Avere vent’anni: MAYHEM – Grand Declaration of War
Il primo impatto con Grand Declaration of War fu sconquassante. Mettermi a raccontare ora le impressioni di quel primo ascolto è superfluo, perché, se conoscete il disco e sapete cosa rappresentavano nell’anno 2000 i Mayhem, potrete benissimo immaginarlo da soli. Vi basti sapere che fu uno shock assurdo, ma il mio sbigottimento fu persino più edulcorato rispetto a ciò che lessi all’epoca sulle riviste e sui primi forum in internet. La gente era uscita fuori di testa: a quell’epoca questa era la quarta uscita ufficiale dei Mayhem, dopo Deathcrush, De Mysteriis Dom Sathanas e Wolf’s Lair Abyss; i Mayhem avevano una reputazione e un’aura di culto che in pochissimi potevano vantare, le aspettative per quest’album erano altissime (io il giorno prima neanche dormii, ma questo lo racconterò nell’imminente recensione di Brave New World) e di sicuro nessuno si aspettava neanche lontanamente quello che poi venne fuori. Fortunatamente per me, però, ho continuato ad ascoltare Grand Declaration of War per parecchio tempo, sfidando il disgusto e la repulsione, per cercare un senso, una chiave di interpretazione che mi facesse capire che no, mi ero sbagliato e che in realtà questo era un gran disco non dico degno dei dischi precedenti ma quantomeno del moniker stampato in copertina. E alla fine l’ho trovato.
Grand Declaration of War è insieme una riflessione su che cosa è il black metal e un manifesto del suo destino. Se l’avesse fatto qualsiasi altro gruppo non sarebbe stata assolutamente la stessa cosa: dovevano farlo i Mayhem, perché erano stati i Mayhem a cominciare tutto e su di loro gravava la responsabilità di fermarsi a riflettere cosa fare. È una dimostrazione di coraggio e responsabilità senza precedenti da parte di Blasphemer, il tizio sbucato fuori dal nulla e messo a fare il compositore dai residuali membri sopravvissuti che in fondo, per assurdo, volevano solo pagarsi le bollette. Lui sarebbe stato capacissimo di fare un disco black insieme ortodosso e proiettato in avanti, che mettesse d’accordo tutti: l’aveva dimostrato con Wolf’s Lair Abyss, una delle cose più belle mai registrate nella storia della Norvegia. Ma aveva qualcosa da dire, e lo disse; attirandosi l’astio del pubblico che, per certi versi comprensibilmente, non aveva né la voglia né le capacità di stare ad ascoltare.
Per dirla in termini molto semplici, Grand Declaration of War è un concept diviso in due parti di cinque pezzi ciascuna, tenendo fuori tracce parlate, ghost track e varie. Ci sono due livelli diversi che si intersecano: musica e testo.
Nella prima parte è la vera e propria grande dichiarazione di guerra, in cui la furia iconoclasta distruttrice del black metal viene trasposta in una guerra fisica, concreta al cristianesimo, alla società e a Dio. I testi in questa prima parte sono più canonici, e con la sicumera sfacciata tipica dei classici testi black parlano dei temi classici di odio e misantropia. La prima traccia eponima si apre come si era chiuso il precedente album, con il riff finale di Symbols of Bloodswords, a simboleggiare la perfetta continuità con il passato dei Mayhem, e continua con ritmiche marziali, da marcetta militare, e Maniac che declama a testa alta il disprezzo per il cristianesimo e la volontà bellica. Siamo perfettamente nel contesto ingenuo e adolescenziale del black metal primigenio. Le successive In the Lies Where Upon you Lay e A Time to Die sono difatti quelle musicalmente più ortodosse, escludendo la voce pulita di Maniac e le ritmiche fratturate; e i testi si fanno ancora più aggressivi e iconoclasti. Dopodiché in View from Nihil part I ritornano le marcette militari, nonostante (già dal titolo) la guerra sia ormai quasi al termine e si parli di ricostruzione e volontà di potenza. View from Nihil part II, poco più di un minuto, riprende per l’ultima volta il riff di Symbols of Bloodswords (inteso probabilmente più in generale come concetto di black metal) per non riprenderlo più; il testo è al passato, declamato da Maniac come dalla cima di un cumulo di cadaveri:
You have experienced the river of blood
Which here flowed day by day
Against our sworn enemies.
