Avere vent’anni: giugno 2002

DOOMSWORD – Resound the Horn

Lorenzo Centini: Da Gallarate, se è una bella giornata e l’aria è pulita, puoi vedere le Alpi che ti sembra quasi di poterle mangiare. Però è anche un vomito di città, schiacciata dall’autostrada e dalla dogana ferroviaria, soffocata dal cattivo e casuale gusto di costruzioni sparpagliate e senza senso erette da cummenda come testimonianza imperitura della miseria umana. Sembra l’epicentro di quell’incubo chiamato Milano, che per un chilometro quadrato di aperitivi, coca e neon poi ce ne sono centinaia fatti di capannoni, svincoli stradali, elettrodotti. Vicino Gallarate c’è anche il bosco della Malpensa, umiliato e maledetto, anche se difficilmente passerebbe per quello di Brocelandia. Comunque, se il metal è rivolta contro lo schifo della realtà, quello epico lo è ancora di più, lo sappiamo. Quindi i Doomsword, da Gallarate, suonano metallo epico e questo è il secondo disco, ventenne di pacca. Per coerenza, dedizione e convinzione sono uno dei gruppi più inattaccabili nel giro, nel mondo. Grazie a dischi come Resound the Horn, cupo, dolente, doom. Heavy. Che il legame coi Manilla Road non è peregrino. Su un altro livello la band di Shelton, ok. Ma qui, sarà il concept vichingo, ai lombardi non gli si può dire imputare nulla, e Resound the Horn in fondo è un discone vero, serrato come un muro di scudi. Guadagnarono meritatamente l’onore di dividere il palco con Shelton, all’epoca. In fondo, probabilmente Wichita non è affatto meglio di Gallarate.

HALFORD – Crucible

Barg: Dopo essere uscito dai Judas Priest, Rob Halford passò gli anni Novanta rincorrendo le ultime tendenze musicali, rigettando in tutto o in parte il proprio passato. A un certo punto però fece uscire Resurrection, debutto della band che portava il suo cognome e che in un colpo solo spazzò via ogni dubbio: il metal god sembrava tornato in pista con gran pompa e con tanto di armamentario simbolico stereotipico, dalla moto agli occhiali da sole a specchio. Il suo percorso però era lungi dall’essere lineare, e difatti Crucible, secondo lavoro in studio a nome Halford, segna un compromesso tra il metallo duro e puro di Resurrection e le “sperimentazioni” dei suoi progetti anni ’90. Il risultato è anch’esso un compromesso: Crucible convince quando spinge sul pedale del metallo classico e lascia interdetti quando straripa in modernismi vari ed eventuali. Il suono è sempre curato da Roy Z ed è molto panteroso, con chitarre ribassate e riff poco “ariosi”, ma il difetto principale del disco sta nella sua eccessiva lunghezza: tenendo conto delle bonus track, si parla di un’ora abbondante. Ci sono comunque bei momenti, tipo Betrayal o One Will, o anche la ballata She, probabilmente la migliore prestazione vocale di Rob in quest’album. All’epoca ricordo che ne parlai con troppa sufficienza, ma non se lo meritava. Chiedo perdono.

