Avere vent’anni: luglio 2018
VINTERSORG – Hedniskhjärtad
Michele Romani: Ho sempre seguito con interesse la carriera di Andreas “Vintersorg” Hedlund, sia con la sua band madre che con i magnifici Otyg, il suo side project prettamente folk metal forse abbandonato troppo presto. Vintersorg invece fortunatamente è ancora in attività, e dopo un periodo di sperimentazioni ha deciso di ritornare parzialmente all’antico con la seconda parte del capolavoro Till Fjälls, che ricalca appunto le sonorità black/folk/viking di quel disco e del primo ep d’esordio di cui mi accingo a parlare. Hedniskhjärtad è un coraggioso tentativo di accoppiare al black – viking metal delle vocals prevalentemente pulite, che se oggi è una cosa abbastanza comune vi assicuro che nel 1998 non erano in molti a portare avanti questo speciale connubio. Un chiaro esempio da questo punto di vista è l’incredibile traccia d’apertura Norrland, un sentito tributo di Andreas alla natura desolata e incontaminata che circonda la piccola cittadina di Skellefteå (da cui proviene) nel profondo nord della Svezia, che dopo un iniziale arpeggio di squisita natura folk esplode in un black metal tiratissimo a cui fa da contraltare il timbro baritonale di Vintersorg che conosciamo tutti molto bene. Da segnalare anche la successiva “Stilla”, caratterizzata dalle soavi vocals femminili della sua compagna degli Otyg Cia Hedmark, le deliziose chitarre acustiche di Hednaorden e la conclusiva e cadenzata Tussmorkret. Ovviamente parliamo di un Vintersorg ancora allo stato embrionale e qualche difettuccio qua e là viene fuori, come una voce a volte veramente esagerata che copre tutto il resto e la produzione troppo ovattata, con tastiere e drum machine curate dall’amico Vargher (Ancient Wisdom, Throne of Ahaz), eb isognerà aspettare Till Fjalls per scoprire appieno tutte le potenzialità di questo grandissimo artista.
PAIN OF SALVATION – One Hour by the Concrete Lake
Edoardo Giardina: Ho sempre avuto l’impressione che One Hour by the Concrete Lake fosse l’album più bistrattato dei Pain of Salvation, quello meno apprezzato tra i più apprezzati. Cioè, se chiedi a qualche fan degli svedesi quale sia il suo album preferito molto probabilmente risponderà The Perfect Element Pt. 1, Remedy Lane o al massimo Entropia. E in parte avrebbe anche ragione, perché è vero che One Hour by the Concrete Lake è abbastanza dispersivo. I PoS probabilmente non hanno ancora acquisito quell’abilità nella costruzione di concept album che mostreranno nelle successive due uscite. Ogni tanto si perdono ancora in qualche passaggio spocchioso ultra-tecnico tipico della peggiore tradizione prog. Al netto dei quali però si trovano già passaggi carichi di pathos come Black Hills, la seconda metà di Inside e Inside Out (la suite finale che poi inseriranno in chiusura di quasi tutti gli album che seguiranno). E le ultime due continuano a suonarle live e le hanno riproposte anche al Largo Venue. Insomma, One Hour by the Concrete Lake è un album ancora di passaggio, che non ha avuto troppa presa sul pubblico. Ciononostante rimane comunque importantissimo nel loro sviluppo artistico.
NAGLFAR – Diabolical
Trainspotting: La grande sfiga dei Naglfar è stata debuttare con un disco enorme come Vittra. Tra tutto quello che è venuto dopo c’è anche parecchio di gradevole, ma durante l’ascolto il paragone con il fenomenale debutto serpeggia sempre. Diabolical ebbe l’improbo compito di succedergli, cosa che lo condannò per sempre; cosa ancora più grave, per gli ascoltatori dell’epoca, sterzava decisamente verso il death melodico svedese, con l’ovvia conseguenza della perdita dell’atmosfera maestosa e notturna di Vittra. Eppure non è per nulla un brutto disco, anzi; e certi pezzi come 12th Rising sono picchi altissimi che, se scritti da un altro gruppo, sarebbero potuti entrare nella storia del metal svedese. Ma così non fu, perché questi erano i Naglfar, e noi ci aspettavamo altro da loro. La band non seppe resistere al trauma, e dovettero passare altri 5 anni prima di dare un seguito a Diabolical. Tutto sommato, però, questo è un album che merita di essere ascoltato senza preconcetti.
