Adriatico valvolare: TUBE CULT FEST 2018
Quarto anno di fila che timbro il cartellino del Tube Cult, e ogni volta sono sempre più convinto di presenziare alla successiva. Chi ci legge abitualmente ormai saprà di che parliamo, comunque lo ripeto: trattasi di un Roadburn in miniatura, organizzato dal valoroso Davide Straccione (possente ugola di Zippo e Shores of Null nonché mente dietro al Frantic Fest) in due piccoli localini adiacenti del centro di Pescara, a prezzi ridicoli e completamente dedicato alla musica per fattoni. Chicca del festival è l’indispensabile depliant gratuito con descrizione dei gruppi e orari dei concerti. Quest’anno, per festeggiare la decima edizione, ci suonano addirittura i Weedeater, per cui siamo tutti in fibrillazione. Tutti tranne JU CINGHIALOTTU, l’inconsapevole mascotte del festival, che non ha presenziato nonostante fosse ormai parte integrante dell’arredamento. Probabilmente il Nostro è rimasto bloccato sulle montagne a causa della pioggia e della stagione degli amori, e ha preferito rincorrere le cinghialotte invece di vedere i Weedeater. È un mondo difficile.
VENERDÌ
Io invece mi perdo completamente il primo gruppo del festival, ma ho validissime giustificazioni da addurre. Oltre al traffico bestiale sulla strada Milano-Pescara (specie nella tratta lombardo-emiliana, vero e proprio girone infernale che in un certo senso funge da riscaldamento per il festival), la tipa che ci doveva affittare il bed & breakfast non solo non risponde al telefono per tutto il giorno, ma non si fa neanche trovare in casa quando citofoniamo. Non mi era mai successo nulla del genere. Siamo quindi costretti a trovare un’altra sistemazione in extremis, arriviamo lì, facciamo il check-in, molliamo il cagnolino e abbiamo giusto il tempo di passare al camioncino degli arrosticini, perché è tradizione che al Tube Cult ci si arrivi con lo stomaco gonfio di pecora abbrustolita.
Ci presentiamo allo Scumm alle 21.20, comunque in tempo per goderci gli ultimi dieci minuti di esibizione, ma uno stupefatto Straccione mi comunica che per qualche motivo la band ha finito in anticipo. Per la cronaca loro erano i CALVARIO, milanesi, che il fido depliant ufficiale del concerto descrive come sventolanti “le bandiere del blackened hardcore, crust e sludge metal”. Li avevo sentiti di sfuggita in preparazione del concerto e non mi avevano particolarmente colpito, ma Straccione giura che dal vivo rendono molto di più e soprattutto avevo la curiosità di sentire di persona le urla belluine della cantante, Federica. Sarà per la prossima volta.
Prendiamo quindi la prima birra della serata e ci piazziamo con debito anticipo nell’adiacente Mamiwata per il duo svizzero SUM OF R, descritti come creatori di “musica strumentale al rallentatore con una sensibilità per strutture ipnotiche, ritualistiche e complesse”. E inoltre “il loro intenso e pulsante sound è caratterizzato da un processo ciclico che include basso, batteria, effetti, samples e droni per creare un unico e denso insieme”. Confermo tutto: trattasi del classico gruppo psichedelico per fattoni che nel contesto del Tube Cult sguazza perfettamente come Ciccio Russo in un barile di birra dell’Eurospin. Gli elvetici prendono benissimo e io inizio a entrare nell’atmosfera del festival. Peraltro rispetto all’anno scorso il Mamiwata ha modificato la struttura interna, non molto ma quanto basta per non creare più il famigerato tappo di gente all’ingresso che rendeva quasi impossibile l’ingresso a concerto in corso. Daje.
Dopo è il turno dei SANNHET, da Brooklyn, che secondo il depliant suonano “musica strumentale che sa essere pesante ma leggera, cinematografica e intima, densa ma minimale”. Mi sembrano carini, niente di trascendentale ma fanno il loro sporco lavoro riscaldando l’atmosfera. Due parole anche per la nuova location dello Scumm, uno stanzone con un palco abbastanza alto perché tutti riescano a vedere bene. L’anno scorso, dato che non erano riusciti ad avere i permessi dal Comune, si era tutti nel locale adiacente, piccolissimo e senza palco, in cui la gente suonava per terra; molto affascinante, ma ringraziamo Belzebù che i permessi siano arrivati in tempo per i Weedeater.
Dai Sannhet usciamo qualche minuto prima per prendere posto al Mamiwata per gli HIGH REEPER, la cui descrizione mi sconfinfera. “We write music to bang our heads too”, recita la loro pagina Facebook, e anche qui confermo pienamente. Stoner rock tradizionale ed efficace, tutto basato su riff sabbathiani, macchine decappottabili anni ’60 e bandiere sudiste; e per una mezz’oretta Pescara diventa una succursale del New Mexico.
