Lo strano tributo strumentale di PAUL GILBERT a Ronnie James Dio

La chitarra elettrica che imita la voce umana, almeno in ambito rock (perché nel jazz si fa da un pezzo ed è pure molto più comune, però rompe solo le palle, come il jazz appunto), non è una novità da quando Ritchie Blackmore duettava con Ian Gillan sulla versione dal vivo di Strange Kind of Woman registrata in Giappone agli inizi degli anni Settanta ed immortalata in Made in Japan, uno dei dischi del vivo più belli di sempre (non scrivo che è il più bello in assoluto perché dipende tutto da quanto uno ama i Deep Purple). Personalmente l’unico che mi ha veramente colpito per capacità espressiva nel saper imitare la voce umana con la chitarra è Steve Vai, che spesso a inizio carriera, tra leva, wah-wah, bending e trilli, si dilettava nel rifare voci o conversazioni, anche se, al di là dell’aspetto propriamente tecnico del saperlo fare così bene (andate ad ascoltarvi Flexable o i dischi con David Lee Roth oppure l’inizio di The Audience is Listening da Passion and Warfare, se siete curiosi), apprezzabilissimo da quanti magari suonano la chitarra, rimane più un esercizio di stile che altro.
Come pure un esercizio di stile non può che essere questo The Dio Album di Paul Gilbert, del quale tempo fa avevo scritto circa il progressivo allontanamento dal metal in favore di sonorità più blues e rock leggero anni Settanta. Evidentemente il nostro amico chitarrista dall’Oregon ha deciso che tanto valeva omaggiare il suo idolo di gioventù con un album tutto strumentale in cui, al posto di un cantante, avrebbe suonato lui con la chitarra e, siccome gli dev’essere balenato nel cervello un enorme “PERCHÈ NO?” (mi raccomando se il senso è retorico usate SEMPRE il punto interrogativo alla fine, a scanso di equivoci e malintesi, fidatevi di uno stronzo), eccoci qui. E insomma era meglio se si faceva gli affari suoi: non è male, per carità, però quelle sono canzoni che senza una voce perdono completamente di senso, e, dato che comunque sono già in origine ampiamente cariche di chitarre per ogni dove, aggiungerne un’altra che rifà le linee vocali è una bella fesseria, soprattutto se uno poi ci tira fuori un disco di ben dodici pezzi come ha fatto il vecchio Paul.
Alcuni pezzi sono simpatici (Kill the King, Holy Diver, pure Heaven and Hell), però lasciano davvero il tempo che trovano. Se avesse arruolato un cantante (mi viene in mente Ronnie Romero, che secondo me si sarebbe prestato più che volentieri) avrebbe avuto ben altro senso, ma così non vale la pena di poco più che un ascolto veloce, se siete appassionati di Dio o Gilbert. Altrimenti, se proprio vi piace Pablo Gilberto, fermatevi a Werewolves of Portland, che è l’ultimo lavoro solista composto da materiale originale ed è migliore assai. (Cesare Carrozzi)
Romero è un’anima in pena. Mi pare stia facendo la fine di Tim Owens, un mostro che non trova casa.
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ascoltato intero. non lo riascolterò.
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