Avere vent’anni: marzo 2003

VOIVOD – Voivod
Ciccio Russo: Amai moltissimo i mostruosi Negatron e Phobos, incisi dai Voivod con Eric Forrest al basso e alla voce, che anticiparono di anni l’esplosione commerciale della saldatura tra thrash moderno e post-hardcore. Quando Away e Piggy decisero di buttarlo fuori, nonostante fosse già pronto un terzo Lp che avrebbe dovuto essere prodotto nientemeno che da Steve Albini, la presi parecchio male. Perché se i Voivod si fossero tenuti Forrest, con un altro poco di pazienza, si sarebbero ritrovati nel ruolo di precursori di una contaminazione che sarebbe stata tra i filoni più percorsi degli anni successivi. E invece. Non potevo immaginare, però, che il ritorno di Snake avrebbe coinciso con un album così spento e mediocre, forse il peggiore dell’intera discografia dei canadesi. I brani cercano di recuperare la scrittura lineare degli episodi più diretti di Angel Rat e The Outer Limits ma falliscono miseramente l’obiettivo. Jason Newsted, che si dedicò anima e corpo al nuovo tentativo di rilancio del gruppo, ci mise un impegno lodevole ma rimase un corpo estraneo. Avrei provato più volte in seguito a dare una chance a Voivod ma sempre con scarsi risultati. Gli preferisco addirittura Katorz e Infini, i due lavori che sarebbero stati incisi con i riff lasciati in eredità da Piggy, stroncato poco dopo da un tumore. È uno strazio pensare che l’ultimo disco dei Voivod che lo abbia visto in studio sia l’insulsa resa alla nostalgia di una band che negli anni ’90 aveva continuato a essere superiore a tutti per inventiva e capacità di innovare. Sigh.
PERISHED – Seid
Griffar: Certe volte si commettono errori. Mi ricordavo di Seid come di un disco abbastanza anonimo e ai tempi lo avevo ascoltato pochissimo per poi accantonarlo, ma in occasione del ventesimo compleanno l’ho rimesso nello stereo e… e bisogna ammetterlo, non ci avevo capito un cazzo. Facciamo un passo indietro: i norvegesi Perished furono un quintetto nato nel lontanissimo 1991 dapprima con l’intenzione di suonare death metal ma che, già dal secondo demo Through the Black Mist, si era lanciato su di un black metal oscuro, grezzo e molto d’atmosfera, simile a quello di For All Tid, il vero capolavoro dei Dimmu Borgir. La particolarità è che questa demo fu incisa prima di For All Tid, e per questo, nonostante produzione e missaggio indecenti, nessuno potrà mai accusare i Perished di essere dei copioni. Dopo un eccellente 7” uscito per Solistitium records – contenente due inediti mai ripubblicati – il gruppo esordì con lo straordinario Kark, che definire stupendo è limitativo. Il successivo EP Grim, uscito nel 2000, fu invece una parziale battuta d’arresto, con il passaggio alla lingua inglese che non giovò granché alla popolarità del gruppo. Nel 2003 arrivò il secondo full Seid per Displeased records, semi-major orientata a pubblicare dischi dal buon potenziale di vendita con il giusto mix tra melodie un po’ ruffiane e un certo mordente che comunque non guasta mai. Fu per questo che l’avevo un po’ trascurato. All’epoca ero interessato in cose più violente ma ho toppato in pieno: Seid è un eccellente disco di black metal veloce, melodico e grintoso, con influenze viking accostabili a quelle degli Helheim in Av norrøn ætt, dei Mactatus di Blot, dei Gehenna di Malice o dei poco conosciuti ma validissimi Thy Grief (quasi tutti usciti per Solistitium records, un nome una garanzia). Abbiamo sbagliato in tanti, perché Seid non ebbe mai un seguito e la band si sciolse qualche tempo dopo. Un peccato, rendetegli merito e riscoprite i loro dischi.