I successivi FREEDOM HAWK vengono dalla Virginia e, secondo il depliant, “insieme al loro groove micidiale, le melodie chitarristiche espressive e l’involucro metal armonico, costituiscono un sound distintivo e personale”. Sul distintivo e personale non sarei tanto d’accordo, perché mi ricordano mille altri gruppi, ma fortunatamente sono tutti bei gruppi e quindi ci godiamo pure questi. Loro esistono dal 2003 ma io non li avevo mai sentiti, mea grandissima culpa.
Lo confesso: non ho assistito all’intero concerto dei Freedom Hawk perché ero troppo fomentato per i MESSA, i trevigiani del Male, il cui debutto Belfry ho praticamente consumato. L’ho detto già altre volte, ma sento il dovere di ripeterlo per l’eccezionalità della cosa: li ho scoperti perché ne aveva parlato Raffaele Sollecito in un post su Facebook. Qui presentano il loro ultimissimo Feast for Water, di cui da qualche parte avevamo parlato in occasione di Leah, il pezzo uscito in anteprima e che lasciava prevedere sfracelli. E sfracelli sono stati: il disco è bellissimo e così la loro prestazione, in cui riescono a rievocare le atmosfere insalubri e claustrofobiche che li hanno resi una delle migliori sorprese italiane degli ultimi anni. Una menzione speciale al batterista dallo sguardo allucinato, che avrei giurato stesse per collassare da un momento all’altro se non fosse che non ha mancato un colpo, e alla cantante, perfettamente calata nel ruolo di sacerdotessa occulta. Di gran lunga la migliore band del primo giorno del Tube Cult.
L’onore di chiudere la prima parte del festival tocca quest’anno agli svizzeri ZATOKREV, che il pubblico aspetta con particolare ansia. Il depliant li descrive come proponenti “un sound eclettico in grado di abbracciare sludge, stoner, black metal, progressive e psychedelic rock, doom e post-hardcore”. Se ci metti i crostini ci fai pure la ribollita, praticamente. L’attesa spasmodica del pubblico è ripagata appieno, e, nonostante la stanchezza (e la prestazione superlativa dei Messa poco prima), riusciamo a goderci anche loro.
SABATO
Il secondo giorno veniamo raggiunti anche dalla delegazione genovese, che con costanza e pervicacia porta avanti lo stendardo del Capro anche sui ridenti litorali liguri. Stavolta dall’arrosticinaro ci andiamo molto presto, così non ci perdiamo neanche un minuto; purtroppo però la prima parte della serata vedrà una presenza di pubblico più scarsa del solito a causa della contemporaneità di Inter-Juve. E no, neanche quest’oggi c’è il Cinghialotto.
Si comincia puntuali con i FLYNOTES, “trio strumentale proveniente da San Pietroburgo, autore di un’eccellente miscela di rock psichedelico e stoner rock dai tratti doom e con una vena post rock/progressive”. Rimarranno impressi nella mia memoria soprattutto per il contrasto tra chitarrista compassato e bassista esagitato, che si rotolava per terra e girava istericamente su sé stesso rischiando di spaccare la testa col suo strumento al suddetto chitarrista. Quest’ultimo poi indossava un cappello che io ho immaginato fosse foderato di piombo per evitare traumi cranici. Fortunatamente comunque nessuno si è fatto male; anzi, il bassista è ridiventato normale appena sceso dal palco, e ci ho pure potuto scambiare due parole senza che gli prendesse una crisi epilettica nel frattempo.
THE SLAVE PREACHER è il progetto di Aaron Brooks, il vecchio cantante dei Simeon Soul Charger, già presenti all’edizione del 2015. I Simeon Soul Charger, non so se ve li ricordate, sono quelli americani dell’Ohio che per qualche motivo si trasferirono tutti a vivere in Baviera. Non mi è chiaro se trattasi di one-man band o no, ma qui Brooks è accompagnato da due musicisti, già negli Zippo. È un po’ un unicum all’interno della scaletta del festival, essendo un cantautorato psichedelico dai toni allucinati e sommessi; la cosa è incredibilmente piacevole e fa ben sperare per il debutto, che dovrebbe uscire a breve. Noi lo ascolteremo e ne daremo testimonianza.
