Avere vent’anni: agosto 2000

HYPOCRISY – Into the Abyss
Marco Belardi: The Final Chapter e Hypocrisy rappresentavano il massimo punto evolutivo al quale gli Hypocrisy potessero ambire, e questo Peter Tagtgren ben lo sapeva. Non a caso se ne era già uscito con un paio di album dei Pain. Al momento di uscire con Into the Abyss le attese erano tuttavia enormi, e il responso si suddivise grosso modo in due tronconi. Da una parte si lodava il ritorno degli Hypocrisy a sonorità più dirette, death metal, meno atmosferiche che nel recente passato. Legions Descend e Blinded in apertura furono piuttosto esplicative in tal senso: il nuovo degli Hypocrisy sarebbe stato un album death metal come tanti, di matrice sfacciatamente nord europea. In parallelo i Dismember avevano già pubblicato il bellissimo Massive Killing Capacity e subito dopo innestato la retromarcia: fu una cosa piuttosto simile, e lo fu pure nei risultati. Non è un caso che il miglior brano di Into the Abyss sia Fire in the Sky, una delle loro migliori composizioni di sempre, una di quelle cose che senza innovare alcunché vanno a posizionarsi di fianco a una Roswell 47 senza neppure sfigurare. Quel pezzo diede letteralmente ragione all’altra parte della trincea, fatta di coloro che proprio non digerirono questa standardizzazione del suono degli Hypocrisy in direzione del death metal più purista. Into the Abyss è come quelle cose fatte appositamente per i fan: non giocano su terreni scomodi, eppure perdono carattere e alla fine perderanno pure il confronto con i fan stessi.
ISEGRIM – Dominus Inferus Ushanas
Michele Romani: Una cosa che mi piace di questa rubrica è di farmi riscoprire ogni volta vecchi dischi, che magari non avevo mai ascoltato o a cui non avevo prestato la giusta attenzione. È il caso di questi Isegrim, black metal band tedesca che dopo un paio di EP pubblica nel 2000 questo Dominus Inferus Ushanas, unico full della loro brevissima carriera. Il fatto che uscì ai tempi per Massacre (label che, Theatre of Tragedy esclusi, ha quasi sempre pubblicato solo porcherie) non mi aveva invogliato certo ai tempi all’acquisto, ma devo dire che ho fatto male. Il fatto è che, col black metal tutto pulito e perfettino che va in voga oggi, ogni tanto ascoltarsi una proposta superignorante come quella degli Isegrim, con titoli di pezzi come Blasphemous Hymns o Rape Jesus Christ part 2 fa sempre piacere. Quello degli Isegrim è un classico black anticristiano vecchia scuola, col suono delle chitarre che riporta chiaramente alla scuola svedese di Marduk e Dark Funeral, con pochissime concessioni alla melodia. Una nota particolare per la voce di Blackwar, che riesce a passare senza problema dal classico scream (uno dei più incisivi abbia mai sentito) al growl tipicamente death metal. In finale nulla di obbligatorio né di trascendentale, ma per quanto mi riguarda una piacevole riscoperta.
PECCATUM – Amor Fati
Trainspotting: Nella recensione di Strangling from Within avevo confessato come sulle prime io avessi preso tremendamente sul serio i Peccatum, perché ero piccolino e perché credevo che Ihsahn fosse un incredibile genio musicale a tutto tondo e che di conseguenza qualsiasi cosa uscisse fuori dalla sua penna fosse oro. Sempre nella suddetta recensione ho anche precisato che a un certo punto capii quanto invece il progetto Peccatum esprimesse nient’altro che la tronfia prosopopea del cantante degli Emperor, e questo vale esattamente anche per questo Amor Fati, secondo lavoro di Ihsahn in questo surreale gruppetto messo su insieme alla moglie, Ihriel, e al cognato, nomato Lord PZ. Se posso permettermi, peraltro, la voce della sua dolce metà ricorda pericolosamente altri tipi di suoni che la natura ci ha donato, come, non so, i gatti in calore, i maiali al macello, Neymar quando si rotola per terra fingendo di essersi rotto una gamba oppure me stesso quando sbatto violentemente il mignolino contro lo spigolo del comò. Non trovo alcuna giustificazione all’esistenza di una roba come Amor Fati, e sono fortemente convinto che chiunque si dichiari un fan di questo disco soffra della stessa sindrome del non capisco quindi apprezzo di cui soffrivo io.