I came not to send peace but a sword
And I… I have made war
La curiosità è che ai tempi di Wolf’s Lair Abyss avevano fatto uscire una maglietta con queste stesse parole, ma al futuro. Il pezzo si chiude con una forte esplosione a cui segue un lungo silenzio. È la fine della guerra, e della prima parte.
Nella seconda parte, dopo la guerra vinta dall’iconoclastia e dal nichilismo, le cose si fanno più complicate. A Bloodsword and a Colder Sun (ancora la bloodsword) si compone di due parti. Nella prima c’è solo la voce di Maniac che declama questo:
Development came like a sudden death in the family
No one could foresee the coming of [INAUDIBILE]
In the multilayers of paralyzed christened lies
But when the earth exploded
And bodies burned to ashes
The leader of men died first
And common people changed
Into beasts of genocide
I penetrated the mind of God
Why are there essence rather than nothing?
Gli ultimi due versi fanno capire tutto. Hanno sconfitto Dio, ma con sorpresa si sono accorti che Dio non era nulla, era qualcosa. E poi, l’hanno realmente sconfitto? Dopodiché è tempo di ricostruire, come promesso. La parte seconda di A Bloodsword and a Colder Sun è un pezzo simil-trip hop, la vera pietra dello scandalo dell’epoca. Ma se il black metal ha esaurito la sua funzione esistenziale, cosa dovrebbe venire dopo? Si procede per tentativi. I pezzi successivi riprendono a singhiozzi gli stilemi black, li scompongono, li mischiano, li ricompongono sbilenchi. Tutto è nero intorno ai vincitori, che cercano di ricostruire il mondo con la scienza e la ragione. La sicumera delle parti declamate svanisce: i toni si fanno sofferti, smarriti, acidi. È la sconfitta del vincitore che è rimasto solo in mezzo alla desolazione che ha provocato, e si accorge che la Scienza e la Ragione, totem apparentemente incontestabili su cui aveva fondato la propria esistenza, non sono altro che vuoti simulacri frutto della degenerazione dell’Uomo e della Storia; ma non può prenderne davvero coscienza, perché ormai non c’è altro da fare che andare avanti fino in fondo, pervertendo e modificando artificialmente l’universo nella speranza di, ironicamente, riportare un bagliore dell’equilibrio divino che egli stesso ha frantumato per sempre. E allora tutto è angoscia e dolore, perfino l’atto stesso della nascita.
Do you hear with eyes?
The universe is crunching
After the war… silence
Not in the black hole of stretched time
You once had blood in your veins
The blood so black it hurts
Remembrance is torn away
I offer cosmos in my design
Chromosome needles in your arms
The suffering of a thousand voices
My science hurts
Values arises from pain
Birth is pain
Kaosconstruction not my game
No fairytales from dust dead books
Birth is pain
Questo vuoto incubo postapocalittico si è spinto a sostituire Dio con la Tecnologia e la Scienza che, come è noto, non sono altro che Satana: quindi, tecnicamente, ciò che sin dall’inizio era l’obiettivo primario. Le cose non stanno andando però come sperato ma, ancora una volta, non ha senso fermarsi a pensare: quello che è stato è stato, e l’unica cosa da fare è andare avanti fino in fondo. Perciò To Daimonion, il demone in senso greco, lo spirito che in questo caso è la voce del sopravvissuto, del reconstructionist, che ha riplasmato il mondo e ricreato artificialmente la specie umana, sogno satanico che si rivela l’inevitabile fallimento di un bambino che si è creduto Dio. È l’inevitabile fine del mondo, la logica conclusione della pulsione di morte dell’Uomo. E quindi la parte seconda e terza di To Daimonion, cinque minuti di silenzio a parte la frase “I remember the future: a new beginning of time”, la presa d’atto che alla fine di un’epoca, incessantemente e inevitabilmente, corrisponde l’inizio di un’altra. E poi silenzio, per cinque lunghissimi minuti. Il disco si chiude con Completion in Science of Agony part 2, suoni dissonanti e la voce robotica del reconstructionist che dice: “All the stars in the North died. We move towards a new constellation”; lo spirito distruttore che non si placa persino di fronte al suo più tragico fallimento.
