell’album era una gemma nascosta, una delle famose eccezioni del periodo del boom del power metal del quale si dice spesso “fatte salve alcune dovute eccezioni, quella roba era tutta uguale ed era tutta merda”. Nel 2003 non eravamo più nel periodo del boom del power metal, però il discorso vale perfettamente anche per quest’altro debutto, quello dei finlandesi Twilightning che oltretutto, a differenza dei Nostradameus, non ho neanche quasi mai sentito nominare in giro negli ultimi vent’anni. Delirium Veil è fenomenale, cari zii e cugini del vero metal. E per innamorarsene basta ascoltare la prima traccia, Gone to the Wall, una bordata allucinante di riffoni che si intrecciano, chitarre soliste affilatissime, melodie da cantare puntando un ombrello al cielo e una voce davvero della madonna. Il resto del disco non arriva proprio a quei livelli ma è incredibile lo stesso, con picchi come l’omonima, Enslaved to the Mind e Return to Innocence, power metal maturo e strutturato, dagli episodici riflessi prog, confezionato con sapienza da Mika Jussila agli ineluttabili Finnvox Studios. Se vi piace il power metal, anche solo di sfuggita, dovete assolutamente dare un ascolto a questo disco.
AGORAPHOBIC NOSEBLEED – Altered States of America
Ciccio Russo: Era il periodo in cui la Relapse pubblicava ogni mese un potenziale classico e tale era stato, nel 2002, Frozen Corpse Stuffed With Dope, uno dei dischi che contribuirono a riscrivere le regole del grind all’alba del nuovo millennio, rendendolo terreno di sperimentazioni sempre più ardite e fuori di testa. Per alzare ancora la posta, Scott Hull e compagni se ne uscirono l’anno dopo con un EP composto da 99 tracce per meno di venti minuti. Non una di più forse per rispetto nei confronti dei Sore Troath, che su Disgrace to the Corpse of Sid ce ne infilarono 101. Se gli inglesi improvvisavano e facevano casino vero (unico collegamento possibile la vena doom alla Amebix), gli Agoraphobic Nosebleed suonavano lucidi anche alle prese con questa parossistica successione di schegge, tra brani velocissimi e fulminei, rallentamenti, sample e interludi parlati. Lucidi nel modo in cui ci si percepisce dopo aver fatto il pieno di quegli stimolanti illegali che il gruppo americano non ha mai nascosto avere tra le principali fonti di ispirazione, chiaro. Altered States of America è invecchiato piuttosto bene per un lavoro con un’idea di partenza del genere. Certo, spingere ulteriormente in alto l’asticella sarebbe stato molto complicato e – dopo un album più accessibile come Agorapocalypse e la virata sludge di Arc – non biasimiamo Hull per aver preferito concentrarsi sui Pig Destroyer.
INTESTINE BAALISM – Banquet in the Darkness
Griffar: È assai probabile che nessuno di voi conosca i giapponesi Intestine Baalism (perdonami, Griff, ma se si parla degli Intestine Baalism non posso fare a meno di rinviare a questa canzone, ndbarg). Male, molto male. Il loro secondo disco Banquet in the Darkness è l’unico in grado di aspirare a quella posizione sul trono del melodeath svedese nella quale furono insediati per acclamazione gli Arch Enemy ai tempi di Black Earth . I giapponesi prendono il meglio di Arch Enemy e Carcass, li mischiano alla perfezione, aggiungono un pizzico di Entombed, scrivono pezzi della madonna con riff che ti rimangono in testa per decenni e il gioco è fatto. Hai ottenuto il risultato della vita, il classico disco che nella scala da uno a dieci vale 11. Peccato solo che Seiji Kakuzaki, il chitarrista ritmico e cantante, alla voce non sia granché e tenti di imitare troppo pedissequamente Lars Goran Petrov (fa un buon lavoro ma fallisce alla distanza: LG è stato unico ed inimitabile) perché se no qui avremmo parlato di un disco con un potenziale di vendita da centinaia di migliaia di copie. La cosa più spaventosamente bella di tutto Banquet in the Darkness sono gli assoli e i fill di chitarra, ispirati dal lavoro di Amott ma migliorati, perfezionati e paragonabili solo a una serie di pietre preziose quali ametiste, topazi, rubini, smeraldi, zirconi e ovviamente diamanti. Non c’è un solo stacco che da solo non valga il disco. Se non li conoscete, rimediate e ascoltateveli a palla, mi ringrazierete.
