Avere vent’anni: ottobre 1997

BURZUM – Dauði Baldrs

Trainspotting: Primo disco del Conte registrato nelle patrie galere, sorprendentemente ispiratissimo e molto migliore del successivo Hlidskjalf, che segnerà la – temporanea – chiusura del progetto Burzum, poi ripartito anni dopo con Belus. Dauði Baldrs, come il successivo, fu registrato interamente con una tastiera, una scelta dovuta non a cervellotiche scelte artistiche ma semplicemente al fatto che all’epoca era l’unico strumento che gli permettevano di usare in cella; per lo stesso motivo, il disco è interamente strumentale: magari i secondini pensavano che con un microfono avrebbe potuto uccidere qualcuno, che ne so. Comunque Dauði Baldrs è bellissimo: la vocazione ambient di Burzum, che già si stava progressivamente esplicitando in Hvis Lyset Tar Oss e Filosofem, qui – anche per cause di forza maggiore – esce completamente allo scoperto, disegnando affascinanti trame che rievocano il folklore nordico in maniera incredibilmente sommessa e delicata. Il disco, come detto sopra, è strumentale, nonostante all’interno del booklet ci siano dei testi per ogni pezzo; trattasi di un’opera dedicata alla storia di Balder, il figlio di Odino e Frigg, una divinità norrena associabile probabilmente ad un tardo culto solare dovuto al contatto tra vichinghi e popolazioni europee e mediterranee, che fu ucciso a causa di un inganno del perfido zio Loki. Il risultato è un album affascinante, ingenuo ma profondamente sentito, che va riscoperto alla luce anche e soprattutto delle ultime uscite discografiche di Vikernes.

VADER – Black to the Blind

Marco Belardi: C’è stato un periodo intorno al 2002-2003 in cui ero molto preoccupato dalla quantità di materiale che riuscivano a sfornare i Vader: dischi di inediti, EP, live album, compilation, album di cover, ma probabilmente anche raccolte di urla delle persone che si erano ritrovate il nuovissimo impianto Bose sfondato dall’improbabile mixaggio della cassa di Doc. Ho parlato di recente del concetto di non buttare via niente, e loro riuscivano a portarlo proprio all’eccesso. Eppure, considero un minicd come Kingdom uno dei loro lavori più azzeccati: che dire solo dell’opener Creatures Of Light And Darkness? Se Litany è stato l’ultimo capitolo che li ha visti in forma pressoché perfetta, Black To The Blind fa invece parte di quella triade di album di inediti, cominciata nel 1995 con De Profundis e terminata appunto con Kingdom, in cui i polacchi riuscivano a rasentare praticamente la perfezione. La produzione non è spinta ed eccessiva come in Litany e l’approccio contiene al suo interno una percentuale di attitudine slayeriana tale da rendere impeccabile la proposta, un death metal feroce ma mai fine a sé stesso, elementare nelle chitarre ma sufficientemente curato per non apparire rozzo. Dà il via alle danze proprio Doc inaugurando Heading For Internal Darkness, il primo di una serie di classici che consacreranno quello del 1997 – insieme alle magnifiche Carnal e Fractal Light – come uno degli apici compositivi della band dell’inconfondibile Piotr Wiwczarek, e del nuovo arrivo Mauser.

