IRON MAIDEN @Ippodromo, Milano 09.07.2018

Era da parecchio tempo che non assistevo a un concerto oceanico del genere. Non mi entusiasma particolarmente stare a duecento metri dal palco e ritrovarmi a guardare i megaschermi per capirci qualcosa, però erano secoli che non vedevo i Maiden dal vivo, essendomi perso la maggior parte degli ultimi tour, e questa per un metallaro è una macchia imperdonabile. Avrei voluto andare a Firenze, anche solo per ripetere l’esperienza Pumpkins United, ma ci possiamo accontentare pure dell’Ippodromo di Milano, in cui di supporto c’è l’ex ministro dell’Economia, Tremonti, che comunque suona troppo presto perché io lo possa riuscire a vedere.

Tra una cosa e l’altra riusciamo ad entrare all’Ippodromo un quarto d’ora prima dell’inizio dei Maiden. In trasferta per l’occasione ci sono anche Ciccio e il maresciallo Diaz, che proprio non potevano perdersi una cosa del genere. Ed effettivamente quando parte la doppietta Doctor Doctor/Churchill’s Speech capisco che in tutti questi anni mi sono perso più di qualcosa, riducendomi a rosicare leggendo altrui report mentre avrei dovuto essere lì anche io. E tutti quegli scritti entusiastici che ripetevano quanto fossero in forma i Maiden, quanto Dickinson sembrasse un ragazzino, quanto sembrava che il tempo non fosse mai passato, eccetera: beh, è tutto vero. A partire dalla scenografia, spettacolare: dall’enorme Spitfire sospeso sul palco durante Aces High passando per il bellissimo Icaro alato durante, beh, Flight of Icarus, con Bruce Bruce che maneggia un lanciafiamme; fino ai giganteschi Eddie, animati o meno. E i teloni dietro al palco che cambiano a (quasi) ogni pezzo, e lo stesso Dickinson che cambia abito di conseguenza, con un risultato sicuramente migliore di quando lo faceva Tarja Turunen. Il cuore mi si gonfia di gratitudine, perché la scenografia è talmente enorme che riesco a vederla anche io che mi trovo a un paio di campi da calcio di distanza, e senza neanche bisogno di guardare il megaschermo. 

E di tutti quei report che ho letto col fegato in fiamme posso confermare anche la cosa più importante: sembrano dei ragazzini. Specialmente Dickinson, che a sessant’anni strilla ancora come un trentenne e corre di qua e di là senza requie: passati i dieci-quindici minuti di riscaldamento sembra di stare a sentire Live After Death, e non esagero. Anche perché la scaletta pesca soprattutto tra i grandi classici: gli unici pezzi non risalenti agli anni Ottanta sono Fear of the Dark (e vabbè), The Wicker Man e l’evitabilissima For the Greater Good of God, che sarebbe l’occasione perfetta per andare a prendere una birra se non fosse che dovrei farmi sessanta metri sgomitando tra la folla per poi perdere la posizione che mi ero guadagnato a forza di spintoni ed esperienza pluriventennale; inoltre l’era Blaze è tributata con The Clansman e soprattutto Sign of the Cross, durante la quale ho avuto una serie di mancamenti di fila. Tutto suonato benissimo, in modo estremamente professionale (per la passione non c’è problema, ce la mettiamo noi) e che vale ogni singolo centesimo dell’esoso biglietto. Non voglio infierire su Janick Gers, la peste bubbonica dei Maiden, ma mi chiedo umilmente se sia davvero necessario permettergli di suonare gli assoli di Dave Murray che lui, puntualmente, distrugge. Però Gers è sempre stato così, quindi, appunto, non infierisco. L’unico che suona un po’ alla carlona è Nicko, che spesso banalizza alcune linee di batteria (tipo la succitata Sign of the Cross) e, sebbene più raramente, perde il tempo. Ma vi assicuro che lo dico solo per dovere di cronaca e per voglia di spaccare il capello in quattro, e chiunque abbia visto i Maiden dal vivo capirà perfettamente perché tutto ciò non è importante.

Quello che è importante è che gli Iron Maiden esistano ancora e riescano a fare degli spettacoli del genere. Amici e fratelli del vero metal, che fortuna abbiamo ad avere gli Iron Maiden. È tutto così sublime che non mi frega nulla di non riuscire mai a vederli in faccia, di non potermi spostare per prendere una birra, del fatto che intorno a me c’è gente che mi sarei aspettato di trovare ad un concerto di Vasco Rossi, eccetera. Il mese scorso sono andato fino a Varsavia per vedere i Manilla Road in un buco umido e improbabile con la capienza di 40 persone, evento di cui non ho scritto il report solo perché, sinceramente, non trovavo parole adatte a descrivere quello che ho provato. È stato uno dei concerti migliori della mia vita, e di sicuro preferisco quel tipo di concerti ai raduni oceanici di stronzi, ma penso che se gli Iron Maiden riescono ad attirare decine di migliaia di persone disposte a sganciare quasi cento euro per vederli di sfuggita vuol dire che un po’ di giustizia a questo mondo c’è. I Maiden se lo meritano, cazzo. Se non ci fossero stati i Maiden, probabilmente molti di noi a quest’ora alla domanda “Che musica ascolti?” risponderebbero con il mefitico “Un po’ di tutto”; e probabilmente saremmo all’oscuro del segreto dell’acciaio. Nel metal i Maiden sono il gruppo con il pubblico più ampio e trasversale di tutti esclusi i Metallica, che però fanno pietà dall’epoca in cui crollava il muro di Berlino. Invece i Maiden saranno pure finiti a fare dischi stupidini nell’ultima dozzina d’anni, però avercene. Up the irons. (barg)

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