SUMMONING – Lost Tales
Barg: Questo EP di due pezzi per neanche un quarto d’ora di durata fu un esperimento: niente chitarre né linee vocali, solo tastiere, sintetizzatori e gli usuali campionamenti delle trasmissioni radio che recitavano le opere di Tolkien. Quindi, dato che la musica dei Summoning è fondamentalmente una fusione tra black metal e dungeon synth, se togliamo le chitarre cosa abbiamo? Esatto, un EP di puro dungeon synth, in cui lo stile del duo austriaco si riconosce abbastanza agevolmente anche se con alcune digressioni. La prima traccia, Arcenstone (scritto proprio così), era stata originariamente pensata per i Mirkwood, il progetto di Silenius, e infatti è quella più divergente dallo stile dei Summoning; invece la seconda, Saruman, risale ai tempi di Dol Guldur, da cui era stata scartata. Come detto, un esperimento. O un divertissement, a seconda delle intenzioni degli autori in quel momento. Lost Tales rimane una simpatica chicca da mettere di sottofondo ogni tanto; non è paragonabile in alcun modo ai dischi veri dei Summoning (la cui ultima uscita all’epoca era Let Mortal Heroes Sing Your Fame, mica baubau miciomicio), però ecco, dai, gli si vuol bene lo stesso.
BLUT AUS NORD – The Work Which Transforms God
Stefano Mazza: I Blut Aus Nord venivano da un lavoro precedente che era un vertice di black ossessivo e minimalista, al limite del capolavoro di arte contemporanea. Lo stile rimase su questo andamento, ma venne ulteriormente incrementato l’interesse per il timbro innovativo e a volte rumoristico, oltre alla già nota sperimentazione compositiva, che li caratterizza. Rispetto al precedente disco le voci sono più presenti e intelligibili, mentre la melodia è ancora più assente. Grande importanza assume l’effettistica e si avverte, fra la crudele dissonanza e la ripetitività industriale, l’aggiunta di una decisa psichedelia. In effetti questa novità corrisponde anche ad un cambio di tematiche nei testi: mentre in precedenza trattavano soprattutto di paganesimo, qui cominciarono a occuparsi di introspezione personale e individuale: rabbia, paura, follia. Io li associo, anche se con molti distinguo, ai Thorns, per la pesantezza del suono e per l’uso disinvolto di effetti elettronici, i quali non fanno solo ornamento ma riescono a concorrere decisamente alla composizione e portano questo lavoro a un livello successivo. The Work Which Transforms God è un altro limite superato fra black metal e musica d’avanguardia e i Blut Aus Nord riusciranno a proseguire su questa strada irta di pericoli, portando sempre oltre il limite della loro arte, che per fortuna nostra non sembra volersi ancora fermare.
KULT OV AZAZEL – Oculus Infernum
Griffar: Il loro disco migliore, quello che consiglio a chi vuole approcciarsi per la prima volta alla band. Si inizia sempre con il meglio. I Kult ov Azazel sono in giro dal lontano 1999, dai tempi di quella che io chiamo la seconda ondata black metal (quindi scartando tutto il proto-black che, non si capisce per quale motivo, in anni più recenti è stato considerato black metal ma che all’epoca – l’ho vissuto in prima persona, non parlo a vanvera – a nessuno veniva in mente di chiamare in quel modo, dato che il concetto di black metal in senso musicale ancora non esisteva e no, Black Metal dei Venom non contiene musica black metal). Oculus Infernum è il loro terzo album, 9 pezzi per 35 minuti (compresa la cover di Black Arts dei Beherit come traccia fantasma) di brutale black metal di ispirazione norvegese com’è logico che sia, ma anche con qualche inflessione tipica dei loro compatrioti Judas Iscariot e Krieg. Testi inneggianti al disgusto per la religione cristiana, velocità di esecuzione sempre assai sostenuta ma notevole anche la capacità di scrivere eccellenti pezzi più meditati come Anguish Brought to Heaven, con un malinconico riff portante che ricorda quelli dei God Dethroned più satanici quando vogliono rimarcare il senso di sconfitta della religione con testi di puro scherno. Tecnicamente preparatissimi e in grado di scrivere pezzi efficaci senza complicarsi la vita o allungare troppo il brodo, i Kult ov Azazel hanno la sfortuna di essere una delle band americane più detestate dai propri compatrioti, sa il cazzo il perché. Oculus Infernum è un sontuoso disco black che compie vent’anni e sembra uscito ieri. Non mi pare poco. Anche loro figurano ancora attivi ma l’ultimo full – il quinto in una discografia assai nutrita – risale al 2009, e gli ultimi pezzi originali allo split con gli Idolatry del 2016.
