Avere vent’anni: FALKENBACH – …en their medh riki fara…
Nei primi anni ’90 la No Colours Records tirava fuori a ripetizione gruppi dal notevole necrocvltismo, tipo Forgotten Woods, Veles, Absurd, Graveland, Urgehal. Tutta roba abbastanza putrida con le copertine disegnate a matita e in bianco e nero. In questo cielo nero di ignoranza profonda, paganesimo becero, germanismo, satanismo, wotanismo, nazional-socialismo e chi più ne ha più ne metta, ad un tratto una luce, una stella brillante, un faro luminoso: …en their medh riki fara…
A voler essere precisi, il primo vero album di Vratyas Vakyas, all’anagrafe Markus Tümmers, avrebbe dovuto essere The Fireblade. Ma per motivi tecnici la registrazione originale non fu mai completata. Dovremo attendere il 2005 (ben dieci anni dopo il primo tentativo) quando, per i tipi della Napalm, viene pubblicato l’album Heralding – The Fireblade che contiene le registrazioni ex novo degli inediti e alcuni brani tratti dai primissimi demotape. Non ci sarebbe bisogno di dire nulla riguardo ‘ai’ Falkenbach; sappiamo tutti, sapete tutti, che si tratta di una one man band (i primi due album sono frutto esclusivo del suo lavoro, dopodiché si affiderà anche a guest musicians), che il suo creatore è cresciuto in Islanda e si è nutrito alla fonte della cultura e della mitologia nordica, che il suo viking metal è in assoluto equiparabile a livello qualitativo ai migliori dischi viking di Bathory. E questo, se eventualmente vivete ancora nel peccato dell’ignoranza, potrebbe darvi la misura di cosa stiamo parlando.
Ancora oggi non si trovano molte informazioni sul personaggio Vratyas Vakyas, né tantomeno sui primi album. Questo dipende da una precisa intenzione di Markus. Ai più giovani non saprei bene spiegare come fosse il mondo prima di internet, quando la penuria o, come nel caso dei Falkenbach, la totale assenza di informazione rappresentava un buon 50% dell’alone misterioso che vi gravava intorno. Il passaparola restava l’unica possibile fonte di informazione e il tape trading, lo scambio e le copie casalinghe, che si sentivano malissimo, registrate usando improbabili stereo da quattro soldi, le copertine disegnate a mano sul fronte e il lato della cassetta rappresentavano l’unico modo di accedere ad una dimensione che ti veniva di fatto negata. Più era difficile accedervi, maggiore era l’aura di sacralità e mistero, più forte l’idea di appartenere ad un club esclusivo di persone illuminate. Possedere …en their medh riki fara… nella propria collezione voleva dire che eri qualcuno che era riuscito nell’impresa. Non essere a conoscenza dell’esistenza di un qualsiasi gruppo oggi è diventato praticamente impossibile, perché le informazioni, spesso inutili, ti piovono addosso. Ciò che facciamo oggi per la maggior parte del tempo è scansarle; vent’anni fa, invece, dopo cinque ore di inutile scuola, iniziava la tua vera e personale ricerca di conoscenza: il nome Vratyas Vakyas significa, appunto, The Searching Wanderer.
Markus sembrerebbe un arcano vivente, un’incognita e invece è la persona più lineare che esista. No, non lo conosco personalmente, ma lo seguo da una vita. Lui concede una/due interviste ogni volta che pubblica un album nuovo, a volte nemmeno quelle, e ai giornalisti, che chissà cosa sono costretti ad inventarsi per estorcergli due parole, risponde sempre allo stesso modo. Avere uno scambio, anche solo via mail, con lui è un privilegio ma anche una massima frustrazione a causa del suo pensiero disarmante. Ha sempre dichiarato di odiare le interviste, perché lo annoiano, e i magazine, corrotti per antonomasia, di non aver nessun interesse nel fare promozione di sé stesso, di non curarsi di cosa pensi la gente di lui (e i fan dei suoi dischi) e, soprattutto, di non voler influenzare il pensiero di nessuno con delle sterili chiacchiere, di provare odio quando qualcuno tenta di incasellare la sua musica o trovare delle similitudini con altri gruppi, perché nessun gruppo ha avuto influenza sulla sua musica ed essa ha ragione d’esistere solo in virtù di ciò che c’è nelle sue lyrics. Non vuole fare concerti e non li fa. Non ha un merchandising, figuriamoci un sito internet (un tempo esisteva un forum dove pare che a rispondere ai messaggi, ovviamente solo a quelli che gli garbavano, fosse lui direttamente, ma anche quello sembra morto). Markus è un uomo di altri tempi, è uno che alle parole, le stesse parole dette nel corso di vent’anni, fa corrispondere i fatti e i comportamenti, rispettando sé stesso, la sua musica e chi la ascolta. A prescindere dal nostro circo, affollato di soggetti più o meno credibili, quante persone conoscete nella vita reale delle quali potreste affermare lo stesso? Quanti vostri conoscenti hanno tracciato una linea di demarcazione così netta tra sé e il mondo e non l’hanno mai superata, neanche per un momento? Possiamo bollarlo come misantropo, troppo facile; e poi noi cosa ne sappiamo, in fondo, della sua vita privata? Nulla. Markus ha sempre detto che vuole che parli solo la musica e che non si parli di musica. Neanche Quorthon è stato così coerente nella sua vita artistica. Ogni volta che penso alla esasperante volontà di quest’uomo, alla totale fiducia in sé stessi e nella bontà di ciò che si sta facendo, mi sento veramente molto piccolo. (Charles)
Ricordo bene i tempi di cui parla Charles (constatare che non sia passato cosí tanto tempo ma che cosí tante cose siano cambiate fa spavento), e purtroppo non ho avuto il piacere di essere tra i pochi fortunati che hanno avuto tra le mani una cassettina dei Falkenbach all’epoca.
Comunque non importa a che etá ci si approccia: il disco rimane un capolavoro, anche se gli preferisco il successivo.
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Disco enorme, pura epicità, con Galdralag e Asum Ok Alfum Naer su tutte. Oggi si trova facilmente su internet almeno in download digitale, non oso pensare alla difficoltà di entrarne in possesso negli anni ’90.
Comunque io propongo da anni di organizzare una macchinata per andare a trovarlo: sappiamo come si chiama e dove vive, avrà sicuramente dei conoscenti o dei colleghi che possiamo corrompere perchè ci rivelino informazioni.
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Grande disco, grande artista, grande stronzo.
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Quando uscì questo disco fu un colpo di fulmine. Ai tempi avevo una fanzine e, non avendo mai letto una sua intervista, gli mandai una lettera con una decina di domande e il francobollo per la risposta. Indicai anche un numero di fax.
Dopo qualche giorno mi arrivò proprio un fax, con le risposte all’intervista, secche e laconiche. Mi pare di essere riuscito a riempire giusto mezzo pagina.
Non avevo realizzato di essere stato “fortunato”, ma in effetti di interviste a Falkenbach ne ho lette pochissime. Il merchadise, però, mi pare che ci fosse, alcuni miei amici avevano le magliette.
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