Grand Declaration of War, inteso in questa maniera, è un capolavoro di proporzioni indefinite, nonché un’opera più intrinsecamente black metal di quanto non suoni. Blasphemer aveva qualcosa da esprimere e si è preso la responsabilità e il fardello di dirlo, nonostante questo abbia prodotto un album di difficile ascolto che, in definitiva, non è stato mai amato dai fan dei Mayhem. Strumentalmente è magnifico: Hellhammer è in stato di grazia, Blasphemer inventa incessantemente per tutto il tempo, e Maniac dimostra una varietà di stili e registri raramente sentita prima in questo genere. Se i Mayhem si fossero sciolti subito dopo, sarebbero entrati nel Mito. Purtroppo hanno continuato ad esistere, producendo dischi in serie per accontentare quelle stesse orecchie che non hanno voluto né saputo apprezzare questo capolavoro concettuale. E così da Chimera (disco caruccio, e mai come questa volta questo aggettivo è il più pesante degli insulti) si è arrivati fino allo squallore della “reunion” con Attila Csihar e poi, pian piano, sempre più in basso, fino all’ultima mediocrità a nome Daemon, dischetto d’imitazione che avrebbe potuto scrivere chiunque altro. Per quanto mi riguarda Grand Declaration of War è l’ultimo disco dei Mayhem, e simbolicamente anche l’atto finale di quella magnifica favola che è stato il black metal. (barg)
Analisi perfetta che conferma la mia stramba teoria che per assaporare il black metal andava ascoltato perfettamente lucidi,senza alcool e droghe leggere talmente era forte.
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Sintetizzando, un disco VOMITEVOLE. In tutto. Poi si puo’ analizzare come una radiografia di un malato terminale come in questa appassionata recensione, ma IMHO questo disco rimane una vera schifezza dall’inizio alla fine.
Soggusti.
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All’epoca cercai di vederci qualcosa di buono (che in Chimera c’è). Non lo trovai e passai ad altro. Da allora ciclicamente ci torno sopra e alla fine, sarà l’età che avanza che elimina ogni parvenza di “mito” alle cose, qualcosa ci ho trovato: l’involuzione di chi, sforzandosi di andare sempre “contro” finisce per diventare una caricatura di sé stesso.
Credo che ognuno di noi conosca il tipo: l’amico punk che a forza di fare l’anarchico è diventato un cattolico bacchettone, il bonghista che dopo la prima volta che gli fregano il portafogli vota Lega “ma da un’ottica di sinistra”, la tizia casa-e-chiesa che scopre la vocazione da pornostar, il fascistone che per… no, beh, quelli sono macchiette dall’inizio.
Oppure era solo il terrore del successo. Non scherzo. Cerco di mettermi nei loro panni. Da band marginale diventi un fenomeno che segna un’epoca e invece di mollare tutto (cosa che forse sarebbe stata più saggia, ma è anche comprensibile il contrario) decidi di tornare sulle scene – e scopri che non sarai mai all’altezza delle aspettative. Così provi a ribaltare il banco e…
In ogni caso era bello, ai tempi, sperare in un’apocalisse un po’ meno noiosa di quella che stiamo vivendo.
