Avere vent’anni: FALKENBACH – …magni blandinn ok megintíri…
…en their medh riki fara… terminava sulle note della divina …into the Ardent Awaited Land… che rappresentava un po’ una manifestazione di intenti rispetto al dove e al come si sarebbe mosso il suono e lo stile di Falkenbach negli anni a venire. Infatti …magni blandinn ok megintíri… riprende precisamente da quell’incedere cadenzato ed epico così tipicamente falkenbachiano (se vogliamo bathoriano) segnando di fatto alcuna soluzione di continuità rispetto al capolavoro di due anni prima. Ma le differenze ci sono e sono avvertibili da subito anche ad un orecchio distratto. Prima di tutto da qui possiamo cominciare a parlare di “evoluzione” riferendoci allo stile di Vratyas Vakyas. Una evoluzione lenta ed inesorabile che lo porterà a tenere costante la tensione epica in tutti i suoi album successivi, pur affrontando fasi della propria ispirazione che impatteranno sul suono, sul ritmo e sulle soluzioni tecniche musicali che adotterà nel corso degli anni e che lo ricondurranno alle sue origini in modo progressivo con Tiurida e, soprattutto, Asa.
Inquadrare questo immenso capolavoro, che qualche giorno fa ha compiuto vent’anni suonati, all’interno della grandissima opera pagana di Markus Tümmers è un impegno gravoso, non solo per un fan terminale come il sottoscritto, ma per chiunque volesse cimentarsi nell’impresa. Allo stesso tempo è imprescindibile farlo. Vette irraggiungibili sono proprio i primi due album di Markus, in cui il canone pagan black metal è definito nella sua accezione più pura, in cui la furia è rappresentata dall’utilizzo del ritmo e dei suoni più appropriati, in cui , infine, i momenti più epici sono vivificati attraverso vere e proprie narrazioni, cadenzate, melodiche e malinconiche, e attraverso l’uso di voce pulita, tamburi marziali e cori. Nei primi due dischi Vratyas compirà il miracolo di lavorare in totale solitudine, scrivendo, componendo e suonando tutto, ed è proprio questo che, a mio umile parere, rende i primi due album unici. Le nuove soluzioni adottate da Falkenbach riguardano principalmente un utilizzo più ad ampio spettro dei synth (ad esempio, attraverso la simulazione del “pizzicato” o attraverso un più massiccio, ma non affatto pervasivo, utilizzo degli archi) e la scelta di narrare determinati momenti chiave delle lyrics attraverso una voce orchesca, che era una soluzione un po’ teatrale spesso utilizzata all’epoca nei dischi black metal.
Posto che tutto il resto del disco suona esattamente come il precedente (a parte il fatto che la voce di Markus è più solenne ancora e la produzione è migliore), come doveva essere del resto, è evidente che …magni blandinn ok megintíri… sia suddiviso in due capitoli al suo interno. Le prime due tracce sono, infatti, le uniche veramente pagan black metal del disco, dove lo scream si alterna alle voci pulite, le accelerazioni alle parti cadenzate in 120-130 bpm. Per inciso: …When Gjallarhorn Will Sound è, insieme a Heathenpride, il punto di massimo splendore raggiunto da Falkenbach. Nelle successive tre si avrà effettivamente l’anticipazione del nuovo corso di Vratyas Vakyas, che lo porterà a scegliere sempre più quei tempi cadenzati e solenni alla furia pagana, a scegliere di descrivere, passatemi l’iperbole, scene di preparazione della battaglia al posto della narrazione delle efferatezze della battaglia stessa. Tanto è vero che, a parte l’inciso della splendida Vanadis (e il suo indimenticabile respiro di gjallarhorn e archi in apertura), nel successivo, più folkeggiante, Ok nefna tysvar ty le urla pagane spariranno totalmente in favore di un suono più piano, più solenne ancora, ricco di arpeggi e momenti di poesia pura (come nella ripresa acustica della succitata …the Ardent Awaited Land o come pure in Donar’s Oak). Come a voler omaggiare l’Edda Poetica in modo diverso e alternativo. Ma Ok nefna… è un capitolo a sé stante nella produzione dell’islandese, come lo sarà anche Heralding – The Fireblade (di cui abbiamo già accennate le peculiarità storiche qui).
L’album si chiude con una splendida outro strumentale in cui torna la sensazione di essere in un disco di black metal grazie alla velocità della drum machine e all’uso innovativo, per Markus, dei synth. Quindi, sempre a mio umile parere, questo incontestabile capolavoro rappresenta un capitolo ben definito nel grande libro degli eroi di Falkenbach, che va a chiudere un immaginario ciclo di leggende e, forse, mettendo un punto definitivo al genere. (Charles)
Il mio preferito di Falkenbach, nonchè uno dei miei dischi preferiti in assoluto.
When gjallarhorn will sound cambió per sempre le mie vedute musicali.
Capolavoro.
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Cazzo..veramente un disco da lacrime… il top del top per Falkenbach.
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