NAGLFAR – Sheol
Michele Romani: Ammetto candidamente di aver colto piuttosto male Sheol all’epoca, cosa che evidentemente deve essere una mia prerogativa coi Naglfar, visto che era successa la stessa identica cosa col precedente Diabolical. Il “problema” grosso dei Naglfar, lo ripeterò fino allo sfinimento, è l’aver pubblicato quel fottutissimo capolavoro di Vittra (personalmente lo metto nella top ten dei miei 10 dischi preferiti di sempre) come primo album, il che giocoforza ha finito per far sfigurare tutto ciò che è venuto dopo. Perché, come mi era successo con Diabolical che, pur nella sua derivazione molto più dissectioniana, di lì a poco ho letteralmente consumato, anche Sheol resta un disco sicuramente inferiore, ma comunque di buon livello. La melodia in questo frangente viene messa ancora più in secondo piano a favore di un suono più nero e profondo, comprese molteplici soluzioni rallentate che raramente avevano fatto capolino nella band di Umeå. Il problema di questo lavoro è semmai di aver sparato tutte le sue cartucce all’inizio, nel senso che i picchi della micidiale doppietta iniziale I Am Vengeance (madò) e Black God Aftermath non verranno più raggiunti. Il resto della storia purtroppo la conosciamo più o meno tutti: Jens Ryden non so per quale motivo si rompe il cazzo, il bassista diventa il cantante con scarsi risultati e la band si dimenerà per il resto della sua carriera in lavoro poco più che mediocri.
OLD WAINDS / НАВЬ – Split
Griffar: Verso la fine dei ’90 si sviluppò, intorno a Murmansk in Russia, un’interessante scena black metal. Non particolarmente seguita né paragonabile a quelle della vicina Scandinavia, ma capace tuttavia di produrre progetti di notevole pregio. Murmansk è una cittadina nota (beh, più o meno) per essere un centro di addestramento militare, un porto sul mare di Barents e l’ultimo avamposto russo prima dei confini con Finlandia e Norvegia, oltre il Circolo Polare Artico. Siamo fottutamente a Nord, lassù fa un freddo dell’accidente e mi sembra normale che, quand’è esploso il black metal nella penisola scandinava, i suoi influssi abbiano varcato il confine, traviando qualche metallaro e portandolo ad abbracciare la Nera Fiamma. Fu così che nacquero band come Old Wainds, Nav’, Sect, All the Cold e altri. Due di queste li possiamo apprezzare in questo split, il cui titolo completo è We Are the North… Mean Cold War…, una cinquantina di minuti di fast black ferocissimo e glaciale come clima di Murmansk comanda, 11 brani in totale. I primi 4 li offrono gli Old Wainds, che all’epoca avevano già all’attivo due album e due demo (una delle quali ristampata in questo CD); il loro black metal è minimale, furioso, per impostazione vicino ai Gorgoroth e ai vecchi Immortal: brani non eccessivamente lunghi, arrangiamenti scarni, velocità furibonde tipiche del blizzard sound che tanta ispirazione prende dalle bufere di vento ghiacciato del grande Nord. Gli altri pezzi sono dei Навь (che in caratteri latini si legge Nav’ e significa inferno o qualcosa di simile), progetto solista di tale Izbor che si fa accompagnare da membri degli stessi Old Wainds figuranti come session e propone un black furioso in forte debito con lo stile delle due nazioni confinanti, forse più Finlandia che Norvegia ma siamo lì: pezzi brevi, diretti, blast beat pressoché continuo, pochi stacchi rallentati giusto per dare un attimo di respiro ma niente che addolcisca più di tanto la staffilata di vento artico che ci congelerà sinché i posteri non troveranno la nostra assiderata carcassa. Decisamente da riscoprire. Le due band figurano ancora attive ma di entrambe si sono perse le tracce intorno all’anno bastardi 2014.