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Apprezzo la tenacia con cui è stato scritto tutto il pippone di recensione qui sopra, ma davvero non ne valeva la pena. Ho provato a riascoltare questo disco poco tempo fa e il giudizio rimane sempre quello : alcuni riff fighi mischiati a marcette, spoken word irritanti e robe a caso, senza un filo logico. All’epoca molte band, non sapendo più dove andare a sbattere la testa, decisero di darsi ad un’avanguardia un tanto al chilo, conciandosi da deficenti o sparando nel mucchio con la speranza di centrare il bersaglio. Ad alcuni (satyricon?) la cosa uscì anche bene, ad altri assolutamente no ed è questo il caso. Certo, ai tempi si cercava ancora di dire qualcosa, invece che limitarsi a vivacchiare nella comfort zone come un pò tutta l’attuale scena metal,però senza il logo mayhem in copertina chi mai si sarebbe cagato ‘sta roba?
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La domanda con cui chiudi andrebbe posta in relazione all’ultimo disco dei Mayhem, non a questo (che a me è sempre piaciuto, ma non immaginavo fosse ancora oggi così osteggiato).
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saggia considerazione.
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Oh certo , indubbiamente grand declaration of war è sempre meglio delle ultime cacatine che hanno pubblicato. Proprio per il fatto che, ai tempi, si cercava ancora di dire qualcosa invece di limitarsi ad essere la cover band di sé stessi. Ma a parte questo per me rimane una roba abbastanza buttata lì, che se non fosse marchiata mayhem difficilmente qualcuno se ne sarebbe ricordato, passati vent’anni. Se poi per molti è un capolavoro incompreso ok, son gusti alla fine. Secondo me mancano le canzoni, non ci trovo un filo logico e mi rompo i coglioni ad ascoltare questo album. Poi magari loro l’avranno sicuramente composto secondo una loro precisa idea, ci sarà sotto un significato filosofico profondo ecc, ecc.. Ma preferisco mille volte ascoltarmi i motorhead
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Ai Satyricon riuscì bene? a che disco ti riferisci? sono stupito e perplesso…
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A me ad esempio Rebel Extravaganza piace
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Rebel extravaganza ovviamente
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Il primo approccio a questo disco furono due pezzi nel sampler della rivista psycho… Poi l’ho evitato come la peste…. A distanza di 20 anni lo sto rivalutando e me lo ascolto ciclicamente…. Piuttosto di un deamon mille volte meglio questo di disco…. E alla fine anche il logo in copertina non ci sta proprio male….
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Complimenti per questo approfondito saggio dedicato all’ultimo disco rilevante dei Mayhem, che in effetti all’epoca tentarono di dire qualcosa di riconoscibile, ma il fatto è che il concetto supera la musica, e quindi l’ascolto è poco agevole: io personalmente non ne sono un ammiratore, anche se lo rispetto.
Non sono sicuro che QUEL black metal fosse finito nel 2000: l’esperienza black norvegese si era concettualmente conclusa anche prima, in un momento che personalmente colloco fra Transylvanian Hunger e Wolf’s Lair Abyss. D’altra parte, parlando dei Mayhem è difficile dire chi fossero e cosa sostenessero anche a suo tempo, perché, quando stava arrivando la loro rivoluzione, erano già chi morto e chi disperso. I sopravvissuti hanno fatto qualcosa di comunque importante, dal momento che ancora oggi siamo qui a parlarne.
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onestamente ho zero ricordi del disco. Non lo ascolto dalla sua uscita, e l’unico pensiero che mi viene in mente, è che ti dava l’impressione non di partire mai. Tante idee ma poco sviluppate. Poi, boh, probabilmente eravamo talmente fissati con quanto uscito prima, io per lo meno ero in fissa con le tracce demo di De Misteriis, che ci spiazzo talmente tanto ma non farci capire un cazzo…se trovo il tempo proverò a riascoltarlo…
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Bellissimo saggio di critica, come al solito.
Quanto alla musica, sono contento di essere un parvenue del genere così posso godermi l’album senza che il sedicenne in me ruggisca di sdegno :)
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