Rivolta contro il mondo moderno: ROME – The Lone Furrow

Da almeno dieci anni a questa parte, Rome è il progetto più interessante e fecondo attivo in quel circuito che negli anni ’90 chiamavamo ancora “folk apocalittico”. Un po’ per demerito altrui, un po’ per i molteplici, indiscutibili meriti di Jerome Reuter. Il polistrumentista lussemburghese ha alzato l’asticella del genere a un livello di complessità, musicale e contenutistica, tale da non avere al momento non solo concorrenti ma nemmeno reali epigoni. È anche perché in mezzo c’è stato lui se gli ultimi dischi dei Death In June ci sembrano robetta. Una volta neofolk voleva dire una chitarra acustica, due tamburi e una voce fuori tonalità con contorno di testi e iconografia equivoci. Ogni volta che la partita diventava meno semplice, si finiva per sfociare nel post rock o nel folk vero e proprio. Poi è arrivato Jerome e ha cambiato le regole del gioco.
Rome è una creatura che, nella raffinatezza e nella molteplicità delle sfumature sonore e degli agganci lirici, appare figlia di un cervello irrequieto e vorace, il diario di un viaggio intellettuale di un’intensità con rari paragoni. The Lone Furrow è il disco con il quale Reuter reclama il trono e cerca di consolidare un successo ormai trasversale con una rassegna di ospiti (Averill dei Primordial, Nergal dei Behemoth, gli Harakiri for the Sky, i Pallbearer) che convalida il sodalizio con quella frangia borderline del pubblico metal che ha finito per adottarlo. Non solo costituisce un dittico organico con il precedente Le Ceneri di Heliodoro ma consente di leggere i due lavori ancora precedenti, The Hyperion Machine (sperimentale e allo stesso tempo nostalgico) e Hall of Thatch (dimesso, quasi scazzato), come divagazioni necessarie per concepire il successivo, molto più ambizioso, capitolo.
The Lone Furrow è un album studiato e lavorato al cesello quanto Heliodoro ma più lineare e accessibile, dove vengono snudate, non senza una certa astuzia commerciale, le matrici primordiali del suono dei Rome: il neofolk tout-court (l’andamento marziale di Tyrias Sig Tyrias, una The Angry Cup dove gli spettri di Douglas P. e Tony Wakeford danzano all’impazzata) e la scuola degli chansonnier francesi (Achtung, Baby!, volendo The Twain), con il sottofondo di una vena wave sommessa che viene fuori nei momenti più inattesi (l’elegiaca Palmyra). Ora non voglio asserire che Reuter abbia colto l’accresciuto successo come l’occasione per tirare fuori un disco paraculo che sarebbe piaciuto subito anche al neofita che avrebbe trovato un po’ duro da digerire già il predecessore. Però, nel caso, ci è riuscito e ha fatto benissimo.
Un discorso a parte merita l’impianto concettuale. Mi ha colpito che un’opera come Le ceneri di Heliodoro sia stata accolta senza polemiche in tempi di isterismi ideologici come quelli attuali. È un segno di quanto inattaccabile sia lo status che Reuter ha conquistato nella scena. Gli addetti ai lavori hanno svicolato l’argomento ricordando le sue vecchie dichiarazioni per cui i Rome non sono una band politica e lui, se proprio dovesse darsi un’etichetta, si troverebbe d’accordo con i socialisti della Belle Epoque, che è una cosa abbastanza banale e scontata, dato che l’alternativa è stare dalla parte del generale Bava Beccaris e dei cattivi capitalisti dickensiani. Heliodoro, nondimeno, aveva riferimenti davvero troppo palesi per non essere colti. Non serviva il richiamo a Enoch Powell per comprendere il significato di Who Only Europe Know; per i più tardi, c’era il merchandising con le citazioni di Evola.
In The Lone Furrow questa dimensione è proposta in maniera meno urticante ma ancora più esplicita (anche qua, sarebbe maligno fare appello all’astuzia commerciale di cui sopra ma, nel caso, ancora, ci è riuscito e ha fatto benissimo). Masters of the Earth è l’ideale chiamata alle armi dei guerrieri della Tradizione. Kali Yuga über alles accoglie la voce del compianto Roger Scruton e può permettersi di essere uno degli episodi musicalmente meno consistenti proprio per la pregnanza bruciante del testo. La cosa buffa, ma manco troppo imprevedibile, è che i Wiesenthal da tastiera non hanno fatto una piega e le reazioni incazzate sono arrivate da destra. Chi, dopo Heliodoro, contava di poter reclutare Reuter nella propria schiera, ora gli contesta di mantenere la faccenda su un piano estetico e distaccato, non militante. Come se The Lone Furrow non potesse essere, come è, il personalissimo, provvisorio punto d’arrivo di un concitato percorso filosofico e spirituale. Se vedete un’inconciliabile contraddizione con le tragedie della guerra civile spagnola raccontate dal punto di vista dei repubblicani in Flowers from Exile, il problema è solo vostro. (Ciccio Russo)
Critica alla società moderna ? Dove si firma ? Comunque uno che viene dal Lussemburgo è a rischio perculata, gli darò una chance ma non troppo seriamente.
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