DEFTONES – Around the Fur

Stefano Greco: Il secondo disco dei Deftones è quello che negli anni ho riascoltato di meno, e il motivo è più o meno sempre lo stesso: in confronto alla loro produzione successiva mi sembra un lavoro di poco spessore. White Pony è talmente in alto nella mia personale classifica di dischi migliori di tutti i tempi che ancora oggi non so bene perché, prima di questo, mi piacessero così tanto. 
È difficile da spiegare ma, per come la vedo io, Around The Fur è molto bello ma ti dà un idea sbagliata della band. È più una sensazione che un dato di fatto: quello che mi impedisce di tornarci spesso è la sua sottesa ambizione ad essere perfetto. Mi dà l’impressione di un album concepito perché debba avere successo, un lavoro in cui tutto sembra essere esattamente come dovrebbe: le foto, le collaborazioni, i suoni, gli strilli, l’immaginario di riferimento. Un’aspirazione alla completezza che, anche se in maniera sottile, porta il gruppo a sposare anche tutta una serie di manierismi nu metal tipici delle produzioni dell’epoca. Tutte cose dalle quali in seguito si distanzieranno senza rimorsi. Nonostante una serie di pezzi grandiosi, l’impressione (oggi) è quella di una band che fosse ad un passo dal definire in maniera netta il proprio sound ma, in qualche maniera, ancora intimidita dai riflettori puntati addosso. Solo in Be Quiet And Drive la band sembra raggiungere il proprio pieno potenziale, un brano per il quale mi ritrovo mio malgrado ad utilizzare e concetti e vocaboli quali anima, intensità, emozione e tutte queste altre parole che in genere si pensano ma non si dicono. In quei cinque minuti ci sono il cuore, il nocciolo, l’essenza di quello che i Deftones erano e quello che diverranno. E io ci ho trovato pure un pezzetto di me.

DEFLESHED – Under The Blade

Ciccio Russo: Lo scorso anno avevamo pensato di fare una puntata speciale collettiva di Avere vent’anni dedicata solo ai gruppi death svedesi fighi ma sfigati. Quelli che non si sono affermati perché all’epoca uscivano, nel frattempo, Slaughter Of The Soul e Massive Killing Capacity e il ragazzino medio non aveva i soldi per comprarsi tutto. Per qualche motivo la cosa saltò, quindi scusateci se non vi abbiamo parlato di A Canorous Quintet, Gates Of Ishtar, Hypocrite e Decameron eccetera eccetera eccetera. La quantità di band che usciva fuori dalla Svezia all’epoca sarebbe stata ingestibile anche con YouTube e Spotify. Quindi passavano in sordina dischi magari non da annali ma devastanti come Under The Blade, forse il migliore dei Defleshed: un incazzatissimo Matte Modin, poi nei Dark Funeral, alla batteria; uno che passava di là alla chitarra; a basso e voce Gustaf Jorde, che nel 2012, a sette anni dallo split dei Defleshed, avremmo ritrovato nei discreti Evocation. Li beccai dal vivo poco prima che si sciogliessero, di spalla agli stessi Dark Funeral, e spaccarono decisamente.

ENTHRONED – Towards The Skullthrone Of Satan

Marco Belardi: L’essenza degli Enthroned è tutta racchiusa qui, ossia nel loro album più melodico e ispirato, e nel precedente e più atmosferico Prophecies Of Pagan Fire, l’unico inciso insieme al batterista Cernunnos. Quest’ultimo non era esattamente un prodigio di tecnica, ma formò la band nel 1993 e contribuì alla stesura ai primi due lavori per poi suicidarsi. Nulla sarebbe rimasto invariato. Towards The Skullthrone Of Satan è un album ben prodotto e suonato, grazie anche all’ausilio del turnista Da Cordoen dietro alle pelli, e che ti entra in testa fin dal primo ascolto: black metal velocissimo ma incredibilmente melodico, in coppia con l’echeggiante voce di Lord Sabathan, una sorta di Paperino biondo che recita una Messa Nera, che devo dire ho trovato sempre caratteristica nonostante non fosse fra le mie preferite nel genere. Evil Church è il loro classico per antonomasia e, quando gliela sentii rifare dal vivo nel tour di Armoured Bestial Hell, non ci capii più niente. In linea di massima, però, i pezzi sono un po’ tutti di livello altissimo ed anzi, è solamente l’opener The Ultimate Horde Fights a convincermi di meno. In futuro azzeccheranno in pieno solamente Carnage In Worlds Beyond, diventando a causa di Nornagest un gruppo violentissimo e un po’ fine a sé stesso, specie con l’abbandono del personaggio creato da Walt Disney.