PRO-PAIN – Round 6
Marco Belardi: Mettiamola così: in tutto il contesto hardcore thrash i Pro-Pain erano un pesce parecchio piccolo. Ovunque tu volgessi lo sguardo c’era di meglio. In più provenivano da New York, una delle culle per eccellenza di tutto quanto il filone. In ultima istanza, i loro primi lavori non erano niente di particolare. Le premesse per vedere Gary Meskil scomparire dalla scena in anticipo c’erano tutte, ma non andò affatto così. A metà carriera i Pro-Pain si reinventarono, lasciandosi alle spalle quel mood anni Novanta che per l’ultima volta respirammo nelle note di Contents Under Pressure. Era il 1996 e i Pro-Pain diedero un taglio netto a tutte le caratteristiche principali di quel decennio. A quel punto il loro modo di suonare si fece sempre più corposo e metallico, ma non solo: i Pro-Pain firmarono per Nuclear Blast vantandosi di non essere passati su major, il che avrebbe compromesso la loro libertà operativa. La Nuclear Blast, peraltro, negli anni saprà crearsi la fama di “normalizzatrice” delle band heavy metal. Il sodalizio non andrà avanti così a lungo, ma una cosa è certa: i migliori album dei Pro-Pain sono usciti su Nuclear Blast, in quel lasso di tempo che va dagli ultimi anni Novanta e il 2002 di Shreds of Dignity. Niente di trascendentale, sia chiaro. Ma se metti su Round 6 te lo godi come accade con quegli album che ti spari d’un fiato, senza saltare una manciata di pezzi o percepire un particolare stacco in scaletta all’arrivo della mid-tempo, della power ballad o di qualsiasi altro escamotage diversificatore. Round 6 è fatto così, genuino, un po’ tutto uguale, senza pretese. E vi assicuro che molto di meglio ai Pro-Pain non è venuto fuori.
THYRFING – Urkraft
Maurizio Diaz: Stavo scrivendo che Urkraft è un disco di passaggio, spartiacque e blablabla, poi mi sono reso conto che a questa cosa ci credo relativamente. Mi sembra più sensato dire che è l’ultimo disco del periodo dei Thyrfing più cafoni e birraioli, nonchè l’ultimo registrato agli Abyss Studios di Peter Tatgren. Forse è il disco più smaccatamente heavy e quindi più semplice, se vogliamo, da inquadrare e da ascoltare, per quanto ci sia già una tendenza all’epica un po’ più raffinata, diciamo alla ricerca di un qualcosa che vada oltre al cinghialone della copertina del disco precedente. In generale si vede, rispetto al passato, un affinamento della loro musica che sfocerà in un balzo abbastanza verticale nel disco seguente. Adoro Urkraft proprio per questo suo essere liquido nel passare da un estremo all’altro, riuscendo a passare dalla cafoneria estrema dei cori da birreria o adatti a film fantasy di serie Z (ma come si fa a rimanere impassibili ascoltando il grido unleash your sword and face the skyyy?), a passaggi più riflessivi e genuinamente epici, come del resto accade in Home Again, in cui si arriva a toccare le stesse sponde battute dai Merciless, con il riferimento più immediato in Quorthon, ovviamente, che ha sempre costituito l’influenza prima, ma anche seconda e terza, dei nostri beniamini. La versione di questo disco che consumai fu quella con la bonus track, la cover di Over the Hills, che messa lì in chiusura ci stava come i cavoli a merenda, visto il pesante riffone della traccia conclusiva, però alla fine non riesco a non ascoltare con affetto pure quella. Se non ve lo ricordate, rimettetelo pure su visto che spacca a certi livelli, anche se dubito che molti di voi, come me del resto, abbiano veramente smesso di ascoltarlo.
MACTATUS – The Complex Bewitchment
Michele Romani: Questo disco dei Mactatus me lo ricordavo soprattutto per la terrificante copertina, un’inquietante donna nuda dall’aria un po’ trans vestita del solo cappotto che indica non so cosa, veramente una roba oscena. Il gruppo norvegese l’avevo scoperto in realtà anni prima con il bellissimo esordio Blot, un symphonic black metal vecchia scuola sulla scia di Gehenna, Perished, Obtained Enslavement ecce cc, con quel non so che di medievale a ricordare un po’ i primissimi Satyricon. Purtroppo la band di Skien non è mai riuscita a ripetersi su questi livelli, come conferma anche questo The Complex Bewitchment, ultimo full prima dello scioglimento. Anche i Mactatus caddero in quel vortice di rinnovamento che aveva colpito molti dei gruppi black metal norvegesi a cavallo degli anni 2000, tra chi prendeva derive simil-industrial e chi deathmetallizzava pesantemente il proprio suono, caso che riguarda proprio questo lavoro. Ma a parte questo sono proprio le composizioni senza nerbo che non vanno, portandoti a skippare in continuazione in cerca di qualcosa capace di attirare l’attenzione. Se volete scoprire i Mactatus andate senza esitazione sul primo, non ve ne pentirete.
CATAMENIA – Eternal Winter’s Prophecy
Gabriele Traversa: L’ho detto e ridetto, anche da queste parti: se non fossero mai esistiti i primissimi Dimmu Borgir, oggi il posto nei nostri cuori che spetta di diritto a perle come Enthrone Darkness Triumphant o Stormblast sarebbe occupato dai primi lavori di questi assatanati e sottovalutati finlandesi. Mio gruppo feticcio più o meno da quando ho presente che cosa sia il metal, con Eternal Winter’s Prophecy i Catamenia ci condussero di nuovo, per il terzo anno consecutivo e con una coerenza a loro stessi degna dei Cannibal Corpse, lungo lande desolate di permafrost a prendere a badilate di neve i giganti di ghiaccio e i troll con la capoccia grande che fanno a mazzate finché uno dei due non stramazza al suolo. I risultati si confermarono per la terza volta alti. Black sinfonico gelido, rapido e famelico come un lupo che ti si attacca ai polpacci e non si stacca finché non ti ha strappato di dosso la sua personalissima merendina. Nota a margine: qui, per la prima volta, si intravede il death melodico della seconda parte della loro carriera.
