Roadburn Festival 2018: 19-22 aprile, Tilburg, Olanda


Dopo la delusione dello scorso anno, gli endorsement non richiesti di tutti quelli arrivati con almeno dieci anni di ritardo e i peana fuori luogo dei vari Vice/Noisey (i Re Mida della merda, secondo una brillante definizione di non ricordo chi) si temeva un festival in fase discendente, mutato nei suoi obiettivi e fondamenti e preda dei più biechi istinti hipsteristi. È stato quindi bellissimo essere smentiti e ritrovarsi partecipi di un’edizione bella, coerente e priva di quella fuffa spocchiosa che aveva flagellato il 2017. Nonostante siano comunque mancati (e non poco) due cardini sonori dell’ortodossia roadburniana (doom e stoner) si può comunque parlare di edizione in stile classico per la dedizione con cui è stata esplorata la componente heavy psych, che, al netto delle altre cose, è stata predominante soprattutto per i gruppi californiani e giapponesi che hanno preso in ostaggio il festival trasformandolo a tratti in unica interminabile space jam. Il risultato finale infatti è stato uno dei Roadburn più scapocciati di sempre. A tal proposito, piccola info di servizio: a Tilburg, dopo anni, i coffeeshop sono nuovamente aperti al pubblico, quindi non c’è più motivo di passare da Amsterdam per fare la scorta e perdersi la metà dei gruppi il primo giorno e/o rischiare di essere arrestati con l’accusa di narcotraffico.

GIOVEDÌ

A Tilburg fa un caldo irreale, siamo a circa trenta gradi che a questa latitudine e in questo periodo sono qualcosa di pressoché mai visto: i bimbi fanno il bagno nelle fontane, gli olandesi sembrano confusi, girano in ciabatte e si riversano in strada in preda ad un’euforia climatica incontenibile. Tutta questa felicità però non scalfisce minimamente la nostra voglia di musica della morte. Il Conte ed Enrico (al contrario di me) hanno fatto bene i compiti, sono preparatissimi e mi trascinano in un Patronato stile sauna a vedere tali Khemmis da Denver come i Denver Broncos. Nonostante il cantante sembri Bonucci del Milan sono un ottimo modo di iniziare la giornata e, in retrospettiva, una delle cose più metal in senso stretto viste nei quattro giorni. Subito dopo infatti si passa agli Earthless, la band a capo del battaglione di San Diego ed uno dei gruppi più rappresentativi del Roadburn prima maniera. Una lunghissima sequenza di psichedelia elettrica che fa da introduzione al tema principale del 2017: la forma e le strutture si dissolvono quasi del tutto in un flusso di (in)coscienza sonora, ma sul finale si riprendono e chiudono con la cover di Cherry Red dall’indimenticato Rhythms from a Cosmic Sky
Stiamo in giro dalla mattina presto e si impone una pausa cibo, in cui una serie di incomprensioni con la cameriera porta ad un allungamento dei tempi insensato che ha, come risultato, una misera porzione di nachos con salse piccanti e il perdersi i Converge (di cui comunque mi interessa fino ad un certo punto) e che in ogni caso suonano pure il giorno dopo. Mentre noi mangiamo schifezze all’interno dello 013 però stanno preparando la bombetta. Mariner, il disco dei Cult Of Luna con Julie Christmas che non avevo sentito all’epoca (altrimenti sarebbe di sicuro finito in playlist 2016) per recuperarlo solo da qualche mese proprio in seguito all’annuncio che sarebbe stato suonato qui oggi. Se non l’avete mai sentito procuratevelo perché è davvero un discone. Con queste premesse è normale che le aspettative fossero alte, ma qui si va ben oltre le più rosee previsioni: quello che segue è un concerto clamoroso. L’equilibrio tra le parti, la potenza, la capacità evocativa, tutto concorre a farne una di quelle cose solo questo festival ti sa regalare. Sapete quando si dice “solo questo vale il prezzo del biglietto”: ecco, questo è quel caso lì.
Tra un caprone e l’altro si arriva verso la fine della giornata, e, avendo oramai esaurito i gruppi con la parola bong nel nome, quest’anno si è deciso di ripiegare su un concetto simile per la scelta della band a cui far chiudere la prima giornata. A fare gli onori di casa sono quindi i tre redneck dall’aspetto sgradevole che rispondono al nome di Weedeater che ci suonano il loro “classico” (tanto sono tutti uguali) che risponde al nome God Luck and Good Speed. Un’oretta di inni alla deviazione, al fumo, all’alcool. Il marciume a volumi da arresto è da sempre il nostro bacio della buonanotte preferito. Goedenavond.