KAMPFAR – Norse
Michele Romani: Nello spazio che intercorre tra lo stupefacente esordio Mellom Skogkledde Aaser e il full successivo i Kampfar trovano il tempo di pubblicare questo ep intitolato Norse, riguardo il quale non mi dilungherò troppo, considerato che la sua durata è di appena 12 minuti e le tracce presenti sono solo due più un outro in chiusura. La prima è Norse, che verrà riproposta in Fra Underverdenen e che ancora oggi rimane uno dei loro pezzi più rappresentativi e un sunto perfetto dello stile Kampfar, tra chitarre in tradizionale tremolo picking e pregiati inserti folk creati da Thomas, cognato di Dolk e introdotto al black metal proprio da quest’ultimo. L’urlo invasato di Dolk “Still I’ll proud, still i’m Norse” pone pochi dubbi sulla natura lirica del brano, un sentito tributo alla natura norvegese e all’orgoglio di appartenere alla razza nordica. La successiva Troll, dopo un arpeggio iniziale, deflagra in un black metal serratissimo che caratterizza uno dei brani più violenti composti dai Kampfar. La conclusiva Tearing non è altro che un outro di sola chitarra acustica sopra cui Dolk batte le mani e blatera qualcosa in norvegese. In generale nient’altro che un succoso anticipo di Fra Underverdenen, di cui sicuramente parleremo diffusamente tra pochi mesi.
KAMELOT – Siége Perilous
Cesare Carrozzi: Con i Kamelot ho sempre avuto un rapporto strano, a volte di indifferenza totale, a volte di amore appassionato. Ci sono album che mi piacciono molto o moltissimo (The Black Halo, Karma, The Fourth Legacy) ed altri che mi lasciano sostanzialmente freddo (Epica, Ghost Opera e blablabla). Siége Perilous rientra nella seconda categoria: non l’ho mai trovato nulla di particolare, con l’unica nota positiva nell’essere il primo disco ad avere Roy Khan alla voce, comunque ancora non troppo a suo agio su linee vocali scritte per il precedente cantante. Comunque alla fine qualche pezzo carino c’è, tipo Millennium, The Expedition, Irea e poco altro. Aspettate l’anno prossimo e facciamo il ventennale di The Fourth Legacy, dai.
NIGHT IN GALES – Thunderbeast
Ciccio Russo: I boom commerciali del power metal e del death melodico di scuola Goteborg coincidono temporalmente, hanno riferimenti simili (cioè, ehm, gli Iron Maiden) e si alimentano a vicenda. I seguaci del secondo verbo ormai travalicano i confini della Scandinavia e piccoli emuli degli In Flames iniziano a saltar fuori un po’ dappertutto. I Night In Gales (da non confondere con i Nightingale, uno dei mille progetti di sua maestà Dan Swano), da Colonia, avevano fatto un discreto botto con l’esordio Towards the Twilight, che sapeva ancora un po’ d’antico, poi con questo Thunderbeast avevano cercato di elaborare una formula più moderna, arrivando perfino ad anticipare alcune evoluzioni del sound dei loro mentori, come l’utilizzo delle voci pulite e la predilezione per i mid-tempo, laddove nelle classiche accelerazioni con chitarre gemelle (espediente che i Night In Gales sembrano amare parecchio) potremmo tranquillamente pensare di stare ascoltando una b-side di Whoracle. Da bravi tedeschi, fanno tutto benissimo, suonano precisi, arrangiano a puntino ma, in quanto ad anima e fantasia, non brillano granché. Scopro ora che esistono ancora e hanno pure pubblicato un nuovo album, il sesto, lo scorso febbraio.
CROWBAR – Odd Fellows Rest
Enrico: È nato prima l’uovo o la gallina? Esiste qualcosa dopo la morte? È meglio Broken Glass o Odd Fellows Rest? Domande ancestrali che attanagliano esseri umani di ogni cultura e religione. Io ho sempre preferito Broken Glass, meno compatto e pesante del suo successore ma avvolto da un senso d’urgenza più violento e disperato. Poi però, al Roadburn di quest’anno, mi sono trovato davanti i Crowbar in formazione quasi originale che onoravano il ventennale di Odd Fellows Rest con qualche mese d’anticipo (mica come i vostri adorati redattori di Metal Skunk, sempre puntualissimi) suonandolo per intero dall’inizio alla fine. È stato lì, in silenziosa e stordita adorazione, che ho colto davvero l’essenza di un’opera mastodontica, molto più sfaccettata e profonda di quanto l’impatto monolitico possa lasciar immaginare. Invece è proprio in questa dimensione maggiormente melodica e rallentata che il vecchio Kirk mette davvero a nudo le sue tragedie personali, che diventano universali nell’introduttiva Planets Collide, forse il pezzo migliore mai scritto da una delle penne più geniali e sottovalutate del metal americano. E cosa dire del rabbioso urlo “Following your head might be a long, long road to nowhere” che apre …And Suffer As One e condensa in pochi secondi tutto il senso artistico ed esistenziale dell’epopea sludge? Nulla, se non che probabilmente cercare di stabilire se sia meglio Broken Glass o Odd Fellows Rest è un’impresa quasi meno vana del determinare se sia nato prima l’uovo o la gallina.