MUDVAYNE – L.D. 50
Edoardo Giardina: Mi piace pensare ai Mudvayne come a parte di quella sorta di seconda ondata nu metal, formatasi al di fuori della California, nel Midwest e nella Rust Belt. Se però i Disturbed avevano una proposta già estremamente edulcorata dai trend di mercato, L.D. 50, il debutto sulla lunga distanza del gruppo di Peoria mi ha sempre dato l’impressione di essere molto più autentico nel suo disagio post-industriale e nella sua post-modernità. Sì, anche qui c’è qualche episodio un po’ più radiofonico, come il singolo Dig, corredato da un videoclip fatto apposta per spaventare e incuriosire quindicenni (che con me, ovviamente, funzionò in pieno). Allo stesso scopo punta l’uso talvolta eccessivo dell’opposizione tra ritornelli calmi e puliti e strofe cattive e sporche, espediente che poi verrà usato così tanto nel metal più commerciale dei lustri successivi. In L.D. 50 però c’è anche la sostanza: ci si trova la violenza, l’hardcore, dei bei giri di basso, il funk, il crossover un po’ più classico e anche alcuni passagi chiaramente ispirati ai migliori Korn. L’unico suo vero difetto è che, figlio del suo tempo e del bruttissimo vizio di dover riempire per forza tutto lo spazio dei CD, dura davvero troppo e nella sua seconda metà perde tutto il mordente che ha nella prima. Il problema dei Mudvayne, invece, è che poi finiranno per suonare proprio quel metal commerciale di cui sopra.
CEMETARY 1213 – The Beast Divine
Trainspotting: A parte lo straniamento dell’inizio molto simile a quello di Episode degli Stratovarius, The Beast Divine non è molto diverso da come ce lo si aspetta. Ricapitoliamo: nei primi anni Novanta Mathias Lodmalm fonda i Cemetary (senza numerino), autori di cinque album fino al 1997. Dopodiché scioglie il gruppo e forma i Sundown insieme all’ex Tiamat Johnny Hagel, virando lo stile verso una specie di gothic-industrial metal facilone e leggerino. Il progetto Sundown si scioglie dopo due album (Design 19 e Glimmer) e vengono riformati i Cemetary, al cui moniker è però aggiunto il numerino 1213 perché sì. Il numerino cadrà col successivo e ultimo album, Phantasma, a nome Cemetary. The Beast Divine quindi è il legittimo successore del progetto Sundown, da cui riprende atmosfera e coordinate stilistiche: canzoncine brevi e lineari, con elettronichina e rumorini di contorno, una specie di riedizione di Marilyn Manson – Nine Inch Nails – Rob Zombie a tutto vantaggio delle programmazioni delle discoteche rock. Come per i Sundown, nel disco si alternano momenti assai godibili ad altri meno ispirati e, come prevedibile per una proposta di questo tipo, dopo vent’anni il passare del tempo è stato impietoso. Peccato però, perché un album con i pezzi migliori dei due Sundown e di The Beast Divine sarebbe potuto essere molto apprezzabile.
ARCANA – The Last Embrace
Michele Romani: Verso la fine del millennio a molti black metallari dell’epoca (me compreso) era presa la fissa per le pubblicazioni della Cold Meat Industry, label svedese, non più attiva, specializzata in neo folk e dark ambient. Tra i principali esponenti ricordiamo Mortiis, Raison D’Etre, Brighter Death Now, gli allucinanti MZ 412 e questi Arcana, che erano quelli di ispirazione maggiormente neoclassica e più intrisi di tematiche medievali. The Last Embrace è il loro secondo disco e per quanto mi riguarda il loro migliore, tre quarti d’ora di etereo dark ambient ispiratissimo partorito dalla mente geniale di Peter Bjargo, da sempre il factotum del progetto. Non ci sono spiragli di luce in queste composizioni, una sorta di colonna sonora ideale per un’ipotetica marcia funebre dell’umanità senza più ritorno. I brani singolarmente sono uno più bello dell’altro, tra campane a morto, favolose voci femminili, inquietanti tastiere e ispiratissimi tocchi di chitarra acustica. Ascoltate pezzi come Diadema, Hymns of Absolute Deceit o la splendida Diadema per capire di cosa parlo. A mio parere una della più grandi, se non la più grande, band in assoluto nel proprio genere.
Quel coso brutto non è l’ultimo disco dei Mactatus (The provenance of cruelty non è affatto male, tra l’altro). Il canto del cigno è di due anni dopo: “Suicide”. Chiaramente dopo un simile abominio non mi ci sono nemmeno accostato.
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