Avere vent’anni: novembre 1997

EXCITER – The Dark Command

Marco Belardi: Serviva The Dark Command per dimostrare che un gruppo navigato come gli Exciter potesse fare bene anche senza Dan Beehler. Anzi, a dire il vero dopo Unveiling The Wicked per il sottoscritto erano già calati un bel po’, forse perché il chitarrista John Ricci nel frattempo s’era messo a cazzeggiare coi White Zombie ai tempi di Make Them Die Slowly. The Dark Command del 1997 rappresenta una sorta di disco della svolta, a dire il vero più d’immagine che stilistica. Speed metal all’ennesima potenza e che funziona alla perfezione anche quando il gruppo rallenta, come in Ritual Death. Belanger, screamer decisamente adatto alla situazione, reggerà alla voce per un altro album per poi mollare nel 2001, e il più grosso difetto di questo lavoro sarà la sua drammatica contestualizzazione storica: in quell’anno praticamente nessuno si filava questa roba ed eravamo tutti quanti strafatti di power metal melodico, black sinfonico e gente con la tuta dell’Adidas. Ammetto di averlo recuperato ad una fiera del disco insieme a Blood Of Tyrants, che all’epoca era uscito da qualche mese… Loro ci provarono e fecero centro, due anni prima che i Testament, con The Gathering, rimettessero al mondo intero una gran voglia di suonare thrash. Lontani dalla svolta anthemica di canzoni passate come I Hate School Rules, gli Exciter qua erano delle vere e proprie motoseghe in azione: provatelo.

RIOT – Inishmore

Ciccio Russo: Pur essendo uno dei più grandi gruppi della storia dell’heavy metal, I Riot, purtroppo, nacquero sfigati. Nonostante l’esplosione commerciale del power metal e il ritorno di fiamma per il metal classico, questo disco uscì solo in Giappone, per poi essere pubblicato in sordina in Occidente l’anno dopo, come il precedente (e splendido) The Brethren Of The Long House, rispetto al quale Inishmore suona più accessibile e arioso. L’ispirazione e la classe sono però le stesse. Riascoltando oggi brani come Angel Eyes, dagli echi Nwobhm, o una Kings Are Falling, che dieci anni prima sarebbe stata un singolo in heavy rotation su tutte le radio americane, davvero piange il cuore a pensare cosa avrebbe potuto succedere se le legioni di ragazzini allora innamorati di Angra e Stratovarius fossero incappati in gemme come Liberty o la Irish Trilogy che chiude il disco, graziata dall’Hammond di Mike DiMeo (la formazione è quella di Nightbreaker, con il batterista storico Bobby Jarzombeck unico superstite della line-up originale insieme al lìder maximo Mark Reale). Recuperatelo, godetevene ogni nota e rendete giustizia postuma a questa band enorme e sfortunatissima.

HATEBREED – Satisfaction is the Death of Desire

Luca Bonetta: Il bello di rubriche come questa è che ti permettono di riscoprire dischi che non ascoltavi da una vita o che, come in questo caso, non avevi mai ascoltato. Ho scoperto gli Hatebreed tardivamente, con i loro ultimi lavori, e sono rimasto folgorato dall’immediatezza del loro hardcore metalloso e incazzato come una faina. Istintività pura e rabbia cieca, l’archetipo perfetto del gruppo da palestra, quello che ti spari quando sei impegnato a spingere come un drago sotto la ghisa, sperando di convertire l’adipe in una più virile e manowariana massa muscolare o, come nel mio caso, cercando di sembrare qualcosa di più di un appendiabiti smunto. Il debutto degli americani targato 1997 denota, come nella maggior parte dei casi, una certa ingenuità di fondo, un retrogusto acerbo, fisiologico in una band alle prime armi e ancora giovane sotto tutti i punti di vista. Nondimeno però è già presente la spinta catartica che caratterizzerà la produzione di Jasta e co. negli anni a venire, così come i testi che, in puro spirito HC, vertono intorno ai soliti sogni di rivalsa sociale/vendetta/never surrender eccetera. Mettiamola così: non stiamo parlando certamente di un disco imprescindibile, ma, considerando cosa sono diventati gli Hatebreed in seguito, fa sempre piacere sapere da dove e come certe band sono partite. Ancora una volta, questo è il bello di rubriche come Avere vent’anni.