ORIGIN – Informis Infinitas Inhumanitas

Griffar: Un ronzio di mosche introduce il secondo violentissimo album degli americani Origin, oggigiorno conosciuti come una delle band più tecniche in tutto il panorama metal, forse i più abili tecnicamente in assoluto in campo brutal death. Che questi suonino spaventosamente bene credo lo sappiano tutti, dato che lo facevano già agli inizi della loro carriera vent’anni fa, quando ancora se la tiravano meno da fenomenali funamboli degli strumenti e mettevano la tecnica esecutiva più al servizio del formato-canzone, invece di sfoggiarla come puro e semplice manifesto di esibizionismo. Sistemata la formazione con l’ingresso del nuovo cantante James Lee (durerà ancora due album) e del bassista Mike Flores (che invece negli Origin ci suona tutt’oggi), Informis Infinitas Inhumanitas è una carneficina di durata relativamente limitata – meno di 29 minuti – perché tutti i nove pezzi sono caratterizzati dal minutaggio piuttosto breve, cosa che non gli impedisce di contenere decine di riff complicatissimi, idee strane, frasi monocorda d’ispirazione quasi black metal, così come ai limiti dello screaming sono le voci contrappunto che di frequente sdoppiano il growling marcio di Lee. Non erano ancora i campioni dello sweep picking che diventeranno in seguito, preferendo comporre riff melodici e memorizzabili. Si fa fatica a crederci ma è così: i pezzi sono tutti distinguibili l’uno dall’altro, i riff definiti e comprensibili come raramente accade nel brutal death da un bel po’ di tempo a questa parte, grazie anche alla quasi assente compressione  dei suoni. John Longstreth, il batterista, è un vero prodigio e lascia attoniti quanto già vent’anni fa fosse un virtuoso ben oltre ogni limite. Con una sezione ritmica simile i chitarristi hanno gioco facile nel disegnare trame contortissime senza produrre stucchevoli o confusionarie alluvioni di note: e così tutto l’album risulta diretto e quasi semplice da assimilare, nonostante abbia l’impatto di un treno lanciato a tutta velocità verso la catastrofe; questo è probabilmente il miglior disco che gli Origin abbiano pubblicato ed uno dei picchi dell’intero brutal death. Loro sono dei fuoriclasse, sanno di esserlo e ultimamente un po’ ne hanno abusato.

FREEDOM CALL – Eternity

Barg: Questo è il disco con cui i Freedom Call fecero il salto di notorietà. Se i primi due album erano più strettamente rubricabili come classico power metal helloweeniano anni Novanta, qui iniziano ad entrare altri elementi nello stile del gruppo, che rallenta i ritmi e si fa più orecchiabile e zumpettoso, mentre Chris Bay smette di ricercare sempre le note altissime diventando quindi più personale e riconoscibile. Diciamo che Eternity è un disco più socialmente accettabile rispetto ai precedenti, quello i cui pezzi sembrano concepiti per essere suonati dal vivo; a dimostrazione di ciò, nei dischi live della band di Chris Bay sono proprio le canzoni di Eternity quelle con la resa migliore. Questa strada avrebbe portato i Freedom Call a spaziare molto, nei successivi dischi, lasciandosi parzialmente alle spalle quel power a frullatore dei primi due lavori; Eternity, invece, si pone più o meno a metà, ed è come se prendesse il meglio delle due fasi. A scanso di equivoci: è un disco fantastico, un vero capolavoro del genere, con canzoni che non stancano mai a distanza di vent’anni e un numero sproporzionato di ascolti: qui dentro ci sono classiconi come Metal Invasion, Island of Dreams, Warriors, Eyes of the World fino a Land of Light, la canzone zumpettona per eccellenza, con quelle trombette pappappara-pappappà responsabili di innumerevoli ginocchia usurate per i saltelli di migliaia di persone ai loro concerti. Senza dubbio uno dei più bei dischi power degli anni Duemila: se vi piace il genere non potete non conoscerlo a memoria.

THE GATHERING – Black Light District

L’Azzeccagarbugli: Una perfetta sintesi di ciò che si definisce “disco di transizione”: l’ep Black Light District dei Gathering parte da How To Maesure a Planet e If_Then_Else e arriva Souvenirs, anticipato da una splendida versione acustica per piano e voce di Broken Glass. Ma questo EP non si limita a fare da ponte a due momenti della carriera dei The Gathering e regala tantissime sorprese proprio nella canzone che dà il titolo al disco, sedici minuti in cui la band sperimenta in modo diverso da quanto fatto in passato e da quanto farà in futuro. Sedici minuti che, anche a distanza di vent’anni, continuano a riservare sorprese e ad entusiasmare e che testimoniano il periodo di grande ispirazione che avevano all’epoca i nostri, che passavano agevolmente da un genere all’altro con ottimi risultati. Fino ad approdare ad una loro rilettura del trip-hop del bellissimo Souvenirs, disco di rottura che segna, almeno per me, anche la fine della splendida avventura dei The Gathering.

ANGRA – Hunters and Prey

Barg: Per rodare la nuova formazione e abituare i fan alla stessa, gli Angra pensarono bene di far uscire questo EP a un anno di distanza da Rebirth. Gli inediti sono quattro: un pezzo veloce powerone (Live and Learn); una terrificante ballata strappamutande che starebbe bene come sigla di un telefilm adolescenziale anni Novanta (Bleeding Heart); un curioso pezzo prog con forti influenze tribali brasiliane (Hunters and Prey) e una roba vagamente in stile Journey (Eyes of Christ). Completano il quadro due versioni acustiche di canzoni del precedente album, una cover dei Genesis e una versione in portoghese della stessa Hunters and Prey (intitolata Caca e Cacador, per la gioia dell’umorismo da terza media che sempre risiede in noi). Solo per completisti.