VENERDÌ

È il 20 aprile, e la prima notizia del mattino battuta dalle agenzie di tutto il mondo è che a sorpresa, nel giorno delle celebrazioni della droga, è uscito l’album nuovo degli Sleep. Vedo la copertina, scorro la tracklist (Marijuanaut’s Theme, Giza Butler tra i titoli) e in breve il mio unico desiderio al mondo è metterci le mani sopra. Ma mi dovrò accontentare di un ascolto veloce su Spotify. Fossi stato da un’altra parte avrei passato la giornata intera in cuffia: purtroppo o per fortuna però il programma è pienissimo, e quindi toccherà rimandare. Perché sì amici, alle 3 di pomeriggio è previsto un set di oltre due ore dei Motorpsycho e, dato che nella vita vera sono un top manager mago della progettazione, metto su un dettagliato workplan per poterne godere al meglio. Il programma in realtà consiste in un semplice passaggio con sosta al Grass Company. Per quanto basilare il piano sembra funzionare e all’appuntamento ci arrivo nella condizione ideale. In più deve essere il mio giorno fortunato: il primo pezzo è Un Chien D’Espace, il mio preferito in assoluto, che dal vivo ho avuto la fortuna di aver sentito solo una volta. La canzone è allungata, dilatata, deviata e ripresa: una cosa pazzesca. Lo stesso trattamento è riservato anche agli altri pezzi, tra cui figura addirittura Heartattack Mac (mia seconda preferita) e Taifun da un album di cui si parlava non troppo tempo fa. Band di un altro livello in condizione, come al solito, incredibile.

Revanscismo roadburniano

Rimetto la testa fuori ed è ancora giorno pieno, e l’effetto tipo uscita dal cinema più fame chimica è letale. Tra una patata fritta, una pizza surgelata e una costoletta di maiale si socializza con i vicini e cominciano a girare voci incontrollate. Complice un post criptico su Facebook e una serie di allineamenti astrali mal interpretati, si comincia a spargere la voce incontrollata che gli Sleep faranno uno show segreto a non si sa che ora. Grazie al THC decido che i want to believe, ma a basso voltaggio di convinzione. Le speculazioni potrebbero andare avanti a lungo ma per fortuna ci sono i Crowbar a mettere un freno alle dicerie con l’ennesimo show a tema: questa volta tocca ad Odd Fellows Rest il trattamento integrale da cima a fondo. Sarà che sto preso bene, sarà che tutto funziona alla perfezione, ma mi sembrano particolarmente in palla. L’headbanging raggiunge il suo zenit e da qui, per quanto mi riguarda, il festival entra in una (mia personale) fase 2. È come se le cose più compatte e tradizionali si fossero concentrate tutte nella prima parte. Da qui in avanti ho l’impressione che tutto evolva verso proposte sempre più dalla forma libera o in qualche maniera dilatate. In quest’ottica l’assalto sonoro dei Converge lo trovo eccessivo e allora mi ritrovo nella green room con dei giapponesi scoppiatissimi (Minami Deutsch, mi pare) con la psichedelia accesa a motoretta. A mantenermi in questo stato di semi ipnosi contribuiscono poi i Godflesh. Una volta finito il set di Broderick, la droga e la voglia di esotismo ci fanno propendere per degli spagnoli che sembrano la reincarnazione di Roberto Murolo; durante un pezzo sono sicuro di sentire il cantante affermare che “la ricetta a Cicirinella compagno di cella ce l’ha data mammà”. Apertura mentale ok, ma diamoci una regolata. Io e il conte ci dirigiamo allora su altri giapponesi pazzi e poi su tali Grave Pleasures che poi sarebbero tipo i Beastmilk, il tutto ovviamente nell’attesa che appaiano gli Sleep i quali però ovviamente non si materializzano. L’invito per tutti (e anche per me) è di quelli semplici: “regà, fatevi meno canne”.