ANCIENT – Mad Grandiose Bloodfiends

Trainspotting: Comprai questo disco perché a 17 anni andavo matto per i Cradle of Filth, che all’epoca erano al momento di massimo splendore. Atmosfere goticheggianti, temi vampireschi e tizi in costume: era tutto quello che cercavo in Mad Grandiose Bloodfiends. Non che all’epoca mancassero dischi che trattassero quelle tematiche, come stiamo ampiamente documentando in questi mesi, ma gli Ancient per qualche motivo mi affascinavano di più rispetto alle altre carnevalate con i canini finti grondanti succo di ciliegia. Le recensioni del disco erano quasi tutte negative, ma a me in qualche modo piaceva; e forse questo mio essere controcorrente (componente che in un adolescente diventa importantissima) me ne ha fatto avere un’opinione distorta. Riascoltandolo adesso per intero, la prima cosa che mi viene da dire è che è troppo lungo: 67 minuti sono veramente un’eternità per un disco del genere, che non ha molto a che vedere coi COF ma che tenta una strada personale con ritmi cadenzati, esagerazioni buffonesche quasi sempre molto sopra le righe, ed un’eccessiva eterogeneità che alla lunga sembra studiata a tavolino. Rimangono alcuni pezzi pregevoli (su tutti Sleeping Princess of the Arges ed Hecate, My Love and Lust), ma il fatto che già dal successivo The Halls of Eternity gli Ancient ritornarono nei binari di una relativa normalità testimonia che furono loro i primi a rendersi conto che questo esperimento non riuscì proprio benissimo. Continuerò comunque a portarlo nel cuore per motivi strettamente affettivi.

THOKK – Of Rape and Vampirism

Trainspotting: A proposito di Ancient e di vampiri, questo era un progetto parallelo di Kaiaphas, cantante e batterista anche nel suddetto gruppo oltre che in una pletora d’altri come i Grand Belial’s Key, in cui militava peraltro anche l’altro membro dei presenti fenomenali THOKK. Che venivano dalla Virginia e avevano l’immaginario gotico albionico e mitteleuropeo dei Cradle of Filth, ma va tutto bene. È tutto normale. Delle otto tracce presenti, le prime cinque si compongono di un black metal veloce e pieno di suggestioni vampiriche come risate sguaiate femminili, parti narrate col controcanto scream copiate da Dani Filth, urla demoniache che risuonano nei castelli della Carpazia eccetera. Le restanti tre tracce sono composte di rumori ed effettini a caso. Una merda che non ci si crede, peraltro spudoratamente creata per sfruttare il più possibile il carrozzone di vampiri che in quel periodo, crediateci o no, andava veramente tanto di moda. All’epoca mi chiedevo se la tendenza successiva sarebbe stata quella dei lupi mannari, del mostro della palude o di Frankenstein, ma per fortuna il metal estremo non si è trasformato in una sfilata di mostri dei film della Hammer e questo sfortunato capitolo dei disagiati che si mettevano i canini di plastica è finito nella latrina della Storia senza troppe conseguenze.