LINKIN PARK – Meteora
Barg: Ho già parlato del mio imbarazzante rapporto morboso con Hybrid Theory, disco che tuttora cerco il più possibile di evitare di ascoltare perché ogni volta rischio di rimanerci impigliato e di non toglierlo dallo stereo per un tempo indefinito. Ma non c’è questo rischio col secondo album dei Linkin Park, che ha pochissimo della freschezza e della innocente efficacia del debutto: dei dodici pezzi effettivi alla fine l’unico che tendo a riascoltare è Somewhere I Belong, all’epoca scelta come primo singolo (mi pare). Il problema di Meteora è che da un lato è viziato da una evidente intromissione da parte della casa discografica, che cercava di non solo di ripetere il botto del debutto ma anche di ampliare il pubblico dei Linkin Park, mentre dall’altro manifesta uno stato confusionario della band, che spesso non sembra sapere quale direzione prendere. Numb è la ballatona da accendino in mano rimasta nell’immaginario popolare, Don’t Stay un maldestro tentativo di ripetere le parti più dure del debutto, Breaking the Habit un pasticcio mezzo elettronico che anticipa lo sfacelo che sarebbero diventati i Linkin Park di lì a breve, Faint una buona idea finita in vacca. Per il resto tanti riempitivi, qualche spunto caruccio (From the Inside non è male) e poco più. E così fu che smettemmo di ascoltare definitivamente i Linkin Park.
GOD DETHRONED – Into The Lungs Of Hell
Ciccio Russo: Al quinto disco, il gruppo estremo più sottovalutato d’Europa rallentò i tempi e vide il lìder màximo Henri Sattler tentare soluzioni più elaborate, complice un nuovo batterista, Arien van Weesenbeek, più dotato dal punto di visto tecnico. Il risultato è interlocutorio e riuscito a metà. Avvincente la title-track, cadenzata e sulfurea come si confà alle suggestioni infernali evocate. Azzeccata anche la successiva The Warcult, serrata e acchiappona. È quando si toglie la mano dal freno che le idee iniziano a latitare, salvo il picco della mastodontica Soul Sweeper, che dosa in modo adeguato riffoni in mid-tempo da scapoccio compulsivo e laceranti esplosioni di violenza. Gli olandesi avrebbero (ri)trovato la quadra con il successivo The Lair Of The White Worm, una delle loro prove migliori.
XASTHUR – Suicide in Dark Serenity
Griffar: Eccellente mini-LP uscito a metà strada tra il debutto Nocturnal Poisoning del 2002 e il suo successore The Funeral of Being, del quale ricorrerà il ventennale il prossimo ottobre. Uscito in origine per Bestial Onslaught Productions in vinile in edizione limitata a 1000 copie (200 blu trasparente, 800 neri), Suicide in Dark Serenity riprende in tutto e per tutto lo stile dark/depressive di Nocturnal Poisoning, al punto da far pensare che i brani siano stati composti nello stesso periodo e tenuti fuori dal debutto per evitare di far uscire un doppio CD, difficilmente commerciabile per un progetto che fino a poco tempo prima non conosceva nessuno. Identiche le partiture con una traccia di chitarra d’accompagnamento e un’altra arpeggiata sovraincisa che si porta in spalla il brano donandogli il classico suono Xasthur; identiche anche le sonorità, molto low-fi, catastrofiche, drammatiche, con appena un accenno di tastiera e una sezione ritmica ridotta all’osso mentre Malefic ulula il suo strazio e il suo risentimento per tutto ciò che è in vita. I quattro pezzi effettivi (più la intro, circa 28 minuti in totale) sono prossimi all’apice della musica composta da Malefic. Suicide in Dark Serenity all’epoca lo ascoltai talmente tanto da impararmelo a memoria e onestamente non saprei dire se mi piace più questo o Nocturnal Poisoning, ma la traccia omonima che apre il disco è un flagello da 9 minuti che dovrebbe essere pura manna per chi ascolta black metal. Eppure c’è chi critica il progetto, per me è un mistero ma va beh, son gusti, come si dice. Per chi ama la musica di Xasthur, Suicide in Dark Serenity è da avere ad ogni costo.