MOONSPELL – 2econd Skin

Trainspotting: Anno 1997: i Moonspell sono uno dei migliori gruppi del mondo. Sembra strano a dirlo adesso, eh, che se dico Moonspell pensate alle gothic lolitas con i loro ombrellini lillà che si tagliano le braccia sul balcone di notte ascoltando qualcuna delle loro ultime nefandezze e pensando a Fernando Ribeiro come ad un vampiro diafano pronto a soddisfarle sessualmente con il suo calore lusitano. E invece è esattamente come dico io, cari fratelli del vero metal, e dovreste ormai averlo capito: io ho sempre ragione. Insomma, dopo due capolavori immortali quali Wolfheart e Irreligious, stavano per fare uscire il loro terzo disco, Sin/Pecado, anch’esso un capolavoro anche se incompreso (e se non siete d’accordo con me vi invito a rileggere qualche riga sopra). Nel frattempo, oltre a salire sull’autobus senza pagare, i portoghesi per passare il tempo decisero di tirare fuori questo singolone, con un estratto dall’imminente terzo album (2econd Skin appunto, qui in due versioni), più una cover dei Depeche Mode, un rifacimento del loro classico An Erotic Alchemy e un bonus cd dal vivo. L’unico motivo per cui sono qui a parlarvi di questa altrimenti superflua uscita è proprio Erotik Alkemy, molto diversa dall’originale eppure estremamente interessante. Ascoltatela ma non comprate il disco come feci io all’epoca, ché ora c’è il magico mondo di internet a frapporsi tra il nostro portafoglio e questi colpi di testa da completista dei miei stivali.

HELLACOPTERS – Payin’ the Dues

Stefano Greco: “SOULSELLER!!! SOULSELLER!!!” Il tizio accanto a me è completamente posseduto dal demone del rock’n’roll e, ignaro degli sguardi perplessi delle persone che lo circondano, invoca senza sosta il suo brano preferito. Nei momenti di pausa, in preda all’estasi mistica, chiama amici e parenti per accusarli della loro mancata presenza ad una tale epifania dell’elettricità.
Ammerda, sei ‘nammerdaaa!! Ma che cazzo stai a fà allo stadio? Qua ce stanno i HELLACOPTERS!” E poi ancora, puntando il dito contro i musicisti sul palco: “SOULSELLER! Mannaggiavvoi, dovete suonà SOULSELLER!!!
Quello di cui il tipo non si rende conto è che sul palco si sta esibendo ancora il gruppo spalla. E che lui si sta rendendo ridicolo in maniera esagerata. Non è quindi stronzaggine ma humana pietas quella che mi impone di fare qualcosa per porre fine a tale imbarazzante sceneggiata. “Oh, bravi questi, ma chi sono?” Chiedo ad alta voce al solo scopo di farmi sentire dal personaggio in questione. Il Conte mi risponde “Boh, sono la band di apertura, credo italiani, il nome non me lo ricordo”. Il tipo ascolta, si accorge dell’errore e qualcosa nell’espressione del suo volto cambia. Si guarda intorno. Lo osservo restringersi fino a scomparire, si dilegua verso il fondo della sala, forse verso casa. Vuole essere dimenticato. Ma scordarti è impossibile, amico mio. E in tuo onore ancora oggi, quando ad un concerto sono in vena di facezie, tra un brano e l’altro invoco sempre e solo la traccia numero sei dal clamoroso Payin’ the Dues.