MERRIMACK – Ashes of Purification

Griffar: Mai capito più di tanto il perché, ma in patria i Merrimack sono sempre stati disprezzati con una certa veemenza. Ipotizzavo che, visto che all’epoca erano abbastanza influenzati dalle Black Legions, loro venissero ritenuti degli scopiazzatori belli e buoni, tuttavia i loro primi demo risalgono al 1995 e lo split con gli Hirilorn (uscito solo in cassetta, credo) al 1998; ne consegue che al tempo di Ashes of Purification, il debutto, erano già in giro da un pezzo. Misteri delle scene black metal, gli scazzi sono sempre dietro l’angolo. Eppure Ashes of Purification non è affatto malvagio ed il (tanto) tempo che è passato lo ha retto bene: va bene, non sarà originalissimo, ma ha un suono e dei riff belli marci, a volte punkeggianti come i loro conterranei Antaeus, più frequentemente lanciati a tutta velocità come tipico del black metal francese di quell’era, altrove arpeggiati ed ipnotici, in certi tratti molto darkthroniani (ascoltatevi il terzo brano Noigel, ad esempio); anche le tematiche sono allineate a quelle imperanti nella scena: titoli come Suicide o Paedophilic Orgasmatron valgono più di mille parole dietrologiche su quanto fosse onesta la loro proposta o in quale misura. Come detto la scelta dei suoni è assai avariata e putrescente, fangosa ma di quel fango putrido e maleodorante tipico di paludi infestate da entità malevoli ed empie, demoni assortiti e amenità varie. Il disco è registrato in modo più che comprensibile, quindi possiamo apprezzare i loro riff oscuri e malefici, ad esempio nell’ipnotica Bleed, forse il pezzo migliore del disco. Nulla che gruppi come Vlad Tepes, Belketre, Torgeist o Mütiilation già non avessero fatto, questo va detto, ma non sono comunque certo che questo basti a giustificare tanta ostilità nei loro confronti. Forse dietro c’era qualcos’altro, ma sinceramente a me di queste menate è sempre fregato meno di zero. Se la musica è buona per me vale la pena supportare il gruppo, se fa cagare se la possono tirare da padreterni fino alla fine dei tempi (chi ha detto Vothana?) ed io non scucirò mai un soldo bucato per loro. Negli anni il loro sound si è evoluto verso trame più intricate e religious black, e hanno pubblicato altri 4 full, l’ultimo dei quali nel 2017. Risultano comunque ancora attivi.

AUTUMN – When Lust Evokes the Course

Barg: Gli Autumn migliori sono quelli di Altitude, meraviglioso gioiellino dalle raffinate tinte gotiche impreziosito dalla splendida voce di Marjan Welman, uscito nel 2008; praticamente tutto ciò che i connazionali The Gathering avrebbero voluto essere nel dopo How to Measure a Planet? senza mai riuscirci. When Lust Evokes the Course è invece il debutto della banda olandese, ed è un esempio di gothic metal più canonico, con un’altra cantante e altre finalità. Praticamente un altro gruppo. Il disco è noioso e decisamente troppo scontato, e probabilmente non piacerebbe neanche a Michele Romani, campione mondiale di gotico pipparolo: ne diamo notizia qui solo perché siamo molto affezionati agli Autumn posteriori e ogni occasione è buona per consigliare l’ascolto di Altitude. Questo When Lust Evokes the Course invece potete tranquillamente risparmiarvelo.