È quindi il turno dei sardi CHARUN, il cui nome ricorda un vecchio gruppo di suicide metal finlandese dell’epoca in cui suicide metal finlandese significava effettivamente qualcosa. Il genere è esattamente opposto, anche se la descrizione del depliant si adatterebbe anche ai finnici: “orchestrazioni dinamiche elettriche permeate da emozioni intense e un velo di oscurità che aleggia in mezzo alle canzoni”. Qualcosa che si pone tra sludge metal e post-rock, diciamo, assolutamente nulla di originale (neanche per il fatto di essere strumentale) ma che prende benissimo. Anche qui, consiglierei di recuperare sia il loro ultimo Mundus Cereris sia il precedente EP Stige.
C’è curiosità per i MALCLANGO, “un progetto folle messo in piedi da membri di Juggernaut, Inferno Sci-fi Grind’n’Roll e Donkey Breeder sottoforma di tre scimmioni addestrati che percuotono tamburi e strimpellano note basse”. Descrizione da prendere in senso letterale, perché i tre scoppiatoni in oggetto hanno maschere da scimmia e violentano freneticamente due bassi elettrici, riscuotendo il favore del pubblico che sta volentieri al gioco e si diverte tantissimo. Purtroppo non è proprio il mio genere e, dato che la partita è finita e la gente inizia ad affollare il Mamiwata, dopo qualche minuto esco per prendere una birra e prepararmi psicologicamente per i Minami Deutsch.
I quali MINAMI DEUTSCH sono giapponesi e mi avevano molto impressionato quando li avevo ascoltati in preparazione del concerto. Il depliant li definisce una “krautrock band fortemente influenzata dal loro amore per Can e Neu!, ma anche dalla minimal giapponese”. Tutto vero, sostanzialmente, ma dal vivo pestano molto di più che su disco e si mimetizzano alla perfezione con l’atmosfera del festival. Suonano e sembrano vintage sul serio, cioè in un modo che di sicuro non piacerebbe agli hipster milanesi amanti delle Luci della Centrale Elettrica che nella settimana del Fuorisalone inondano via Tortona di risvoltini e magliettine a righe con le scritte ironiche. Il vintage che piace a noi invece è quello fatto da giapponesi vestiti in modo improbabile che finiscono a Pescara a suonare di fronte a qualche decina di metallari in incognito.
Dopo quaranta minuti di Minami Deutsch e due giorni di Tube Cult io sono seriamente bollito e ho bisogno di un po’ di aria aperta. Mi perdo così il momento giusto per entrare a vedere i LLEROY in un Mamiwata strapieno, e quindi li ascolto stravaccato su una sedia appena fuori dalla porta. Vi lascio però la descrizione ufficiale: “I Lleroy sono un power trio devoto allo psycho-vandalismo, al fango, al noise rock e a qualunque forma di misticismo confusionale: muri di distorsioni, batterie pestate, semplicità istintiva e cruda, dannatamente anti-tren. Il concetto di ‘less is more’ si applica particolarmente a questa band”.
Tutto finisce con i WEEDEATER, che suonano per intero God Luck and Good Speed come fatto al Roadburn la settimana prima. Poco da dire sinceramente: il trio del North Carolina spacca quanto una martellata su una panetta di burro rancido, e l’ora di durata del loro concerto scorre via manco fossero cinque minuti. Purtroppo, data l’ora tarda, verso la fine della prestazione rimarremo sì e no in trenta persone nel pubblico, ma quelli se ne fregano altamente e tirano dritto come un panzer. La situazione è surreale, al livello di quando riuscii a vedere i Cannibal Corpse nelle campagne sperdute della Basilicata. Quando tutto finisce siamo devastati ma felici come bambini la vigilia di Natale. Un GRAZIE a Davide Straccione per continuare a portare avanti questa cosa bellissima, un saluto a tutti quelli che c’erano (in particolare al leccese che ha scoperto il Tube Cult grazie a Metal Skunk e che si è fatto centinaia di chilometri per venire fidandosi delle parole del povero stronzo che ogni anno ci fa i report) e speriamo di vederci tutti l’anno prossimo. (barg)
Leccese presente e riconoscente.
Venivo da Barcelona, e devo dire che ne é valsa ampiamente la pena.
Prossimo anno ci si becca al camioncino fra gente che non serve nemmeno parlare troppo, tanto ci si capisce con uno sguardo. Che le valvole continuino a scaldarsi!
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cazzo io è dall’edizione con gli ufomammut che non mi presento a pescara..che schifo! I malclango li ho visti dal vivo con Lili Refrain addirittura, e per le altre band e il festival in generale solo una parola: RESPECT. Due parole sui messa: sono semplicemente uno dei migliori esempi del concetto “noi italiani possiamo fare il culo a chiunque”, poche volte ho sentito una proposta così genuina e relativamente originale(se di originalità si può parlare nello stoner doom), tecnicamente validissimi e con una cantante che manda a casa tutte le sgallettate pseudo-streghette che appestano la nostra musica drogata. Per il resto #freecinghialottu
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