HAGGARD – And Thou Shalt Trust… The Seer

Trainspotting: L’arrivo sulle scene degli Haggard lasciò tutti un po’ spiazzati, a partire dalle foto promozionali: i bavaresi si presentavano infatti con un numero spropositato di membri, più o meno una ventina, il che rendeva le foto di gruppo più simili a quelle dell’annuario scolastico che a quelle di un normale gruppo musicale. E di normale, in realtà, non c’era moltissimo, data la volontà di porsi esattamente a metà strada tra il metal e la musica sinfonica; un approccio che successivamente porterà ad abomini che non vale neanche la pena nominare, ma che gli Haggard interpretavano con sorprendente levità. Loro mi sono sempre sembrati una versione metal degli Ataraxia, con cui condividevano una delicata sensibilità folk lontana anni luce dal popolarismo da supermercato di quello che poi sarebbe diventato il folk metal. And Thou Shalt Trust… The Seer è il debutto, un gioiellino che all’epoca venne trattato più con curiosità che altro, ma che avrebbe meritato molta più attenzione. Qui il growl è l’elemento straniante che, a posteriori, in certi punti spezza un po’ le gambe al respiro degli Haggard; ma sono appunti perfettamente normali per un gruppo che, da pioniere assoluto, si muoveva in territori inesplorati; nel bene e nel male, a vent’anni di distanza non mi pare di ricordare nessuno che si possa paragonare a loro. Purtroppo, anche a causa dei problemi logistici di una lineup così ampia, gli Haggard gireranno poco in tour e firmeranno solo altri tre album; e sono quasi dieci anni che aspettiamo il prossimo.

MOGWAI – Mogwai Young Team

Charles: Non è sempre così, ma ci sono degli album che non ha molto senso iniziare ad ascoltare oggi, dopo vent’anni dalla loro pubblicazione. Cioè, ha senso ma fino ad un certo punto: se ne potrà apprezzare qualche aspetto, ma non sarà possibile capire tutto fino in fondo. Quando uscì Mogwai Young Team (e pure Come On Die Young) non so quanti realmente avessero intuito la portata del nuovo suono che si stava facendo avanti, come anche i proseliti che avrebbe fatto: io neanche per sbaglio. Facciamo finta che il rock fosse uno specchio: i Mogwai non fecero altro che tirare martellate contro questo specchio riducendolo in pezzi, per poi prendere questi pezzettini taglienti dalle forme irregolari e spigolose, o tondeggianti e sinuose, e ricomporli/sovrapporli senza alcuna apparente logica o metodo. Invece il metodo c’era, e l’immagine che vi si rifletteva era qualcosa di assurdo, abnorme, caotico e teoricamente irriproducibile. Ne è un caso veramente lampante Fear Satan, IL pezzo rappresentativo dei Mogwai della prima era (nonché il migliore del loro full di esordio), con cui qualche sera fa hanno chiuso il concerto a Roma, attualizzandolo rispetto a tutto ciò che è venuto fuori negli anni (anche grazie a loro) e attualizzandolo rispetto a ciò che loro stessi sono diventati oggi. Praticamente una versione rinnovata di un classico, che inizialmente non avevamo neanche riconosciuto, e che ci ha spiazzato totalmente; e comunque non avrei mai immaginato che la loro reale dimensione fosse quella live. È per colpa di questa capacità dei Mogwai di stupire ogni volta e lasciarti perplesso a riflettere su cosa sta accedendo in quel preciso istante che non ha molto senso cercare di capire i loro dischi retroattivamente. Purtroppo, per essere apprezzati veramente vanno vissuti nel frangente in cui ci vengono regalati.

ABYSSOS – Together We Summon the Dark

Trainspotting: Non avevo mai sentito questo disco prima d’ora, ma ricordo perfettamente le recensioni dell’epoca e soprattutto la copertina, un’ingiustificabile carnevalata vampiresca come andava di moda all’epoca a causa del successo dei Cradle of Filth. Ovviamente pensavo che gli Abyssos fosse un clone della band di Dani, ma in realtà questi tre svedesi erano orientati più su un incrocio tra Dissection e Naglfar, che coi suddetti vampiri non aveva proprio niente in comune. Peraltro il disco non è malaccio, ha delle interessanti parti di chitarra melodica in pieno stile Somberlain e si lascia ascoltare più che volentieri. Lo stroncarono tutti all’epoca, ma non se lo meritava assolutamente: capisco che nel 1997 uscivano parecchi dischi bellissimi, e quindi ci si poteva permettere il lusso di snobbare roba del genere (che invece, uscisse oggi, sarebbe oro colato), ma credo che abbia influito l’indegna pantomima di copertina, a cui nessun maggiorenne dotato di un minimo di pudore poteva effettivamente prestarsi. Tra l’altro gli Abyssos erano formati da tre tizi di cui non si è più sentito parlare, a parte il cantante/chitarrista/tastierista, che ha avuto una piccola parentesi negli Evergrey. Che poi i cloni dei Cradle of Filth all’epoca c’erano davvero, come testimonia il disco recensito qui sotto.