LIVIDITY – ‘Til only the Sick Remains

Griffar: Quando studiavo il tedesco, una marea di tempo fa, per aiutarmi nella comprensione del testo ogni tanto compravo ABlaze, storica rivista di metal estremo scritta per l’appunto in quella lingua. L’unico disco a cui vidi assegnare il punteggio di 100/100 fu The Age of Clitoral Decay dei Lividity, un manipolo di pervertiti in fissa con i film snuff, porno estremo, splattergore, necrofetish e tutto quanto di solito tende a disgustare la gente normale – quella stessa gente che si prende a coltellate per una mancata precedenza, ma va bene così – a quanto pare felice di assoggettarsi ad un buonismo di maniera che tanfa di ipocrisia cronica lontano chilometri. A proposito di tanfo, The Age of Citoral Decay è un ammasso verminoso e purulento di carne marcia, e il suo successore, che s’intitola più che a pennello Til only the Sick Remains, è esso stesso un ammasso verminoso e purulento di carne marcia. È solo suonato un po’ meglio ed ha i suoni un po’ meno compressi, ma in quanto a malattia non è secondo a nessuno. Certo, l’influenza di Cannibal Corpse e Suffocation è palese e, forse anche grazie a questo, i riff sono distinguibili e molto meno torbidi e opachi di buona parte delle produzioni brutal death più recenti. Inoltre loro sono tra i primi mentori del movimento pornogrind e qualche digressione nel genere più estremo di sempre ce l’hanno anche loro (Snake Size Tits, 34 secondi), così come alcune parti rallentate sono proprio death americano puro, di quello che trovate in Slowly we Rot o Severed Survival, per citare un paio di titoli tra i più riconoscibili nei solchi di questo secondo album dei pervertiti americani. La suite del disco è Anal Autopsy, vicina ai cinque minuti con tanto di assolone di chitarra – uno dei pochi – anche se più generalmente i pezzi girano sui tre minuti e mezzo/quattro e tutto il disco dura appena più di mezz’ora. Linee vocali in decomposizione totale, batteria in bell’evidenza anche se dal suono un po’ asettico (sembra quasi elettronica ad un primo ascolto, in realtà alle pelli c’è il bruttissimo James Whitehurst), basso e chitarre efficaci e discernibili a meraviglia, qualche sample di troppo di perle cinematografiche di porno estremo o horror snuff che si poteva evitare anche se (ovviamente) integrato alla perfezione nel contesto: tirate le somme il disco è godibile e fottutamente divertente. Del resto i Lividity non sono diventati una cult band per caso, anche se è innegabile che la loro proposta musicale sia dedicata a pochi fan oltranzisti. Sono ancora attivi a quanto pare, l’ultimo LP (appena il quinto di una carriera costellata però da miriadi di split ed EP) Perverseverance è del 2018.

NIGHTWISH – Century Child

Barg: Incastrato tra la prima era power metal e la seconda era sinfonica, Century Child è a tutti effetti un disco di transizione. I ritmi rallentano, l’accordatura delle chitarre si abbassa e la voce di Tarja inizia ad abbandonare l’impostazione operistica per adottare un tono di voce più normale, diciamo così. Il fatto è che i Nightwish di Oceanborn e soprattutto Wishmaster spaccavano perché erano un gruppo power parossistico cantato da un soprano con una voce particolarmente esagerata; per farla breve, erano un gruppo unico al mondo. Al contrario, la versione edulcorata smette di avere senso e diventa un polpettone difficilissimo da digerire; certo, c’è anche da riconoscere che questi Nightwish (specie quelli del successivo Once, quando la mutazione potrà dirsi compiuta) finiranno per essere uno dei più influenti gruppi metal degli ultimi vent’anni, ma a ognuno il suo, come si suol dire. Per quanto mi riguarda non riesco a capire il senso di sentir cantare Tarja Turunen come una cantante pop qualsiasi; Century Child ha ancora qualche spunto carino – proprio perché disco di transizione non ancora compiutamente symphonic metal – ma da qui a farti venire voglia di rimetterlo nello stereo ce ne passa.