SABATO

La perfetta macchina da guerra organizzativa da me messa in piedi prevede una lunga vista alla Koepelhal, nuova venue introdotta quest’anno che serve sia per concerti di ampia capienza che per fare da base per il merchandise dei gruppi, gli stand delle etichette e tutte le altre attività extracurriculari. L’idea, essendo anche il Record Store Day, è quella di una sacrosanta sessione dedicata allo shopping discografico tatticamente piazzata in modo da poter stemperare la mazzata sulle palle dei Bell Witch che suonano un unico pezzo lungo un’ora e venti al palco lì dietro. In perfetto orario ci accingiamo ad uscire dal parcheggio dell’albergo quando… BOOM! Veniamo colpiti e affondati in pieno da una macchina che usciva in retromarcia senza guardare minimamente dove stesse andando. Dalla vettura scende una ragazza olandese che va nel panico più assoluto e che ci ritroviamo pure a dover tranquillizzare nonostante abbia torto marcio. Donna al volante pericolo costante, un detto che sembra valere a qualsiasi latitudine. Due veri maschi italiani e una giovane abitante dei Paesi Bassi: se fossimo in un film porno la risoluzione del disguido seguirebbe un canovaccio ben collaudato, questo però è il mondo reale e nel giro di una mezz’ora ci ritroviamo al cospetto di due energumeni nederlandesi di proporzioni gigantesche. I due vichinghi in realtà si dimostreranno gente molto ragionevole e alla fine ci si ritrova tutti allegramente a compilare un bel CID in una lingua incomprensibile. Lo shopping viene rimandato e fortunatamente ci perdiamo i Bell Witch. Alla fine davvero poco male, perché il sabato sarà bulimia sonora assoluta. Si inizia con i soliti californiani in svarione perenne, in questi in particolare ci suona il figlio di Tony Hawk e io mi aggiro sperando di imbattermi nel padre per chiedergli una foto. Purtroppo The Birdman risulta non pervenuto, ma il gruppo è ok. Mi perdo volentieri le saghe nibelunghe di Hugsjá e propendo per il gruppo di Bannon (Wear Your Wounds): sono buoni per un pomeriggio tiepido, ma nulla di trascendentale. Ci riesco ad infilare dentro un po’ di shopping, saccheggio il banco di Southern Lord e Burning World, rimedio un favoloso 10 pollici dei The Heads e un demo dell’88 dei Monster Magnet quando ancora si chiamavano Love Monster.

Tipo Stonehenge, ma con gli amplificatori.

Finito il rituale spendaccione ci si trasporta tutti nella sala grande per Boris + Stephen O’Malley che suonano Absolutego. Uno sguardo sul palco ed è difficile trattenere le risate per la quantità paradossale di amplificatori schierati in bella vista. Nei giorni precedenti era girata la scheda tecnica (pura pornografia) ma vi assicuro che a vederli così dal vivo fa un altro effetto. A breve però l’ilarità si tramuterà in terrore puro. Il soundcheck è qualcosa di inquietante. I volumi sono inumani e stanno andando solo uno alla volta. Non oso pensare a cosa succederà quando attaccheranno tutti e quattro insieme. Di più: confesso di essere preoccupato per quel che sarà delle mie orecchie, capisco la gloria ma il danno perenne non è un’idea che mi alletta più di tanto. Poi si comincia e il concerto è, a modo suo, pazzesco. Dilatando i tempi, lavorando sulle attese riescono ad incollarti per lunghissimi minuti e poi a travolgerti nel caos più assoluto. In un paio di occasioni mi ritrovo a chiedermi “occhei, ma ora cosa sta succedendo?”. Se provi a sezionarne le parti diventa una cosa incomprensibile, però nel suo complesso il tutto acquisisce di senso e manco poco. “Sto ancora a cazzo duro” ci riferisce l’ottimo Enrico generalmente morigerato nell’utilizzo delle metafore sessuali. Fichissimo, non certo un concerto in senso classico, ma siamo comunque tra gli highlight assoluti del festival e tra le cose che puoi raccontare di aver fatto nella vita. Il giorno dopo ho preso pure il poster che mi ha venduto Arik Roper in persona: in salotto farà un figurone. Il proseguo vede i The Heads (whoa! pure per loro), altri giapponesi violenti (Greenmachine), dei rozzoni tedeschi noti per aver fatto un demo in dieci anni e pure la tipa che faceva rituali nei The Oath e che ora si è riciclata come una versione nuovo millennio delle Runaways (Maggot Heart mi pare si chiamassero, per riprenderci ci può stare). Poi c’erano i Godspeed You! Black Emperor ma per quelli serve un discorso a parte e ve lo racconto in relazione a domani.