HECATE ENTHRONED – The Slaughter of Innocence, a Requiem for the Mighty

Trainspotting: Gli Hecate Enthroned erano una barzelletta. Dico erano perché non ho la minima idea di cosa abbiano fatto in tempi più recenti, e sinceramente non mi viene neanche voglia di dar loro il beneficio del dubbio. Copiavano spudoratamente i Cradle of Filth da qualsiasi punto di vista, il che dovrà essergli sembrata una cosa furbissima dato che all’epoca i COF erano sulla cresta dell’onda, ma il risultato è che nessuno li ha mai presi sul serio. Complice anche il video più ridicolo della storia della musica, An Ode for an Ancient Wood, tratto dall’EP di debutto del 1995, sette minuti e mezzo di delirio puro che nessun programma comico televisivo riuscirà mai ad eguagliare. Il cantante era tale Joe Kennedy, che aveva suonato il basso sul debutto dei COF, Principle of Evil Made Flesh; qui, invece, si piazza dietro al microfono e passa il tempo a fare la copia carbone di Dani Filth, tra screaming altissimo, growl e parti narrate. Il risultato è incommentabile, perché come detto nessuno è mai riuscito a prendere sul serio gli Hecate Enthroned, figurarsi dare un giudizio obiettivo su quest’album. C’è anche Andy Sneap in cabina di regia, che si sarà dovuto violentare per dare al disco questo suono incasinato e volutamente amatoriale, tale da non far capire nulla di cosa stia succedendo. L’unica cosa positiva che riesco a dire è che quantomeno la copertina era meno indecente di quella degli Abyssos.

NOCTURNAL BREED – Aggressor

Marco Belardi: Prima che The Gathering dei Testament facesse effetto nelle vene dei thrasher di tutto il mondo, portando pure un guascone da lounge club come Mille Petrozza a cestinare Endorama e tornare indietro, è stato un gruppo non convenzionale a farmi assaggiare la migliore portata di thrash metal che avessi potuto sperare in quegli anni. Anzi due: gli altri furono esattamente i Dekapitator con l’ottimo e rozzo We Will Destroy… You Will Obey, ma si sta parlando di personaggi semi-sconosciuti e che probabilmente adesso vendono felpe hooded da Alcott. Nel 1997 Nagash e Silenoz dei Dimmu Borgir, prima di ritrovarsi in preda di elettronica incontrollata e tastieristi virtuosi, fecero combriccola con Svartalv dei Gehenna per ricomporre quello che doveva assomigliare il più possibile ad un immaginario fatto di speed ‘n’ thrash primordiale, troie e Harley Davidson luccicanti, addobbate da inequivocabili simboli di morte, e coi motori perennemente accesi. Impossibile dare credito ad una trovata così, eppure i primi due album dei Nocturnal Breed, side-project di gente che aveva di che guadagnare su album come Enthrone Darkness Triumphant o Nexus Polaris, spaccarono veramente il culo.