MARTYR – Hopeless Hopes

Ciccio Russo: I Martyr furono l’ennesima conferma di tutti gli stereotipi sui migliori gruppi canadesi. L’approccio genialoide e psicotico, il saper essere allo stesso tempo contorti e accessibili, la capacità di lanciarsi in evoluzioni tecniche impressionanti senza mai risultare gratuiti o stucchevoli. Hopeless Hopes sulla carta è il debutto autoprodotto di quattro ventenni con il santino di Chuck Schuldiner sul comò. La produzione è quella che è, la copertina pure, ma il primo brano da solo contiene tante idee quante bastano per un album intero a gruppi odierni dei quali, per disperazione, ci troviamo pure a tessere le lodi (tipo gli Obscura). La band non ha ancora un sound davvero personale e Hopeless Hopes suona come un collage di tributi ai giganti del death tecnico. Ma è bellissimo proprio per questo. Ci sono gli stacchi fusion alla Cynic, ci sono passaggi che richiamano al techno-thrash dei tardi anni ’80 (Elementals), ci sono riff che ricordano i Nocturnus e altri presi pari pari dai Death (Inner Peace è ai limiti del plagio ma, sinceramente, sticazzi). Alla chitarra c’è un già bravissimo Daniel Mongrain, che fondò la band con il fratello Francois e in seguito prenderà il posto di Piggy nei Voivod.

DOMINUS – Vol.Beat

Trainspotting: I Dominus sono più che altro conosciuti perché il cantante/chitarrista e il bassista della band formarono i Volbeat qualche anno dopo, traendo il nome proprio da questo disco. Il motivo per cui i Dominus rimangono tuttora il vecchio gruppo di quelli dei Volbeat è fondamentalmente che si tratta di generi molto diversi, anche se in un certo senso il groove metal di cui i Volbeat sono tra i principali esponenti è una definizione che si può estendere anche al disco in questione, pur rapportandolo alla diversa epoca storica. Un’epoca in cui, nell’usare un certo approccio al metal, non si poteva non passare per Pantera, Sepultura e l’hardcore metallizzato in generale, dai Biohazard in giù. Ambienti frequentati anche dagli Anthrax dell’era-Bush, per dire, ma che dai Dominus venivano interpretati in maniera più cazzona, con le distorsioni sature e i ritmi pestoni addolciti dal gioco di chitarra solista e dalla voce divertita di Michael Poulsen, che ancora non hetfieldeggiava al livello di adesso ma che già metteva di buonumore.

BLOOD DUSTER – Str8outtanorthcote

Ciccio Russo: Ci sono gruppi grind che, sebbene di Seth Putnam ce ne fosse uno solo, pensano basti usare sempre lo stesso accordo purché si scrivano titoli sufficientemente demenziali. E poi ci sono i Blood Duster. Fuori di testa come ogni band australiana che si rispetti, hanno un tiro pazzesco e certi chitarroni sludge dal sapore sudista che a volte sembra che alle sei corde ci sia un Kirk Windstein ancora più sbronzo del solito, il tutto mischiato alle goliardate tipiche del genere (brani di pochi secondi, svarioni quasi zappiani, dieci minuti di silenzio totale intitolati PureDigitalSilence). Il classico gruppo dall’approccio demenziale che però scrive riff talmente fichi che a un certo punto ci si domanda pure se non sarebbe meglio se facesse sul serio. E la risposta è sempre: no, altrimenti non sarebbero i Blood Duster, qua al primo full. Semplicemente adorabili.

PROFANUM – Profanum Aeternum

Trainspotting: è vero che il capolavoro degli Arcturus fu un fulmine a ciel sereno, ma è anche vero che nella seconda metà degli anni novanta erano in molti a cercare soluzioni alternative e d’avanguardia partendo da un comune denominatore black metal. La Masquerade Infernale ne è l’esempio più fulgido, anche perché è di gran lunga quello meglio riuscito da ogni punto di vista; però nel sottobosco di sperimentatori più o meno arditi c’erano anche i polacchi Profanum, progetto parallelo di membri dei trucidissimi Witchmaster. Profanum Aeternum – Eminence of Satanic Imperial Art  (questo il titolo completo) è un album coraggiosamente registrato senza chitarre, e molto vicino a certe cose dei primi Limbonic Art (che invece non avevano il basso). Dura solo mezz’ora, ma è comunque molto complicato da ascoltare per intero, perché l’afflato sperimentale tende a mettere in secondo piano qualsiasi altra cosa. È però un disco interessante, più che altro per l’epoca in cui è uscito, e per qualche soluzione sparsa che, in mani più sapienti, avrebbe potuto dare risultati molto migliori.