INFERNAL WAR – Infernal SS

Griffar: Infernal SS è l’esordio discografico dei polacchi Infernal War, qui dediti ad un fast black metal crudo e assassino a tematiche prevalentemente guerresche, pertanto riconducibile a certo war black metal che di lì a poco sarebbe andato per la maggiore. Uscì per la microscopica label Dark Blaze Stronghold e in tutta onestà credo che pochi a quei tempi avrebbero potuto predire un futuro radioso per loro; e invece oggi sono un gruppo assai rispettato nel panorama black mondiale, sicuramente molto di più per i tre full Terrorfront, Redesekration e Axiom che non per questo breve EP d’esordio da 23 minuti contenente sei inediti più la cover di Chainsaw Gutsfuck dei Mayhem (non certo uno dei brani più memorabili della leggenda norvegese, qui suonata al doppio della sua velocità originale o giù di lì). Brani da due/tre minuti – tranne la penultima e un po’ più meditata Lata niewoli (Years of Slavery) che si spinge ai cinque e mezzo, per loro a quell’epoca quasi una suite – e tutti incentrati sulla velocità più folle umanamente possibile, con qualche break meno violento per variare un po’ le cose e persino qualche breve assolo di chitarra, che sebbene in gran parte sepolto dal contesto sonoro così estremo riesce sorprendentemente gradevole. La batteria più che tenere il tempo sventaglia mitragliate stile assalto terroristico, i riff di chitarra sono prevalentemente disadorni, essenziali, ridotti all’osso anche se per fortuna hanno sempre un senso logico e non si riducono ai classici tre accordi delle palle ripetuti all’infinito, ammantandosi di una certa sensazione di melodia non spiacevole. Come detto, in seguito avrebbero composto materiale decisamente migliore; questa però è un’opera prima che, pur nella sua ingenuità, un certo significato ce l’ha; rimane un disco per completisti e fan sfegatati che vogliono avere tutto della band, anche se probabilmente bisogna mettere sul piatto una cinquantina di euro per comprarne una copia – ne esistono due versioni, una in digipak – e io non sono sicuro che questo disco valga una spesa del genere. Dimenticavo: nonostante il titolo la band ha sempre proclamato di non essere schierata politicamente.

IRON SAVIOR – Condition Red

Barg: Rimettere su Condition Red ti fa tornare sempre il buonumore. Gli Iron Savior hanno avuto molti alti e bassi nella loro carriera, ma quando imbroccano la melodia giusta sono irresistibili; e Condition Red è uno dei loro dischi migliori, uno tra quelli con la più alta concentrazione di pezzi riuscitissimi, e forse anche quello che ho sentito più volte in vita mia. È meno dinamico dei lavori precedenti, assumendo uno stile granitico e prepotentemente TETESCO fondato sulla produzione a cura dello stesso Piet Sielck, con la batteria dal suono robotico, le chitarre grattate, i cori possenti e il basso in bell’evidenza; in questo senso Condition Red è l’inizio degli Iron Savior come gruppo a sé stante a solida guida dello stesso Sielck, rigettando il carattere di supergruppo che ne aveva segnato gli esordi. Non c’è più Thomen Stauch né il suo successore Dan Zimmermann, e non c’è neanche più Kai Hansen che aveva resistito fino al precedente Dark Assault. Piet Sielck inizia così il percorso in solitaria, dando alla sua creatura il suono che lo caratterizzerà in futuro e lo caratterizza tuttora. Per il resto, che gli vuoi dire a un disco che si apre con Titans of our Time? Qui ci sono pezzi clamorosi come Walls of Fire, Tales of the Bold e l’omonima, ma non solo: Condition Red è uno dei pochissimi dischi degli Iron Savior che si gode dall’inizio alla fine, con l’unico neo rappresentato dalla conclusiva incomprensibile cover di Crazy di Seal, che però possiamo tranquillamente far passare in cavalleria. Avercene.

DAVID BOWIE – Heathen

L’Azzeccagarbugli: Ogni giorno senza David Bowie la musica perde qualcosa. E se questa massima vale anche considerando i suoi passi falsi – due in una carriera sterminata – figuriamoci per album interessanti come Heathen. Un lavoro comunque “minore” non solo rispetto agli ovvi capolavori, ma anche alla produzione del passato (1.Outside, …Hours) e del futuro più prossimo (l’impressionante doppietta The Next Day blackstar), ma non per questo poco interessante o poco riuscito. Al contrario Heathen, anche a vent’anni dalla sua uscita, resta difficile da catalogare e da decifrare. E ciò in quanto da un lato echeggia ancora delle sperimentazioni dei ‘90 e dall’altro segna un marcato ritorno a sonorità più classiche, confermato dal rientro in cabina di regia di Tony Visconti. In questo frangente troviamo composizioni che sono quasi un ibrido tra il periodo più glam di Bowie – al netto dell’irruenza giovanile – ed i suoni figli del periodo berlinese, esplicitamente richiamati dall’EMS originale utilizzato da Eno su Low. Un incrocio reso ancora più anomalo da due cover, perfettamente stravolte, di I’ve Been Waiting for You di Neil Young e dell’ottima Cactus dei Pixies e dalla presenza di special guest del calibro di Dave Grohl e Pete Townshend (e per i riccardoni si segnala la presenza di Jordan Rudess e Tony Levin). Il risultato, al netto di alcune prolissità e di un paio di brani un po’ inconsistenti, è davvero riuscito e ricco di momenti davvero ispirati, e Sunday, Heathen (The Rays) 5:15 The Angels Have Gone si ritagliano un posto nel canzoniere bowieiano. E poi c’è Slip Away, una ballata teatrale e drammatica in stile Life on Mars? che merita un discorso a parte. Un brano di un’intensità disarmante, ispirato ad uno show americano per bambini – Uncle Floyd Show – scoperto casualmente a casa di John Lennon che lo seguiva insieme al piccolo Sean. Bowie divenne un grande fan della trasmissione tanto da dedicargli una delle sue migliori composizioni dell’ultima parte della sua carriera. E quello struggente “How I wonder where you are” sembra rivolgersi tanto ai personaggi dello show quanto all’amico tragicamente scomparso.