Non ci credevo neppure io quando li acquistai: pur preferendogli il secondo No Retreat… No Surrender, il debutto Aggressor vantava una prima metà di scaletta di assoluto livello, in cui è perfino inclusa una discreta cover di Evil Dead. Rape The Angels e l’omonima Nocturnal Breed portano con sé il sapore acre del genere principale suonato dai tre loschi figuri coinvolti, mentre Frantic Aggressor e Blaster sono dei manifesti di stima e devozione totale per il thrash degli anni ottanta, quello ancora privo delle sfumature tecniche post-1987 e che veniva  catalogato come speed metal. Per intenderci, in odore dei primi Razor (Executioner’s Song) e degli Exciter, al look veniva aggiunto un naturale taglio europeo nonché una estremizzazione generale dell’intera questione. Con l’ombra dell’heavy metal classico costantemente in prima linea soprattutto per questioni anthemiche, tantoché i Nocturnal Breed coverizzeranno di lì a poco mostri come W.A.S.P. e Twisted Sister. Poi si arriverà a Tools Of The Trade del 2000, e con una formazione rimaneggiata si metteranno a fare schifo pure loro…

FU MANCHU – The Action Is Go

Stefano Greco: La copertina: Tony Alva vola oltre la mattonella blu nella famigerata Dog Bowl e in quel momento esatto inventa lo skateboard moderno. Lo scatto originale è opera di Glen Friedman, noto anche per essere più o meno il fotografo ufficiale della prima ondata di hardcore americano. Sia soggetto che autore non sono una scelta casuale: stanno lì ad indicare una prossimità sia fisica che ideologica.
Rispetto a In Search Of  il gruppo cambia la metà dei pezzi e, pur mantenendo il sound generale invariato, trova in maniera ancor più netta il suo centro: le divagazioni psych e hendrixiane si fanno più rarefatte ed è proprio la componente punk-HC a divenire predominante. Tradotto: ora menano di più.
In quest’essenzialità accentuata la band trova la sua dimensione perfetta. Il minutaggio esteso non riesce a diluire la botta complessiva: davvero difficile tagliare qualcosa da una simile collezione di brani disumani, cito a caso Evil Eye, Urethane, Laserbl’ast! o l’indimenticata Saturn III che ancora oggi chiude i loro concerti. Per non parlare di Hogwash che ispirò una grande band del primo stoner rock italico, o quella Burning Road a cui credo un noto festival debba in parte il nome (chissà, magari prima o poi anche loro se lo ricorderanno). La tentazione di analizzare, sezionare, identificare citazioni più o meno esplicite è forte, ma è la solita fuffa di noi aspiranti rockologi. La realtà è che l’essenza dei Fu Manchu è condensata tutta nei primi quattro-secondi-quattro che aprono il disco: wah-wah e fuzz che si alternano e si sovrastano a vicenda. Quando gli amplificatori fumano tutto il resto è superfluo.

BELPHEGOR – Blutsabbath

Trainspotting: Amate lo squallore, il degrado umano e tutto ciò che c’è di magico negli angoli dei cessi delle stazioni ferroviarie? Il vostro habitat naturale sono le mangiatoie di piscio dell’Hellfest e le pozzanghere di merda del Brutal Assault? Allora Blutsabbath è il disco che fa per voi, insieme al precedente The Last Supper e pure al successivo Necrodaemon Terrorsathan. I primi Belphegor erano l’hangover molesto fatto musica, un inno al conato di vomito senza alcun tipo di remora o freno inibitorio. L’eccesso spinto al parossismo, perché la vita fa tendenzialmente schifo e c’è sempre bisogno di qualcuno che lo ricordi. Ovviamente aiutandosi con tutto l’armamentario del caso: teschi di capra, suore impalate, interiora bovine spiaccicate sulle pareti, gente che vomita bestemmiando tutti i santi, eccetera. Chiude l’album Path of Sin, una delicata canzone d’amore che recita: you have died but I don’t care/ burial place is not your true relief/ fistfucks in your backdoors hole/ necropenetrating lust takes command. Poesia. La gente davvero non sa che si perde a non essere metallari.