FUNERAL MIST – Devilry
Trainspotting: Dei Funeral Mist ci si ricorda sempre con incommensurabile piacere il bellissimo Salvation, del 2003, considerato a tutti gli effetti il debutto. In realtà il primo vagito discografico della creatura di Mortuus (che qui si fa chiamare Arioch) è questo Devilry, un EP di una ventina di minuti dopo il quale, però, ci furono effettivamente cinque anni di silenzio prima del suddetto Salvation. Lo stile qui era già pienamente formato, con tutte le caratteristiche che hanno reso grandi i Funeral Mist successivi: produzione curatissima, atmosfera morbosa, campionamenti che si sovrappongono al casino generale, blastbeat violentissimo e la voce di Mortuus/Arioch, sempre a metà tra l’invocazione demoniaca e il conato di vomito. Non sembra un disco del 1998 da alcun punto di vista: da recuperare assolutamente.
CENTINEX – Reborn Through Flames
Ciccio Russo: Oggi i Centinex stanno vivendo una seconda giovinezza da autentici depositari del verbo svedese più intransigente e truculento. All’epoca erano un gruppo abbastanza di nicchia, ai margini del circuito anche da un punto di vista prettamente geografico, dato che venivano da uno sfigato paesucolo di poche migliaia di abitanti dove non c’era nemmeno un altro gruppo che gli prestasse un batterista, tanto che fino a questo album incluso le percussioni erano state affidate alla batteria elettronica. Reborn Through Flames è uno dei loro album più riusciti e melodici. I nuovi eroi di Goteborg però non c’entrano molto; siamo più dalle parti dei migliori Eucharist, che diradano un po’ l’altrimenti onnipresente ombra dei Dismember. Per accontentare i più intransigenti, c’è una bella cover di Under the Guillotine. Ennesimo esempio di scuola di disco estremo scandinavo anni ’90 che allora passava in secondo piano per la messe di capolavori che uscivano in contemporanea ma che oggi farebbe saltare dalla sedia un po’ tutti. La timbrica del cantante di allora, Mattias Lamppu (che dopo questo album avrebbe mollato le scene), continua a ricordarmi Sakis in modo pauroso.
BEASTIE BOYS – Hello Nasty
Stefano Greco: Partendo dal presupposto del cazzeggio assoluto come unico valore di vita, i Beastie Boys si sono inconsapevolmente ritrovati ad essere una delle band più pioneristiche all’interno della musica popolare. Senza mai prendersi sul serio, il trio è stato tra i primi ad esplorare ibridazioni tra stili apparentemente antitetici e in seguito è stato capace di allargare lo spettro sonoro in maniera incontrollata arrivando a creare puzzle sonori per certi versi inconcepibili prima di loro. Hello Nasty è il quinto album del gruppo e pur costruendo su quanto fatto prima li ritrova ancora una volta all’avanguardia nel riciclare, sintetizzare e mescolare elementi vecchi e nuovi. Ci sono i singoloni (Intergalactic, Body Movin’) ma ciò lo rende davvero unico sono tutte le sue deviazioni più o meno appariscenti che legano le varie parti e danno all’album quel carattere unico di prodotto del proprio tempo. Il punto di partenza è sempre il rap old school, ma il risultato finale è un album multistrato di una varietà tale che sembra quasi anticipare anche un concetto con il quale oggi siamo molto a nostro agio: il mischione, la playlist. Che poi play significa appunto sia giocare che suonare: ecco, l’idea dietro Hello Nasty sembra proprio essere quella.
A proposito, ma di quella bastonata dell’ultimo Funeral Mist che dite?
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Grande album! Anche se io preferisco il precedente.
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ottimo mese! Naglfar sempre sugli scudi (anche the brimstone gate faceva sfracelli), dei Centinex dell’epoca forse il mio preferito, mentre per i Night in Gales trovai quest’album abbastanza fiacco dopo un mezzo capolavoro come Towards. Se vi capita date un ascolto al loro nuovo the last sunsets, potrebbe essere una piccola rivelazione per il 2018. Altrimenti, finirà ignorato come altre perle retrò degli ultimi anni (desultory, ablaze my sorrow e chissà se qualcuno si filerà il ritorno degli unanimated)
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Il 10 agosto esce il nuovo ep, Annihilation. Sarebbe anche il caso di fare una retrospettiva completa sugli Unanimated. In the light of darkness vale almeno quanto Ancient God of evil, qualitativamente.
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mah, per me Diabolical è quasi meglio di Vittra… non ci sento sta gran svisata verso il death… Brimstone Gate il loro miglior pezzo in assoluto
perfette le disamine su P.O.S., Kamelot e Night in gales
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