GREAT VAST FOREST – Battletales & Songs of Steel

Griffar: C’è la fortissima probabilità che questo disco faccia cagare a spruzzo la maggior parte di voi, ché tanto i Great Vast Forest non li avrete mai nemmeno sentiti nominare, già pochi secondi dopo che la pomposa intro The Rings of Power è digradata nel primo brano Pagan Kingdom. Diciamo che gli arrangiamenti della voce non sono tra i più azzeccati di tutti i tempi, diciamolo pure. Ma voi lo avreste mai detto che il gruppo clone più spudorato di sempre di tutto il filone pagan/viking black norvegese sarebbe stato un gruppo brasiliano? In patria sono degli eroi, una cult band con la C maiuscola, e vengono venerati come e più di Emperor, Satyricon, DarkThrone e compagnia blasfemeggiante; la loro musica però pesca a piene mani dai side project dei tizi delle storiche band e nulla dalle stesse, oltre a quelli di altra gente che in quel periodo qualcosina di buono lo aveva anche fatto. Mettere nello stereo Battletales & Songs of Steel significa ascoltare un gruppo che ha messo nel frullatore i dischi di Storm, Isengard, Wongraven, Falkenbach, Einherjer, Bak de siv Fjell e pure qualcosina di Bathory, li ha mescolati, ha scelto suoni raw-lo-fi-demo tipo Lugburz dei Summoning e se n’è uscito con un CD vilipeso dal mondo intero, sbeffeggiato, perculato, deriso, stroncato selvaggiamente in sede di recensione. Onestamente si fa fatica a difenderlo, argomenti a suo vantaggio se ne possono portare veramente pochi: è genuino, è spontaneo, nella sua puerilità ha pure dei momenti che spaccano e fanno scapocciare, ma se proprio si deve dare un giudizio obiettivo questo non può che essere negativo. Il cantante è da fucilazione sul posto, la maggior parte dei riff cose già sentite e risentite… che possiamo farci? Gli piaceva quel tipo di black norvegese/nordico ed hanno pensato: “Se ci sono riusciti loro a fare dei dischi della madonna, perché non ci proviamo anche noi?”. Onore al merito e alla passione: per comporre dischi come Nordavind, Høstmørke, ..en their medh riki fara… e via discorrendo ci vuole un talento di cui sfortunatamente i nostri eroi brasiliani difettavano da ogni punto di vista. Successivamente spariti per lustri, nel 2015 hanno pubblicato una raccolta di demo in CD ed un nuovo album (From the Dark Times to the Black Metal Legions) nel 2017, anch’essi idolatrati in patria ed ignorati senza troppi rimpianti nel resto del pianeta. I classici CD che tra vent’anni costeranno un rene, dio solo sa il motivo e a noi non resta che cominciare sin da ora a chiederci il perché.