HATE – Awakening of the Liar
Marco Belardi: Si erano formati con il nome di Somuchhate, ma gli sembrava banale e decisero di abbreviare. Andando a chiamarsi come decine di band dislocate su tutto il Pianeta. Nonostante questo gli Hate polacchi (a Genova avevamo la controparte italiana, un gruppo che più volte si è esibito al fianco dei Necrodeath) mi sono sempre rimasti simpatici con la loro miscela incendiaria di bestemmioni indirizzati all’Iddio, blast ignorantissimi sulla falsariga dei Behemoth contemporanei e, a differenza di questi, un piglio per nulla da ragazzini. Credo che il loro mancato successo oltreconfine sia dovuto al fatto che Decapitated e Vader, oltre ai Behemoth, avevano tutti i riflettori puntati addosso. E credo fosse ingiusto parlare di crisi del death metal, dal momento che la scena polacca era in quegli anni una fucina incredibile, una fattrice inesauribile di album spettacolari. Non ultimo il violentissimo Awakening of the Liar degli Hate, al tempo in cui erano così prolifici da poter produrre quasi un disco all’anno. Un blast beat eterno alla Panzer Division Marduk, un assalto frontale. Non riuscirei a definirlo altrimenti, eppure, risentito oggi, non mi annoia minimamente anche se il suo piglio oltranzista e ossessivo – a tratti quasi alla Krisiun – deve aver indotto un effetto opposto in molti. Close to the Nephilim forse la più bella assieme alla conclusiva Spirit of Gospa. Ai polacchi di quegli anni riusciva interpretare il genere in una maniera riconoscibile e inedita, e va dato loro atto d’avere inaugurato una scuola in tal senso. Applausi, agli Hate e alla scena polacca tutta.
MELECHESH – Sphynx
Barg: Se analizzassi la mia copia di Sphynx troverei un solco all’altezza della seconda traccia e tutto il resto del CD quasi come nuovo, perché questo è uno di quei dischi di cui ti innamori perdutamente di una sola canzone senza quasi mai ascoltare le altre. La canzone in questione è Secrets of Sumerian Sphynxology, un delirio di linee di batteria in levare, melodie levantine e cambi di tempo, quasi una colonna sonora ideale di una battaglia tra città mesopotamiche. Insomma, una roba che spacca culi ittiti, assiri, minoici e accadici. Il resto dell’album è ok, diciamo, ma imparagonabile a quel picco assoluto sopracitato. Così come il resto della discografia dei Melechesh.
ТЕМНОЗОРЬ – Горизонты…
Griffar: In caratteri latini sarebbe Horizons… dei russi Temnozor, oscuro e sotterraneo gruppo folk black noto più che altro perché due dei suoi componenti hanno suonato nei Walknut, autori – loro sì – di un piccolo capolavoro, ovvero Graveforest and their Shadows, oggi venerato dai nuovi adepti dell’NSBM (che all’epoca se lo persero salvo poi tirare fuori bei soldoni per acquistarne una copia più tardi, rigorosamente in vinile ché quello sì che è cool, è roba da duri, mica il CD, troppo untrue). Horizons… invece non è niente di che, nulla di strabiliante, ha un forte sentore Menhir era Die Ewige Steine, compreso il cantato pseudo-scream accompagnato dalla voce pulita epicissima e paganissima, qualcosa di così convinto da evocare gli spiriti degli antenati che però, anziché incitare a lanciarsi allo sbaraglio nella battaglia decisiva, ti chiedono un vodkino liscio on the rocks e s’informano su quanta figa ci sia nei paraggi. Horizons… è il loro debutto (in totale hanno pubblicato tre full, uno split e un live album prima di sparire nel 2010), contiene 8 brani tre dei quali strumentali e dura circa 50 minuti che sono troppi, anche per via dell’onnipresente flautino che ok, un po’ va bene ma quando diventa la principale attrazione sa di baracconesco. Difatti laddove ne fanno a meno il livello delle composizioni si alza, sempre se si riesce a sopportare la voce pulita che non è proprio il massimo, come in Что шепчут курганы зарницам рассвета (What the Burial Mounds Whisper to the Blazes of Dawn), pezzo che ha interessanti trame di chitarra acustica e un buon feeling. Disco nel complesso non insufficiente ma dovete proprio andare matti per l’epic/pagan black per ascoltarlo più di un paio di volte prima di passare a qualcosa di più consistente (e con meno flauti).