FLESHCRAWL: Bloodred Massacre

Ciccio Russo: La scena death tedesca non è mai stata foriera di gruppi chissà quanto memorabili. Tra le più o meno relative eccezioni c’erano i Fleshcrawl, seguaci della frangia più truculenta e oltranzista della scuola svedese, quella di Grave e Centinex. Bloodred Massacre è il quarto lp ed esce ad appena un anno dal precedente Bloodsoul (no, non mettevano la parola “Blood” in tutti i titoli, tipo i Dew-scented, i nomi degli album dei quali iniziano tutti con la “I”), distinguendosene per qualche riff blackettone in più. Pure se uscisse oggi, avreste roba migliore da sentire nello stesso ambito ma i Fleshcrawl si fanno sempre ascoltare con piacere. All’inizio si chiamavano Suffocation e con questo moniker incisero ben due demo prima di rendersi conto di avere un leggero problema di omonimia. Metal Archives li dà ancora per attivi, sebbene negli ultimi dieci anni abbiano inciso solo uno split su cassetta limitato a 100 copie con tali Skinned Alive.

BLOODTHORN – In the Shadow of your Black Wings

Trainspotting: Questo è uno di quei dischi che all’epoca passavano completamente inosservati a causa dell’altissimo livello delle uscite del genere, mentre adesso entrerebbero di diritto nella playlist di fine anno. I Bloodthorn, di cui In the Shadow of your Black Wings è il debutto, erano un duo norvegese di perfetti sconosciuti che si cimentavano in un black metal melodico dai ritmi perlopiù cadenzati, prendendo un po’ da tutte le tendenze di quel periodo. Non mancano i blastbeat, ma la trama generale dell’album è fatta di tastiere, melodie, ritmi lenti e talvolta marziali, e qualche vocalizzo femminile qui e lì. In certi punti sembra perfino anticipare il depressive black che sarebbe esploso qualche anno più tardi ad altre latitudini. Da riscoprire assolutamente, vista la siccità qualitativa del black metal odierno.

IN FLAMES – Whoracle

Marco Belardi: Dopo aver perso per strada Mikael Stanne e testato il cantante dei Dawn, gli In Flames hanno trovato la loro prima forma definitiva e realizzato -come ben saprete- l’acclamato capolavoro The Jester Race. Non me ne vogliate, in particolar modo AncientMariner, ma a quello ho sempre preferito -e non so perché- i due lavori successivi e, in particolar modo, ritengo che Whoracle sia il punto più alto raggiunto dagli In Flames, ovvero quello in cui ogni elemento del loro sound era perfettamente bilanciato a partire dalla solida e potente produzione. La prima metà rasenta la perfezione, e la veloce Food For The Gods rappresenta un format che in futuro avrei voluto vedere decisamente più approfondito; quando meno ve l’aspetterete, verrà tirato in ballo Construction Time Again dei Depeche Mode grazie alla cover di uno dei suoi più fortunati singoli. Friden canta aggressivo ma con la consueta e forte espressività, e come nel buon Colony già qui si intravede la volontà della band svedese di dare molto spazio al groove, che diventerà il connotato principale da Clayman in poi. Ma sarà proprio allora che perderò la maggior parte del mio interesse nei loro confronti

 

18 commenti

  • Around the Fur di poco spessore?
    I Mogwai sono un gruppo di merda.
    Whoracle miglior disco della storia, non degli In Flames.

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  • Quanta roba!

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  • forse questo mese è stato quello in cui spesi più soldi in musica, mi dispiace non aver commentato molto ma sottolineo il primato assoluto di whoracle come album definitivo, ho letto opinioni condivisibili al 100% e molto intelligenti, specie sul suo ruolo di disco di transizione tra due fasi… ma raramente un album di passaggio condensa tanta perfezione.
    Poi ci sono affezionato perchè con whoracle ancora incellofanato in tasca conobbi mia moglie.

    Abyssos e Hecate Enthroned pessimi (degli HE presi il primo album, sull’onda dell’entusiasmo vampiresco di qualche anno prima). Rivenduto per un cartone di tavernello.

    Defleshed (e tutta la svezia minore, aggiungerei i feroci Impious alla vostra lista) da riscoprire, fatelo sto special tra una canna e un’altra. Magari organizzatelo per labels… wrong again, no fashion, black sun recs.

