Musica di un certo livello #12: SAXON, AMORPHIS, VOLBEAT
La premessa: i Saxon sono come la parmigiana di melanzane o la lasagna, piacciono proprio a tutti. La notizia: è uscito l’ennesimo disco dei Saxon. Ne sono venti fino ad ora mi pare. Ogni due/tre anni mi faccio sempre la stessa domanda cioè se sia o meno il caso di prestarci orecchio e ogni volta mi dico no, basta davvero. Poi arriva quel momento preciso in cui per noia o perché non ho voglia di pensare a qualcosa di costruttivo da fare, cedo e mi ascolto l’ennesimo disco dei Saxon. Ogni santa volta succede che per le successive due/tre settimane nel mio stereo non passa fondamentalmente nulla oltre “all’ennesimo disco dei Saxon” e che ci posso fare. Questo disco si chiama Sacrifice e il mio stereo se l’è imparato a memoria. Resta una domanda: perché continuare a parlarne? Tanto ci sarà sempre qualcun altro che ne farà l’analisi logica nel bene o nel male. Che poi se ci pensiamo un attimo gli argomenti che la gente usa per parlare bene dei Saxon sono precipuamente gli stessi che utilizzano i loro detrattori per dire quanto si sono rotti le palle dei Saxon. Facciamo un esempio?
Argumenta Contra Saxon:
1. Somma le loro età anagrafiche, otterrai quasi tre secoli, ‘sti vecchiacci;
2. Sono solo storia ormai ma c’è ancora gente che gli va dietro;
3. I dischi dei Saxon sono tutti uguali ma comunque se ne deve parlare per forza.
Argumenta Pro Saxon:
1. Se sommi le loro età anagrafiche fanno quasi tre secoli e ancora rompono i culi;
2. Ormai appartengono alla Storia e c’è ancora un botto di gente che gli va dietro;
3. I dischi dei Saxon sono tutti uguali e bisogna parlarne per forza.
Volendo far finta di scrivere qualcosa di intelligente, diciamo pure che i Saxon approfittano della ventata di freschezza che Call To Arms aveva portato alla loro lunga discografia ma lo fanno con una leggerezza tale che sembra abbiano inventato la NWOBHM l’altro ieri. Evitato ancora una volta il classico errore che un gruppo che è in giro da un secolo potrebbe fare, ovvero abbandonare la cara e vecchia tradizione e quei due/tre punti di forza che li ha resi grandissimi (vedasi anche: Accept). La produzione di Sacrifice sembra più pulitina e fredda di CTA ma la cosa, vi dirò, non dispiace affatto. Insomma non chiedetemi di più perché non sono mica Luca Bonetta, l’unico uomo sulla Terra che è capace di trovare differenze pure tra un album e l’altro dei Six Feet Under. Il disco è una ficata come al solito e l’ho addirittura preferito al precedente perché più diretto e classicone (Night Of The Wolf la più bella). Tanto vi basti, amici e cultori del bello.
Gli Amorphis, mi verrebbe da dire gli Amorti. Mannaggia, penso che abbiano tirato fuori il disco più noioso di sempre, quasi peggio pure di Far From The Sun. Badate bene: il concetto di ‘peggio’ o di ‘brutto’ che utilizzo per parlare degli Amorphis segue il metro di giudizio del fan, non del ‘recensore’. Da un certo punto di vista potrebbe pure starci, intendo il fare un album riempitivo dopo duemila anni di onorata attività (descritta nei particolari qui e qua). Basta che ora si prendano una pausa di almeno quattro anni (vabbé il contratto con la fottuta Nuclear Blast ma che cazzo, prendetevela ‘sta pausa). Perché non si può pretendere l’impossibile, questo è ovvio. Voglio vederla così: Circle – titolo banalotto che significa tutto e niente – è un intermezzo a qualcosa di (si spera sempre) migliore. Non aggiunge nulla ad una discografia eccezionale (dite il contrario e vengo a menarvi di persona sotto casa). Skyforger, il disco della seconda repubblica finlandese che ancora stiamo qui ad aspettare, un album eccelso che vedeva uno Joutsen in formissima, è lontano eoni. Non smetterò mai di elogiare Tomi Joutsen perché tanto bene ha fatto al nome degli Amorphis, prima oberati da linee vocali che, negli ultimissimi scampoli di Pasi Koskinen, potevano definirsi tranquillamente squallide senza per questo toccare le suscettibilità di nessuno, credo. Già con The Beginning of Times avevo constatato una lenta caduta nel già sentito che purtroppo continua anche oggi. Proprio in quella recensione affermavo che nonostante tutto non mi sarei mai pronunciato con una stroncatura nei confronti degli Amorphis. Ricordate: meno proclami si fanno, meno poi bisognerà ritrattare. Voglio essere più chiaro possibile sennò poi mi criticate: il disco non è brutto, non fa schifo per niente (Mission e The Wanderer sembrano pure fiche nel loro essere stracciamutande), è solo che lo puoi ascoltare pure venti volte di seguito e di tutta ‘sta roba non ti resta niente, boia di un cane, niente. Basta. Passiamo oltre facendo finta che nulla di tutto ciò sia successo.
I Volbeat. Michael Poulsen, la voce, è il James Hetfield dei poveri e solo per questo bisognerebbe dargli addosso e farlo vergognare di sé fino a che non cambia mestiere. Un po’ mi vergogno anch’io ma Outlaw Gentlemen & Shady Ladies mi sta piacendo molto. Si fa ascoltare con grandissima facilità, anche più dei dischi precedenti rispetto ai quali mantiene l’impostazione western, surf e rock-punkazzarona. Il numero di volte che ti passi e ripassi un disco sarà o no un minimo segnale di quanto consciamente (o inconsciamente) ti è piaciuto? ‘Ste canzonette romantiche melodic punk rock di cui è infarcito ti ricordano pure che l’estate si sta avvicinando e d’estate ti serve qualcosa di fresco e allegro per evitare di ridurti a sentire i My Dying Bride (che hanno pure pronto un EP coi contro cacchi e mi sa che passerò comunque l’estate in loop). Tutta questa voglia di rivedersi Point Break, bere mojito e preparare braciate in riva al mare non sono però un’attenuante per finire ad ascoltare ancora i Green Day a trent’anni suonati. Poi comunque ogni tanto il cantante ci piazza uno YE-EAH! che ti fa ricordare con piacere i felici ferragosto della tua infanzia passati in spiaggia a sentire i Metallica in cassettina con un pessimo stereo che alla terza bevanda rovesciata sopra smetteva di compiere il suo dovere e finiva pure lui ad alimentare il falò. Ogni tanto una botta di allegra superficialità in questo mondo di merda ci vuole, vaffanculo, e poi ci sono canzoni irresistibili tipo Cape Of Our Hero, My Body, Lonesome Rider, Our Loved Ones ma soprattutto Lola Montez, una vera ossessione, che parla di questa tizia dell’800, la ballerina Eliza Rosanna Gilbert, che con la sua erotica danza della tarantola riusciva a catturare nella sua tela libidinosa musicisti (Liszt), scrittori (Dumas), e re (Ludovico I di Baviera, il quale per colpa dei di lei eccessi ebbe non pochi problemi). Potere du pilu. (Charles)
fregna uber alles
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Gli Amorphis sono, e sono sempre stati, esattamente quello che il loro nome promette.
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no dai capa dell’eroe dei volbit non si può proprio sentire!
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