TO/DIE/FOR – Jaded
Barg: Nel 2003 avevo superato i vent’anni ed ero già troppo vecchio per questa roba. Peraltro il gothic/suicide metal svenevole dei To/Die/For non aveva mai fatto breccia nel mio cuoricino neanche quando ero più predisposto per il genere, e questo Jaded non mi fece ritornare sui miei passi. A dire la verità credo di averlo ascoltato al massimo un paio di volte, all’epoca, e di sicuro non lo rimettevo più nello stereo da vent’anni. Ora il giudizio se possibile è ancora più severo: sì, qualche bella melodia qua e là, sì, l’apertura Dying Embrace non è malvagia, ma per il resto pochissima carne al fuoco. Jaded non è brutto in senso assoluto, piuttosto è uno di quei classici album che non ti lascia niente e che, se non ci fai troppo caso, neanche ti accorgi quando finisce. Non si può volere troppo male ai To/Die/For, gruppo di onesti mestieranti di un sotto-sottogenere in voga a cavallo tra i due secoli, ma prenderli sul serio è un’altra storia.
AJATTARA – Kuolema
Michele Romani: Gli Ajattara sono la band creata nei primi anni 2000 da Pasi Koskinen. Quest’ultimo, abbastanza stufo della direzione gotico-settantiana presa ai tempi dagli Amorphis, decise di fondare un progetto tutto suo, col preciso intento di rituffarsi nelle sonorità death metal degli esordi ma con un qualcosa in più che potesse contraddistinguerli dalla massa. In realtà dal precedente Itse le cose non è che siano cambiate più di tanto: trattasi infatti sempre di un ibrido tra death metal cadenzato e atmosfere dark-doom create dalle onnipresenti tastiere, una formula abbastanza singolare per i tempi e che può ricordare alla lontana le prime cose degli sfortunati connazionali Thy Serpent. Nonostante l’ottimo successo in patria, i finnici capitanati da Ruoja (il nuovo nome da battaglia di Pasi) hanno fatto parecchia fatica ad affermarsi fuori dai patrii confini, secondo me soprattutto perché il sound spesso risulta un po’ troppo monolitico, tanto che una volta sentito un brano sembra di averli ascoltati tutti. Un gruppo che secondo me ha senso se ci estrapoli un paio di pezzi per una compilation (alcuni come Antaka Eela o Haureus hanno un tiro pazzesco) ma che può venirti a noia se ti trovi davanti a un disco intero.
VARGSANG – Call of the Nightwolves
Griffar: Vargsang è il tipo che aveva fondato i Graven, abbandonandoli poco tempo dopo l’uscita di Perished and Forgotten perché a suo modo di vedere la band voleva suonare musica un po’ meno estrema. La solita vecchia storia: ci si fa un nome grazie a un ottimo album che dietro di sé lascia solo rovine fumanti e poi, consapevoli della difficoltà a reiterare la qualità dei brani presenti nel disco che ha fatto il botto si cercano altre vie, magari meno impervie, così che il pubblico potenziale possa aumentare. Così Vargsang si mise in proprio, scrivendo black metal rude e possente con due sole marce, la veloce e la velocissima, con una spiccata predilezione per la seconda. L’impostazione è assolutamente vecchia scuola, l’ombra delle ali nere dei primi DarkThrone qui è una cupa ed opprimente costanza, la voce di Vargsang è carica d’odio e di risentimento, la produzione e la scelta dei suoni nulla di originale od innovativo sebbene definitivamente adeguati al contesto nel quale ci troviamo ed i riff che possiamo ascoltare in questi 7 brani (più intro, gradevole non memorabile) sono semplicemente perfetti, funzionano alla grande garantendo al disco una piacevolezza d’ascolto che non potrà deludere alcun amante del black metal d’altri tempi. Inutile dilungarsi troppo: questo è il classico disco che definisco buy-or-die.