THUNDERSTONE – st

Barg: Gli Stratovarius cantati meglio ma con pezzi inferiori. La descrizione del debutto dei Thunderstone si potrebbe chiudere qui, anche se effettivamente quanto detto potrebbe far sembrare che si parli di un brutto disco, e così non è: si parte bene coi primi due pezzi Let the Demons Free e Virus, poi l’attenzione tende un po’ a scemare ma non si scende mai sotto la soglia del dignitoso. Il fatto è che gli Stratovarius sono molto più che una semplice influenza, e questo stranisce; spesso si può anche pensare che in effetti ci sono altri gruppi a essere citati, come ad esempio i Sonata Arctica di Ecliptica, ma in fondo anche questi ultimi erano un gruppo talmente innamorato degli Stratovarius che molte delle loro melodie sarebbero potute tranquillamente stare su un Visions o un Episode. La band comunque aveva del potenziale, e infatti i successivi The Burning e Tools of Destruction riusciranno molto meglio del debutto; questo Thunderstone però potrebbe fare la felicità di chi ancora continua a rimettere nel lettore i vecchi dischi della band di Timo Tolkki.

MUSTAN KUUN LAPSET – Suruntuoja

Griffar: Suruntuoja è il debutto sulla lunga distanza dei blackster finlandesi Mustan Kuun Lapset, dopo l’interessante EP Prologi e lo split CD con gli Azaghal di poco precedenti. All’epoca suonavano black metal armonioso, coi riffoni ultramelodici, gli stacchi acustici, le voci sdoppiate tra lo screaming ed un growl cavernoso molto riempitivo e d’effetto, gli arrangiamenti di tastiere bombastiche, i blast beat a manetta e tutto questo genere di cose. In pratica validi adepti di quella scena che, dai cattivissimi Thyrane ai più moderati Fintroll passando per progetti notevoli come Alghazanth, Thy Serpent, Funeris Nocturnum, Catamenia, primi Enochian Crescent e chi si ricorda di tutti gli altri nomi è bravo, si è ritagliata uno spazio nel cuore di chi ama il metal cattivo e violento pretendendo comunque qualcosa di canticchiabile. Suruntuoja ha proprio tutto per piacere: 1) melodie in bell’evidenza ora pesanti come un tamarro che ti fa la voce grossa in disco perché hai guardato con troppa insistenza (due secondi) la tipa (s)vestita da mignotta che si porta appresso, ora sognanti e malinconiche come la classica aurora boreale oppure come l’immagine della rosa coperta dalla brina di un’inaspettata gelata tardo-primaverile; 2) un bel tiro per tutti gli otto brani, assai omogenei: non ce n’è uno che spicchi su tutti gli altri, tendendo ad equivalersi su un livello di tutto rispetto; 3) una durata nella media, 43 minuti, il giusto per godersi un buon disco senza dover biasimare quei due/tre pezzi in più che portano la durata del disco oltre l’ora e, detta in soldoni, spaccano notevolmente i marroni; 4) produzione e suoni eccellenti anche se prodotto di una indie all’epoca molto piccola come la Northern Sound. Il fatto è che le cartucce migliori i Mustan Kuun Lapset le hanno sparate nei primi anni della loro vita. E così sono sempre rimasti un passo indietro, rimanendo relegati a un ruolo marginale all’interno della loro scena di provenienza e quindi di tutto il resto del mondo. Suruntuoja è un bel disco, piacevole, che tutti quelli che apprezzano il black melodico suonato bene gradiranno indubbiamente per un paio di settimane per poi assai probabilmente passare ad altro. È il loro migliore, il successivo Kauniinhauta gli si avvicina ma la parabola era già nella curva discendente. Si sono sciolti nel 2007 dopo altri due dischi né brutti né indimenticabili per poi riformarsi dieci anni dopo suonando cose tipo gothic/black, che non ho mai ascoltato con attenzione.

3 commenti

  • Busto è peggio di Gallarate. Chainsaw Gutsfuck è una delle mie canzoni preferite dei Mayhem altro che

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  • Si infatti, volevo capire anche io perché Gallarate fa così cagare al caro Lorenzo.
    Vent’anni fa forse non era come oggi, ma c’è ben di peggio nell’hinterland milanese.

    Ad ogni modo, Doomsword grande band che forse ha ricevuto meno di quello che avrebbe dovuto.
    Il talento c’era (oggi si sono perse le tracce), i mezzi anche.

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  • Resound the Horn è, mi sbilancerò, un capolavoro immortale. Uno dei più bei dischi metal di sempre, fa da fomento a una ingasatura non esplicabile in termini razionali.
    Pur non essendo il power un genere che ascolto molto (anzi, non lo ascolto quasi per niente) il terzo disco dei Freedom Call regge la botta dopo tanti anni. Ci sono dei bei pezzi dentro.

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