    Jugulator invece lo apprezzai anni dopo, appena uscì devo dire che mi lasciò spiazzato, non tanto per l’eccellente Ripper, ma proprio per un appesantimento del sound che trovai inizialmente poco appropriato per i priest (lo so, è strano lamentarsi della pesantezza di un album dei priest e poi mettere su i defleshed). Mi liberai di questi preconcetti con il tempo, complice anche una band italiana che faceva un heavy metal classico ma pesantissimo e che all’epoca mi piaceva… i centvrion, avevano un cantante pazzesco. magari tirateli fuori pure loro, se non sono del 97 cmq il periodo è quello.

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  • burzum e’ un fenomeno “parastatale” alla gialappas!

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  • Qualche tempo fa, proprio qui su Metal Skunk, stavo difendendo i Deftones da delle critiche e usai come argomentazione, proprio il fatto che non si può definire una band di basso livello, un gruppo che incide pezzi come Be quiet and drive. Noto con piacere che non sono l’unico, a nutrire un amore e nel mio caso anche una venerazione totale, per quella canzone. Io la chiamo la sindrome da be quiet and drive. Non ho mai visto però l’album, nella maniera in cui lo percepisce El Greco. Trovo anche Damone un pezzo fantastico. MX è un gran pezzo da chiavata. E anche Mascara è sempre una bella botta.

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    • ci tengo a ribadire che il mio non vuole essere un discorso sulla qualità dei pezzi in sè (around the fur ha solo canzoni belle – da be quiet and drive alla fine del disco sono una meglio dell’altra) ma è una mia percezione dell’album all’indomani di white pony e di come abbiano saputo cambiare pelle da lì in avanti. al punto che secondo me alcuni pezzi del loro repertorio manco hanno troppo senso nei loro concerti odierni.

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      • Guarda, mi era piuttosto chiaro. La prima parte sui Deftones banda di basso livello, era solo legata all’aneddoto e a come li aveva definiti l’altro utente, non a qualcosa che avevi detto tu.
        Mi era chiaro che lo consideravi un buon album, unica cosa non l’ho mai percepito nella maniera, in cui lo percepisci tu, come ho detto. E alla fine ho semplicemente sottolineato, i brani che mi piacciono di più. Era più un’espressione dei gusti miei, tanto per parlare, che una presa di posizione verso qualcosa. Sinceramente sempre per gusti personali, penso che pezzi come be quiet and drive, bored, 7 words, birthmark e tanti altri, abbiano ancora un loro senso, visto che comunque è sempre roba loro e un bel tuffo nel primo capitolo della loro carriera, ci sta sempre. Poi io sono un fan sfegatato di Adrenaline, quindi magari sono di parte. Sarà stato l’album più “ingenuo” e meno personale a livello stilistico e tante altre cose, ma aveva il fuoco dentro e me lo riascolto spesso. Dei Deftones non butto via niente! Poi non riesco a slegare la componente affettiva, di aver sentito Adrenaline molto più giovane rispetto ad oggi. Erano ancora gli anni del liceo e certe cose che non sono cambiate e che ti salgono tutte, quando parte una certa canzone, è qualcosa che non vorrei perdermi, soprattutto in sede live.
        Ormai sono cariche di troppe cose per me, per riuscire a sposare la tua visione. Ma discorsi di cuore a parte, capisco in pieno cosa intendi.

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  • concordo, infatti adrenaline lo riascolto più spesso di ATF proprio perché meno ‘ragionato’

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  • So già che non fregherà un cazzo a nessuno..però, Jon Kennedy (NON Joe..) coi Cradle of Filth ha suonato solo sulla prima versione di “Dusk…” (quella uscita, recentemente, col sottotitolo “The Original Sin” per la risorta Cacophonus)! Sul primo album c’era Robin che, nel frattempo, era fuoriuscito per testare i suoi December Moon sul mercato.. Rientrò, poi, una volta avuto l’accordo con la Music for Nations giusto per ri-registrare “Dusk…”! Comodo il ragazzo..

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