DOMENICA

L’Afterburner è sempre una sfida: ci si arriva un po’ cotti e c’è quella costante atmosfera di smantellamento che trovo un po’ malinconica, o forse sono solo io che devo riuscire a farmi prendere male qualsiasi cosa. Comunque non mi pare che il programma dell’ultimo giorno fosse all’altezza dei precedenti; detto questo però ora siamo e qui e non abbiamo certo intenzione di tirare indietro la gamba. Non avendo nulla di preciso in agenda mi affido ai flussi cosmici che ci portano nel foyer dove ci viene presentato un foglietto con su scritto Vánagandr: Sól án varma e poi e poi la parola AFBRIGDI seguita da numeri romani che vanno da uno a undici. Oddio e mo’ che vogliono questi? Mi faccio il segno della croce e decido di entrare. Dopo un po’ mi rendo conto che quello che mi hanno consegnato è qualcosa tipo un “libretto d’opera”; sul palco però ci sta una coalizione di black metallers finlandesi. Ne seguo un pezzo e dopo una ventina di minuti mi pare che anche loro entrino in un ennesima jam infinita. Bellissimi i video “cosmici”, ma dopo un po’ devo mollare ché è troppo impegnativo per me. Non va molto meglio con i Bell Witch per i quali avevo qualche aspettativa, ma che sono qui coadiuvati da un tizio che canta come potrei fare io, e io sono davvero una pippa a cantare. Insostenibile. Mi vado a fare due passi e mi imbatto in un paio di gruppi un po’ fuori genere (Wattar, Spotlights) che suonano quello che è quasi indie rock molto appesantito. Non erano malaccio ma è inutile girarci attorno, il piatto forte della giornata sono ancora i Godspeed You! Black Emperor. Il set è simile a quello del giorno prima con appena qualche differenza (fanno Mladic credo). Come anche per Boris/Soma del giorno precedente (con esiti diversissimi ovvio) siamo in una zona di confine in cui il rock and roll come lo conosciamo è solo un pretesto, una forma originaria che viene riutilizzata per fare qualcosa di completamente altro. Infatti a ben guardare i GY!BE sono un’orchestra (a tratti sono addirittura in 9), e la loro musica anche col post-rock stesso c’entra sì ma fino ad un certo punto (qui vi potrei attaccare un pippone su come per svariati motivi siano l’opposto dei Mogwai ma ve la risparmio). Come anche il giorno prima lo spettacolo è sublime: la musica, le voci narranti, i video creano un risultato complessivo estremamente suggestivo. Gruppone assoluto. Se spingere sui confini del festival vuol dire questo allora direi che ci siamo, se invece la sperimentazione è quella intesa da tali Vampillia (Rondò Veneziano meets extreme metal) allora per me si può anche lasciar perdere. Sia chiaro, se dite che vi piacciono i Vampillia è solo perché dovete fare i fichi, vi voglio vedere a casa che vi sentite il disco in poltrona, altrimenti non vale. Poi che la sala sia piena sia per loro che per il solito teknone burinone non mi stupisce affatto, ma quello è perché la gente non vuole andare a casa e la vuole tirare avanti fino all’ultimo. E su questo punto è davvero difficile darvi torto amici, lasciare questo mondo irreale è una cosa difficile per tutti me incluso. Mi bevo l’ultimo gettone rimasto per esorcizzare il distacco e poi arriva il congedo inevitabile. Su dai che ci si vede anche l’anno prossimo. (Stefano Greco)

Nota a margine: rientrato in Italia all’aeroporto il cane antidroga mi ha sniffato e sono stato fermato dalle forze dell’ordine. Non avevo niente addosso ma la perquisizione ha fatto sentire una cifra ggiovane. Roadburn Festival: contro il logorio della vita moderna.

2 commenti

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  • sergente kabukiman

    oh io i bell wich c’ho provato più di una volta a sentirli ma niente, un disco di un’ora e 20 non lo riesco a reggere, lo si può sparare a cannone contro delle trincee nemiche. Comunque a giudicare dalla scaletta mi sembra un po’ meglio dell’anno scorso ma continuo a preferire il più canonico desert fest come line-up..sempre parlando di scaletta ovviamente.

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