Avere vent’anni: NINE INCH NAILS – The Fragile

Nel 1997 Trent Reznor era finito nella classifica del Time dei 25 personaggi più influenti degli Stati Uniti – non solo musicalmente: in assoluto. L’elenco comprendeva politici, economisti, medici, senatori, professori universitari, direttori di quotidiani, segretari di stato, imprenditori. Un solo altro nome a rappresentare il mondo della musica: il cantante-producer-discografico Babyface, sovrano assoluto del più bieco, sfavillante, caramelloso r&b sfasciaclassifiche da diabete istantaneo, da Whitney Houston a Toni Braxton alle TLC a più o meno qualsiasi altro nome chiunque sia stato giovane negli anni ’90 avrà ascoltato almeno una volta nella vita, spesso involontariamente (al supermercato, in sale d’attesa, girando la manopola dell’autoradio durante un ingorgo etc.). Nell’articolo Reznor veniva definito “l’anti-Bon Jovi”, questo a dire il livello di fama e popolarità raggiunto dall’uomo in meno di dieci anni. Merito di un sound letteralmente inconfondibile, costruito con perizia prossima al concetto di perfezione, cultura enciclopedica e maniacale attenzione al dettaglio più recondito, rubando le intuizioni migliori dai Ministry come dalle intere scene industrial, post-punk e new wave precedenti, con ripetuti innesti metal (particolarmente prediletto il thrash metal più cervellotico), fondendo tutto in un immaginario cyberpunk lontano da tecnicismi da hacker – avvincenti soltanto sullo schermo verde di un terminale collegato a una BBS farcita di nerd – e digeribile per tutti, epurando le parti ostili in ritornelli dalla presa immediata e, quel che più conta, eterna: impossibile cancellare dalla memoria Head Like a Hole, Something I Can Never Have (prova generale della successiva Hurt, il biglietto per l’eternità), i singoli dell’EP Broken e qualsiasi pezzo da The Downward Spiral, tra i best-seller più improbabili di sempre, registrato nella villa dove vennero trucidati Sharon Tate e i suoi commensali, un concept letteralmente da suicidio con testi irriferibili e videoclip pluricensurati.

Dopo avere assemblato la colonna sonora di Natural Born Killers, decisiva per il film tanto quanto le immagini, viene chiamato da David Lynch per lo stesso trattamento sul film che sta per girare: Lost Highway, un delirio cooptato dall’intraducibile copione di Barry Gifford, veicolo per una serie di visioni allucinanti, il personaggio più inquietante di sempre, comparsate di Henry Rollins e Marilyn Manson, sopra ogni cosa una serie di canzoni che definiscono il film, che diventano il film stesso. I’m deranged non più un pezzo da Outside di David Bowie: i titoli di testa. La prima uscita pubblica dei Rammstein, allora sconosciuti al di fuori della Germania: il motivo che da solo giustifica la loro stessa esistenza. Un inedito degli Smashing Pumpkins, ai tempi divorati dalle droghe post-Mellon Collie, la deboscia del tutto fuori controllo. Un numero di 45 secondi insieme a Sleazy (sicuramente l’unica apparizione dell’uomo in un film mainstream, l’equivalente di Burzum nella colonna sonora di Gummo). C’è anche The Perfect Drug, inedito a nome Nine Inch Nails; è la prima volta che Reznor compone su commissione e ben presto capisce che non è il suo. Porta a termine il lavoro nei tempi prestabiliti ma non è contento, per qualche motivo il risultato non lo soddisfa, da allora non ne vorrà più sapere – se non altro utilizzando il nome Nine Inch Nails. Collabora con Bowie per Earthling, il disco jungle, l’ultimo sussulto del Duca prima di una serie di brutture inenarrabili fino al canto del cigno: il suo remix di I’m Afraid of Americans finisce in classifica, il video in heavy rotation, nelle interviste congiunte sembra lui il boss, Bowie un vecchietto capitato lì per caso. Parallelamente, troppe droghe, troppo alcol, ancora troppe droghe: cade in depressione, non dorme, non esce di casa per settimane, ogni notte rimette su la VHS di Taxi Driver, si immedesima nel ruolo di Robert De Niro.

La musica è la cura: lentamente, la materia che andrà a formare The Fragile gli si forma in testa; registra alcuni demo in totale solitudine e inviolabile autarchia, suonando tutti gli strumenti, producendo, progettando l’artwork di un disco ancora senza titolo; in un secondo momento richiama i suoi per risuonare quelli che saranno i pezzi veri e propri, oltre a uno stuolo di musicisti, tecnici e ingegneri del suolo letteralmente spaventoso per nomi e numeri, da Dr. Dre a Steve Albini, da Adrian Belew a Alan Moulder, da Bill Rieflin a Page Hamilton, ognuno a contribuire su uno o più pezzi, uno o più tasselli nel quadro completo che esiste solo dentro la sua testa. Quando The Fragile finalmente si manifesta, l’uomo è guarito e il mondo non è pronto per quel che sta per abbattersi su chi vorrà ascoltare (moltissimi all’inizio, sempre meno poi, ai concerti dipende): 103 e rotti minuti suddivisi in due CD, un unico flusso dove convergono tormentoni da classifica, numeri industrial metal per le masse, lunghe fughe ambient dove il beat si sgretola lentamente e viene colonizzato il posto lasciato vacante da giganti come KLF e Orb (dissolti i primi, creativamente stecchito il secondo), laceranti squarci per piano solo dove, ancora più che Debussy (chiamato letteralmente in causa in La mer), è piuttosto il fantasma di Erik Satie a materializzarsi; oltre a una serie infinita di miracoli e trick produttivi che testimoniano la maestria assoluta di Trent Reznor in studio di registrazione e la fine definitiva del suo stato di grazia, tutto in una volta, tutto insieme. Come tutto in una volta tutto insieme andrebbe ascoltato The Fragile, per perdersi e ritrovarsi infinite volte nei meandri sempre nuovi e sempre diversi, nelle infinite sfumature che spariscono e riemergono e mutano forma e riemergono, in un prodigio produttivo che è la finalizzazione suprema del progetto audiovisuale portato avanti tramite Nine Inch Nails, l’etichetta Nothing, la numerazione Halo – che continuerà, ma di cui tutti i progetti successivi saranno poco meno di una pallida ombra.

Esce a fine settembre 1999, in Italia arriva sfasato di qualche settimana: le recensioni, tutte adoranti, si allungano fino a dicembre, il magistrale video di We’re in This Together in rotazione da lavaggio del cervello a ora solare già in atto, una data milanese sold-out a novembre – la seconda nell’estate 2000 all’interno di un surreale “Monza Rock Festival” dove il gruppo principale della prima sera erano i C.S.I. – il secondo singolo Into the Void a inizio 2000. È l’ultimo disco “importante” dei Nine Inch Nails e del millennio, capace di polarizzare attenzioni e opinioni come poi soltanto le superstar del 21esimo secolo in termini di miliardi di visualizzazioni su youtube; altri pianeti. Persa per sempre la vena, Reznor da un pezzo si è riciclato compositore di colonne sonore, portando a casa pure un Oscar. Nine Inch Nails un ricordo lontano, ma quanto importante, quanto fondamentale finché è durata. (Matteo Cortesi)

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