I terrificanti automatismi delle discoteche rock anni Novanta

Sequel apocrifo degli articoli numero uno e due, quello di oggi si concentra sulla figura del DJ prima di concludere con un quarto e ultimo capitolo riguardante la fotografia.

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Una volta andai a un concerto con appresso il cd di Agent Orange dei Sodom. Non era affatto un concerto dei Sodom e non avevo niente da far autografare a nessuno. Avevo semplicemente i coglioni fracassati da ciò che ogni benedetta settimana sentivo mettere al DJ di quel locale. Voi che come me avete vissuto parte dei Novanta, e voi che li avete vissuti proprio tutti, avrete ben presente che in quegli anni il problema maggiore era costituito dai tormentoni metallari da rockoteca. Era positivo che locali del genere esistessero ancora in gran numero; il guaio, spesso, era però rappresentato da chi compilava la scaletta post-concerto.

Ultimamente ho frequentato il Circus a Scandicci, anche se, purtroppo, non con la costanza sperata. La scaletta che anticipa i concerti al Circus è sublime, se sei un appassionato di heavy metal classico: c’è qualche classico di Ozzy Osbourne, ci sono obbligatoriamente gli Anvil e non manca mai qualche chicca che un DJ deve pur concedersi, per il proprio gusto personale oltre che per stimolare un po’ i presenti.

In passato però frequentavo ben altri locali. La sala concerti poteva essere la stessa in cui assistevi al DJ set, con in mano un cocktail composto per due terzi da acqua naturale e per il restante dalla peggiore delle birre, il tutto consegnato in regolari fusti come per scaricare la responsabilità dell’abominio sui produttori. All’epoca si fumava al chiuso, e quindi poteva essere arduo prendere le misure su parametri vitali come l’affollamento, il tipo in procinto di vomitare dal quale tenersi a debita distanza ed eventuali presenze femminili non alla guida di vettura Kassbohrer Setra. Andavi alla cieca sperando di occupare una zona sufficientemente vicina a quel divanetto, temporaneamente libero, sul quale saresti collassato nel momento di massima cottura. E intanto partiva sistematicamente Symphony of Destruction, con una probabilità del dieci per cento che dei Megadeth venissero proposte Sweating Bullets o Skin O’ my Teeth, o che il DJ mettesse la sua personalissima b-side, questa sconosciuta Peace Sells, perché dotata di quel ritmo accattivante. C’erano altre presenze fisse, anzi ce n’erano fin troppe, e credo che il compito del DJ fosse solo quello di carpire le nostre reazioni e stabilire che cosa rimettere e cosa no: in poche parole, per colpa di sette o otto assidui frequentatori che realmente ballavano sull’heavy metal, divenne impossibile godersi qualcosa di diverso dalla solita e impenetrabile playlist.

Un giorno mi alzai e gli chiesi potresti mettere qualcosa dei Sodom?

“Chi?”

Aveva almeno sei o sette anni in più di me, e sicuramente si era appassionato alla materia con cui lavorava fin dai tempi di The Years of Decay e Never, Neverland.

La settimana seguente arrivò di gran carriera il cd di Agent Orange, e mi fu concessa la prima e omonima traccia: un tizio, di certo non lo stesso ballerino classico famelico delle note di Enter Sandman o Walk, si alzò e iniziò a distruggere tutto e tutti. L’avevo combinata grossa, avevo fatto cambiare una virgola a un sistema ripetitivo e collaudato ed era scoppiato un casino infernale.