KAKI KING – Everybody Loves You
Barg: Chiedo sinceramente scusa a tutti gli amici e conoscenti che all’epoca ammorbai con codesta Kaki King, virtuosa della chitarra classica che ad inizio carriera faceva questi dischi strumentali accompagnata dalla sola chitarra, occasionalmente percossa come un tamburo. Niente a che vedere con il tamarrissimo disco-tributo di Paul Gilbert a Dio di cui ha parlato Carrozzi di recente, però: la signorina Kaki King aveva un gusto abbastanza raffinato e alternativo che la portava a scrivere composizioni molto delicate che solo in apparenza potevano sembrare improvvisate. Con l’andare del tempo si sarebbe normalizzata, introducendo pian piano altri elementi e strumenti, voce compresa, con una struttura compositiva che sarebbe diventata sempre più socialmente accettabile. Chiedo quindi scusa a tutti, Ciccio in primis, perché essendoci entrato particolarmente in fissa la facevo sentire a chiunque, ma tutto ciò faceva evidentemente parte di una contorta fase della mia vita fortunatamente chiusa. Non ascoltavo Everybody Loves You da secoli: è un bel disco, molto affascinante, e comprendo perfettamente le ragioni per cui mi piacesse all’epoca ma, come detto, fortunatamente quella fase della mia vita è conclusa.
DIES ATER – Chanting Evil
Griffar: So che vi sembrerà assurdo e mi pare già di udire i risolini di scherno, ma i Dies Ater sono stati il punto di contatto tra il black melodico e il power metal dei Gamma Ray. Non ci credete? Allora perché non provate ad ascoltare la traccia che dà il titolo al disco, posta in apertura dopo l’immancabile quanto non indispensabile intro? Quando viene lanciata a tutta velocità la somiglianza è meno manifesta, ma quando non lo è le ritmiche melodiche ed energiche dei riff di Kai Hansen sono messe talmente in evidenza che mi sembra impossibile non distinguerle. È chiaro che dal punto di vista squisitamente tecnico i Dies Ater il confronto con i Gamma Ray lo perdono, ma io vi ripeto che i riff e i brani di Chanting Evil sono stati scritti esattamente nello stesso modo che avrebbe adottato Kai Hansen se avesse voluto cimentarsi con il black melodico. Gli intrecci delle chitarre, le costruzioni in rivolti e contrappunti degli accordi stessi sono smaccatamente power metal, ovviamente rivisto in un’ottica black metal, ma questo non può che essere un bene dal mio punto di vista. Per non parlare delle voci quando non sono in screaming (molto Dani Filth in questo frangente) che sembrano in tutto e per tutto un featuring dell’ex-Helloween, vedasi The Last of Storms, il pezzo che reputo il migliore di tutta l’opera, con la parte rallentata finale che sembra uscita da Somewhere out in Space. Alcuni arabeschi di tastiere coloriscono ulteriormente le partiture, perfettamente bilanciate tra l’aggressività black metal e l’energia “positiva” che s’accompagna all’idea stessa di power metal, ma tutto Chanting Evil è un’antologia di metallo melodico tedesco ed è, come sempre, incredibile che una band come questa sia stata sottovalutata e ignorata dalla maggior parte dei metallari. Il disco è fenomenale e lo sono anche i due successivi Odium’s Spring (2007) e Hunger for Life (2012), rispettivamente quarto e quinto definitivo capitolo di una carriera che avrebbe meritato ben altri riconoscimenti.
Io preferisco Born a Rebel rispetto al precedente.
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Ahh White 1. Roba davvero fica. Poi arrivò Monoliths & Dimension, e là sfondarono i muri di tutte le halls of fame di universi noti e sconosciuti.
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Non trovo tutta sta somiglianza del cantato dei intestine baalisme con LG…
Anzi sto gutturale poco intelleggibile stona non poco con la musica
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Madonna, la batteria degli 1349 mi ricorda questi: https://www.youtube.com/watch?v=NnZnjmhikAk
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Come sempre in tutti gli appuntamenti di “Avere vent’anni”, più di metà dei dischi non li avevo mai ascoltati. Grazie. A proposito, Griffar, per gli intro, penso a quello imprescindibile di Eve of the apocalypse; nei primi anni 90 avevano un loro senso…, quando hanno smesso di essere utili all’economia di un disco, montando la suggestione nell’ascoltatore? Forse quando con l’industrial tantissimi gruppi hanno sperimentato molto e pure troppo, i suoni e i momenti “non metal” hanno perso il loro potenziale espressivo e di rottura..?…
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