MANOWAR – Hell on Wheels

Charles: Novembre 1997/novembre 2017: un ideale ciclo che si apre e si chiude. Il primo live album dei Manowar/l’ultimo tour dei Manowar, quindi l’ultimo concerto dei Manowar a cui, insieme ai fratelli del vero metal, una delegazione di Metal Skunk ha presenziato per rendere onore. Dove tutto comincia/dove tutto finisce, The First Battle vs The Final Battle. Sì, lo so che è un’idea astratta, ma c’è in tutto questo un senso altissimo, un’idea che travalica le nostre spoglie: l’idea dell’immortalità del metal. L’idea di essere parte di qualcosa di più grande. I Manowar sono una cosa che o capisci o non capisci, e se non la capisci, povero te, povera te, poveri voi!

THOU SHALT SUFFER – Into the Woods of Belial

Marco Belardi: Qua siamo anni luce distanti da Monument Of Death dei Blood Red Throne, dove Tchort dei Carpathian Forest si cimentava nel death metal mentre la sua band primaria realizzava il bellissimo Morbid Fascination Of Death. Se quello consisteva nel “dopo”, la raccolta delle demo dei Thou Shalt Suffer uscita nel 1997 rappresenta il “prima”, e ci consegna cinquanta minuti di musica sporca e malvagia proveniente da quei primi ’90 nei quali il black metal si stava velocemente plasmando. Il rafforzamento del duo Ihsahn/Samoth passa per qui, all’epoca in cui i Darkthrone ci deliziavano con Soulside Journey in una formula probabilmente più curata e tecnica di quella per cui optarono i futuri leader degli Emperor. Ma anche la collaborazione con Ildjarn, l’inserimento di funeree linee di tastiera che anziché disturbare ci mostrano in maniera primordiale i tratti somatici della musica che un creativo come Ihsahn ci consegnerà in futuro. Samoth dichiara invece amore ad un genere che approfondirà in futuro coi suoi Zyklon, i fratellini sfortunati dei Myrkskog, comunque capaci di creare un buonissimo World Ov Worms prima di perdere rapidamente intensità. Quello dei Thou Shalt Suffer era death metal dritto dall’inferno, in cui ogni rallentamento raggiungeva picchi di oscurità elevatissimi. Il nome verrà utilizzato in anni più recenti per la realizzazione del pomposo Somnium ma è nei due/tre anni di attività riassunti in Into The Woods Of Belial che farà parlare, anche se troppo poco, di sé. Dopodiché sarà la volta di I Am The Black Wizards e di scrivere la Storia.

EDGE OF SANITY – Cryptic

Ciccio Russo: Reduci dall’esperimento di Crimson (una sola traccia di 40 minuti), gli Edge of Sanity nel ’97 se ne uscirono con due album. Il primo, Infernal, del quale ci siamo colpevolmente dimenticati lo scorso febbraio, è un bric-à-brac un po’ incasinato, sintomatico del livello al quale erano giunte le divergenze e le tensioni tra il chitarrista Andreas Axelsson e il fondatore Dan Swano, che subito dopo lasciò il gruppo. Cryptic è il primo e unico album senza di lui e si sente. Poco più di un disco death metal svedese medio, con guizzi limitati a qualche assolo dissonante, brani compatti e tirati, ai limiti del death’n’roll (No Destiny. Uncontroll Me è d-beat ante litteram). Bei riff, bei pezzi, bello tutto ma nel ’97 per convincere l’adolescente di turno a scucire il danaro necessario serviva qualcosa in più. Axelsson capì che non era il caso di insistere e nel ’99 gettò la spugna. Swano riesumò il moniker nel 2003 per dare un seguito a Crimson e poi abbandonò il progetto per sempre.

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