Musica di un certo livello #4: KLABAUTAMANN, ENID, LANTLOS, NOCTE OBDUCTA

Piccola premessa: a me il metal teutonico, fatte salve le dovute eccezioni, non ha mai entusiasmato particolarmente. L’ho sempre visto come una naturale emanazione di quelle nazionali tedesche degli anni ‘0, quelle di Beckenbauer e Berti Vogts. Rendimento garantito sempre su ottimi livelli, compattezza granitica, unità di intenti ma la fantasia più estrosa risiedeva altrove.

Detto questo, il periodo natalizio ci ha portato in dote un’infornata di album più o meno importanti usciti quasi in contemporanea, tanto per rimarcare la distinzione tra loro che lavorano tutto l’anno noi che guardiamo i brindisi pre-registrati di Barbara D’Urso.

I Klabautamann me li ricordo uscire nella prima metà del decennio scorso con un paio di dischi decisamente promettenti. Our Journey Through the Woods e, soprattutto, Der Ort, erano buoni esempi di black metal con contaminazioni folk nello stile dei primissimi Ulver e con una particolare predilezione nei confronti di un certo prog più diretto e meno barocco, tutto condito con degli artworks che sembravano parodiare Burzum. Dopo uno stop di quattro anni, un paio d’anni fa si sono ripresentati con Merkur e la storia è cambiata: addio folk e più spazio per un black sempre più contorto e progressivo. Magari la proposta si è fatta meno immediata ma dopo tre o quattro ascolti alcune divagazioni ipnotiche iniziano ad insinuarsi con una certa stabilità nelle orecchie e anche i pezzi più inutilmente prolissi diventano quasi digeribili. The Old Chamber sembra riprendere un po’il dittico precedente, due dischi piuttosto simili usciti a due anni di distanza. C’è ben poco di realmente innovativo rispetto a Merkur, se non l’accresciuta abilità del duo di dare alle composizioni una struttura più organica e meno frastagliata, ma in definitiva se vi è piaciuto l’altro disco, andate sul sicuro anche con questo. Io, nel mio piccolo, continuo a preferire i loro esordi.

Sugli Enid si potrebbero scrivere tante cose, ad esempio che Munsalvaesche, l’ultima fatica discografica partorita da Martin Wiese (stavolta in compagnia di nessuno) è una di quelle cose che lasciano sconcertati al primo ascolto. Ma anche al secondo. E al terzo non è detto che ci si arrivi. Per farla breve, gli Enid sono, da sempre, i cugini un po’ sfigati dei Summoning, dai quali riprendono le strumentazioni orchestrali banalizzandole in una sorta di colonna sonora per film epici di serie B degli anni ottanta. In sostanza, se mentre ascoltando il duo austriaco la mente torna al vostro triplo cofanetto in edizione limitata del Signore degli Anelli, ascoltando gli Enid il ricordo corre a Dolph Lundgren nella parte di He-Man visto per caso in una notte d’estate su Italia1.

Da un bel po’ di anni avevano anche fatto perdere le loro tracce e tutto sommato la cosa poteva anche destare perplessità, visto che Gradwanderer era di gran lunga ciò che di meglio la mente di Wiese avesse partorito fino a quel momento. Ora, a distanza di sette anni, rieccolo alle prese con gli interminabili tappeti di tastiere sempre più anacronistici con quel loro suono artificiale e plastificato e con le famigerate linee vocali dalla discutibile efficacia. Qualcosa qua e là si salva ma l’impressione è che i cinquanta e passa minuti non finiscano mai ed il guazzabuglio di idee risulti fin troppo spesso confusionario e slegato per convincerci della bontà dell’operazione.

Rispetto agli altri dischi in questione, Agape è uscito un paio di mesi fa senza particolari clamori. Non so se l’ondata post-black-shoegaze-nerdblack sia già in fase calante o meno, fatto sta che il progetto solista Lantlôs (poi via via trasformatosi in trio) non lo conoscevo, così mi sono andato a riascoltare .Neon e l’ho automaticamente eletto mio disco dell’anno 2010, anche perché già fatico a ricordarmi i dischi usciti nel 2011, figuriamoci quelli degli anni precedenti. In entrambi gli album c’è di mezzo lo zampino dell’onnipresente Niege, che qui si occupa delle parti vocali, ma l’impressione è che Markus Siegenhor —a.k.a. Herbst —se la potrebbe tranquillamente cavare anche con le sue stesse gambe. Rispetto al predecessore, Agape suona molto più cupo, gli squarci melodici sono più ragionati ma anche più sporadici, eppure mi pare che i due dischi siano complementari e inscindibili. Un piacevole intermezzo in attesa del pluriosannato a priori Les Voyages de l’Âme, per il quale si stanno già inventando nuovi superlativi assoluti senza che nessuno abbia ancora ascoltato una nota.

Infine, riecco comparire tra noi i Nocte Obducta, dati per ufficialmente sciolti cinque anni fa, riapparsi nel 2008 con il loro “ultimissimo disco al 100% e vedrete che stavolta non ne faremo più” Sequenzen einer Wanderung (che stava al resto della loro produzione come Goatlord sta ai Darkthrone) e ora rientrati dalla porta di servizio. Tornando al discorso iniziale sui talenti cristallini e gli onesti, affidabili operai, i Nocte Obducta rientrano a pieno titolo nella prima categoria ma la loro genialità è sempre stata costretta a scontrarsi col pregiudizio geografico di chi non può tollerare che un gruppo black metal tedesco sforni costantemente dischi innovativi.

Verderbnis è una magniloquente opera bizzarra e deforme, al cui interno si incastrano con rara precisione le più disparate influenze, dallo space rock (Obsidian zu Pechstein) all’ambient (Schweißnebel) fino all’abusatissimo black’n’roll (Niemals gelebt), qui somministrato in doti ridottissime. I tempi in cui ascoltare un disco black metal significava ascoltare un disco black metal sono finiti da un bel pezzo, ormai la tendenza è ad auto-aggiungere etichette, band di riferimento, ispirazioni extramusicali e quant’altro concorra a rendere più appetibile un genere che dovrebbe fare di tutto per non esserlo. E l’ananas sulla copertina di Verderbnis è lì a ricordarcelo, come un totem che inneggia alla bruttezza. (Matteo Ferri)

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