Il punto di rottura dei PANTERA: Power Metal

Il termine “album di passaggio” è molto abusato nel metal. Rappresenta quel momento in cui le cose non stavano più come in passato, ma ancora non disegnavano l’essenza definitiva di una band che si stava evolvendo rapidamente.

Nel caso dei Pantera, definire c0sì Power Metal è tanto giusto quanto sbagliato: da una parte, al suo interno vi erano ancora elementi ricollegabili ai primi tre lavori; dall’altra invece, il sound di Cowboys From Hell – definito all’unanimità il loro punto di rottura totale – era già presente in piccole dosi e decifrabile fra le righe in pezzi come Over And Out. In linea di massima Power Metal è sì un album di passaggio, ma i Pantera erano già grandi ed altrettanto grande fu il loro sottovalutato lavoro del 1988. Il primo con Phil Anselmo alla voce; il primo della discografia dei texani a cui ho sempre dato enorme considerazione.

Power Metal è come una fanciulla campagnola un po’ maiala che ha scoperto di avere due tette gonfie come boiler elettrici da bagno, e che dopo essersi fatta palpeggiare dai contadini della zona si accinge a trasferirsi in città per studiare. E si prepara perciò a scatenare un olocausto pubico di non quantificabili proporzioni. Power Metal sono i Pantera che si trasformano in qualcosa di enorme; ma senza Terry Date e la Atlantic, e con ancora al collo il guinzaglio legato alle amate radici hard rock e glam, non si renderanno conto – ancora per poco – che cosa fosse cambiato inserendo al microfono un volto nuovo di futura caratura mondiale, e provando di fatto a seguire i nuovi trend esplosi in California. Suscitando di lì a poco le ire incontrollabili di un rosicone certificato come Dave Mustaine, che li accuserà di avere semplicemente seguito il suo sound e di conseguenza quello di Hetfield, mentre andavano piuttosto rivoluzionando il mondo del metal a braccetto con i Sepultura

A fungere da scure su questo disco è l’impietoso confronto fra prima e seconda metà della scaletta: nell’ultima porzione farà bella figura soprattutto un brano elegante e ruffiano come Hard Ride – il suo, fra i più sentiti e coinvolgenti ritornelli mai scritti dalla band di Dimebag Darrell – mentre le prime cinque, di fatto, si erano rivelate una mazzata di seguito a un’altra. A partire da Rock the World, una delle cose più anthemiche immaginabili nonché ottimo ponte con il recente passato; passando per l’US metal veloce ed efficace della title-track il cui stile è ottimamente riassunto e descritto dalle due, sintetiche parole che la intitolarono. In We’ll Meet Again si rallenta di colpo e si gioca a fare i Judas Priest con risultati che, ad oggi, non ho ancora ben capito quanto personalmente apprezzi. Il pezzo ha un suo perché, ma non è affatto del livello delle due che la seguono: Over And Out, uno dei momenti più aggressivi e dinamici dell’intero album, e Proud To Be Loud, un capolavoro assoluto il cui merito in fase di stesura appartiene a Marc Ferrari, che la pensò per il quarto album dei Keel del 1987, girandola poi di fatto ai Pantera. Ne esiste una versione registrata dalla band originaria nel 1998 sulla loro sesta pubblicazione in studio, ma l’interpretazione dei texani è a mio avviso di un altro livello. Ancora aggressivi con Down Below e Death Trap, ma il calo di intensità è solamente dietro l’angolo, già percepibile, e la storia si ripeterà anche in molti dei futuri lavori (il più continuo, per il sottoscritto, è e rimarrà The Great Southern Trendkill)

Sentitevi Power Metal e godetevi uno dei più significativi album di passaggio della storia della musica che amiamo: serve a capire come una band sia arrivata a toccare le inimmaginabili vette raggiunte in futuro, che cosa ascoltassero all’epoca i loro componenti, e quanto sia importante a volte sostituire semplicemente una pedina con un tipo che per primo vestirà scarpe da ginnastica bianche alte e altre cazzate del genere, avvisaglie con cui capiremo che il tempo di voltare definitivamente pagina è arrivato. Band indimenticabile, a partire da questo disco e non necessariamente dal seguente. (Marco Belardi)

7 commenti

  • anni di fermento e voglia di vivere non solo nella musica.oggi vedo solo pattume, lo so e’ una frase fatta di chi invecchia(male) ma e’ cosi’ che la penso ! saluti.

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  • Io sono della schiera di quelli che lo trovano insignificante, e si stupiscono del martello da guerra che diverranno a breve. Ho letto da poco la bio di Darrell, risulta davvero interessante.

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  • NPower Metal non è facile da trovare, tant’è che neanche appare nel sito della band, addirittura i primi 3 album pre-Anselmo neanche sono stati mai rilasciati ufficialmente su CD.

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  • E però la tesi dell’album di passaggio difficilmente spiega perché il gruppo abbia sempre voluto nascondere il suo passato, rimanendo sempre reticente nel puntualizzare che “Cowboys From Hell” non era il suo primo album.

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  • Bellissimo album di Heavy Metal statunitense, lo ascolto sempre con affetto.

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  • Logo, copertina e font del titolo sono bellissimi. Scoccia dirlo, ma è roba d’altri tempi.

    Quanto al disco in sé, si lascia ascoltare e la maggioranza dei metallari dovrebbero trovarci qualcosa delle proprie radici. Come detto sopra, era un’epoca di grandi cambiamenti, e si deve capire che per arrivare a “Cowboys” e a tutto quello che c’è stato dopo si passò anche di qua.

    Interessante anche il titolo, “Power Metal”. In effetti nei primissimi anni 90 la definizione “power” la si sentiva dare a gruppi tipo Metal Church e Pantera, per l’appunto, prima che venisse codificata per il genere di Kay Hansen e compagni.

    Peccato comunque che il periodo anni Ottanta dei Pantera sia stato completamente dimenticato e anche rinnegato dal gruppo. Sarebbe una testimonianza importantissima.

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  • Pingback: TIM CALVERT e i primi, tormentati anni Novanta | Metal Skunk

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