Eppure, prima o poi, toccava sempre al metal estremo, perché il DJ conosceva due o tre gruppi e di tanto in tanto il coraggio lo spingeva ad azzardare una Hammer Smashed Face o una Dead by Dawn. Sempre quelle, sia chiaro. Una volta mise su Mourning Palace – probabilmente conosciuta su Sgrang lo stesso pomeriggio – e fu come se fossero apparsi i Craft di Terror Propaganda. Fu stupore generale, gioia collettiva. Il risultato medio da “pezzo estremo in rockoteca” era però il seguente: la pista si svuotava all’istante, e inoltre, nel mezzo di essa avveniva il respawn di questi tre elementi irriconoscibili, presi a scapocciare a testa bassa come se radiocomandati o alimentati da pile a torcia. Al DJ questo non piaceva affatto: la pista doveva rimanere costantemente piena, e quelle due o tre figliole carine rischiavano con ciò di migrare nello stanzone adiacente a godersi i Depeche Mode, o nel peggiore dei casi i The Clash. L’equivalente di un disastro batteriologico o di una petroliera che si divide in due davanti a Ischia a metà giugno.

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E quindi l’esperimento fallì. Si ritornò subito a Roots Bloody Roots e agli altri tormentoni degli anni Novanta, quelli che un po’ ci hanno cresciuto, ma che in certe situazioni, così come alla TV quando speravi che passassero Heartwork a mezzanotte e mezzo, quasi ci rimanevano sui coglioni. Ingrati noi? Troppa ciccia al fuoco? Chissà come stavano davvero le cose.

Segnalo, per concludere, alcune tipologie di individui che popolavano locali come quello con la speranza che non vi riconoscerete in uno di essi:

Il fan dei Death – alla misera concessione del death metal non per mezzo di Revel in Flesh, ma di un pezzo qualunque da Symbolic, egli si alzava e iniziava a mimare tutto alla chitarra, strumento che all’ingresso aveva sicuramente richiesto di poter portare dentro senza ricevere risposta affermativa da parte dello staff.

L’unica fica del locale – il fatto che nessuno ci provasse penso si riconduca a motivi unicamente statistici: doveva essere per forza fidanzata, motivo per cui avvicinarsi avrebbe comportato con certezza lo scoppio d’una rissa o l’attivazione di sofisticati sistemi remoti d’allarme.

Il vomitatore seriale – una figura che ho impersonificato a più riprese, in particolar modo quando mi avvicinavo a cocktail a me sconosciuti bevendoli più volte, come se non fossi certo di aver colto alcune loro peculiarità o retrogusti amarognoli. Solitamente egli circondava la sua poltroncina di pozze di vomito come il tizio di Banca Mediolanum, certo, con questo sistema, di ritrovarla libera fino al venerdì successivo.

La disgraziata recluta – conosceva soltanto Pantera e Sepultura perché qualche amico lo aveva avvicinato al metal nella maniera più inopportuna. Pantaloni mimetici fin sotto le ginocchia, scarpe da ginnastica, maglietta di Chaos A.D. e capelli rigorosamente all’indietro lavati almeno un mese prima. Scandalosi tentativi di pogare su I’m Broken in cui nessuno gli andava mai dietro.

L’headbanger cronico – il motivo per cui potreste trasformarvi da Jason Newsted in George Fisher senza l’ausilio di una app di face morphing da due soldi, unendo le sembianze del collo del secondo ai problemi cervicali del primo. Si dividevano in due gruppi principali: quelli che tiravano dritto come ossessi per tutta la notte, su Fade to Black come su Domination, e quelli che a un certo punto mollavano. Io a un certo punto mollavo, e i primi non li ho mai capiti sebbene avessero tutta la mia stima. (Marco Belardi)

4 commenti

  • Aspetto il quarto episodio sulla fotografia. Sun questo niente da dire, non ho mai frequentato discoteche, neanche quelle “rock”. Mi han portato dentro una volta sola, ubriaco ma già vomitato, e messo giù in un divanetto. Così mi han detto, almeno…

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  • mai messo piede in una discoteca rock, ma al punto sulla disgraziata recluta hai descritto il mio vestiario approssimativamente dai 14 ai 25 anni (oddio, non che ora…)

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  • Alberto Massidda

    RIP Blackout Rock Club (Roma S.Giovanni)

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  • a Milano rolling stones, zimba/rainbow, tunnel, e tanti altri ormai scomparsi. Ottimo pezzo, grandiosa capacità di descrivere pezzi di giovinezza metallara.
    grazie

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