BEHEMOTH – I Loved You At Your Darkest

Qualche volta, la sensazione che ti trasmette la musica dei Behemoth è la stessa di quelle catene di ristorazione addobbate come musei, che ti vendono la biografia del fondatore in formato cartaceo con copertina rigida, ti mostrano quadri che ritraggono a caratteri cubitali gli ingredienti a chilometro zero, e ti fanno pagare caro un qualcosa che – in fin dei conti – è solo di poco sopra alla media di un qualunque fast food italianizzato in cui hai pranzato solo ed esclusivamente perché dovevi fermarti a pisciare. Una volta uscito di lì, avrai ricevuto abbastanza infarinatura e speso abbastanza soldi da riuscire soltanto ad ammettere che ti è piaciuto, ma nel tuo profondo sai benissimo come stavano le cose. Sarà sempre un po’ così con questi pazzi polacchi: impossibile glorificare in tutto e per tutto un loro disco, ma che pacchia infinita; roba da pop corn, coca cola e vediamo che cosa combinano adesso.

Il presupposto per affrontare un album come questo è uno solo: Nergal ha realmente capito tutto. The Voice Of Poland, gli articoli sulle riviste di gossip, i bambini che gli cantano i singoli, le crocche cruciformi per cani e tanto altro ancora. Tutti i motivi per cui potreste odiarlo sono in realtà il pane mediatico di cui disponevamo a sacchettate intere fino a una quindicina di anni fa. Oggi abbiamo seriamente bisogno di un tipo così, soprattutto perché, per colpa dei social network, un’importante fetta della musica che seguiamo e amiamo ha deciso di ritagliare all’immagine più di quanto venga investito in produzioni discografiche, e in tutte quelle belle cose – concrete – che alla fine ci consegnano un prodotto che ascolteremo e riascolteremo. L’usa e getta radicato alla base di tutto quanto, un concetto accettato e assodato che ci scatena alla ricerca costante di novità, ma senza darci il tempo materiale per approfondire ciò che metteremo in cuffia. Se però le stronzate che fa Nergal per far parlare di sé, coincidono con la pubblicazione di uno degli album più importanti del metal estremo degli anni Dieci, The Satanist, allora vogliamo che ne faccia molte altre ancora: ciambelle da mare dove una testa caprina sostituisce la più banale e superata paperella, arbre magique con raffigurato il logo dei Behemoth che rilasceranno all’interno del vostro abitacolo un pungente odore di muffe e marcio, e chissà quanto altro ancora potremo acquistare su Wish. Ci andrà bene tutto, se poi tu pubblichi The Satanist. La componente mediatica, unita all’uscita di un lavoro del genere, spalanca le porte del metal estremo al ragazzino che ascolta gli Avenged Sevenfold e pure al suo vicino di casa, che fino a ieri era ignaro di tutto ciò. È la stessa, identica situazione creatasi con Cradle Of Filth e Dimmu Borgir tra il 1997 ed il 2002 circa, quel dualismo fatto di botta e risposta indecenti, e di album che peggioravano di volta in volta senza lasciare cicatrici, perché nel frattempo si perdeva il tempo a parlare dei cappelli da cowboy neri indossati da Shagrath e Silenoz per pubblicizzare una bruttura come Spiritual Black Dimension. Valeria Rossi ispirò i loro terribili titoli, loro ispirarono intere generazioni future di metallari a passare oltre e conoscere, fra i tanti, i Craft o gli Shining. Il coraggio di dar torto a Nergal, oggi, non va nemmeno cercato.

"Per quanto devo tenerla 'sta roba? Dai ancora cinque minuti. Io me la tolgo. Inferno vaffanculo, vedrai che ora il fotografo scatta: guarda quant'è bravo il bassista. Ma mi fa freddo."

E dato che ho nominato la band delle teste luccicanti di Silenoz e Galder, cosa differenzia – di preciso e in questo momento – i Dimmu Borgir dai Behemoth? Il loro passato recente. I primi venivano da alcuni album indecorosi che neanche nominerò perchè ho seriamente paura che appaiano, e con Eonian potevano solo andare a migliorare, oppure farla finita lì. Hanno realizzato un disco contenente una manciata di pezzi discreti, ma anche troppo tamarro per essere vero; ma almeno sono tornati a rasentare risultati definibili un po’ a forza sufficienti. I secondi avevano la responsabilità di confermarsi dopo The Satanist: il loro nuovo album rischia perciò di creare una nuova parabola discendente dopo quella ottenuta in seguito all’effetto sorpresa di Satanica ed al successo smisurato di un lavoro come Demigod, che piacque più o meno a tutti, ma a me parve più che altro una netta standardizzazione in favore degli under 18 del loro sound. Ognuna di queste release fu seguita da capitoli che non riuscirono a sorprendermi neanche un po’, anche se ormai il gruppo di Nergal ed Inferno era totalmente maturo e capace di sfornare pezzi che avrebbero a fatica abbandonato le scalette future, come Christians To The Lions o Slaves Shall Serve. Il risultato di I Loved You At Your Darkest, oltre ai videoclip sempre più provocatori e all’attenzione verso i carnivori come i lupi di Wolves Ov Siberia o il vostro insaziabile cucciolo di Jack Russell, è che i Behemoth hanno realizzato un altro buon disco, che è sì lontano dalla delusione provocatami da EvangelionThe Apostasy; ma anche che The Satanist era a sua volta particolarmente più bello di esso. I Loved You At Your Darkest è il naturale proseguimento del cammino intrapreso dal suo vicino antenato, spinge maggiormente sulla componente rock, e qui mi verrebbe da dire che i Behemoth in quattro anni hanno fatto meglio di quanto i Satyricon abbiano messo in pratica da Volcano in poi. Solo che i singoli mi convincono in parte e non oltre, e la seconda metà del disco è un po’ povera per non farsi notare.

Ecclesia Catholica Diabolica è uno degli esempi lampanti dell’evoluzione del gruppo, e il suo finale vale da solo l’acquisto dell’album. Il pezzo in cui la Isoardi di Polonia balla coi lupi per cucinare vegetariano, ma viene sbranata, nella sua clamorosa semplicità è anche uno di quelli che funzionano meglio; ce ne sono altre strutturate in maniera simile ma non riescono proprio a decollare. Gli altri momenti col freno a mano tirato non sono poi così sorprendenti, ad esempio Bartzabel potrebbe essere tranquillamente un brano dei Moonspell, non sfigura ma non suscita nemmeno il necessario clamore. God=Dog a risentirla per l’ennesima volta non è per niente brutta, funge da perfetto collante fra lo stile classico del gruppo e qualche cacata fuori dal vaso tipo i cori dei bambini, ufficialmente la trovata numero uno per sfidare i Dimmu Borgir di Eonian sul piano del “e ora che cazzo facciamo?“. Sabbath Mater è un altro episodio molto riuscito, ma complessivamente credo di essere riuscito a godermi metà album o poco più, in cui infilo di diritto pure quella Havohej Pantocrator che inizialmente mi aveva lasciato del tutto indifferente. Gliela passiamo, perché in fondo il loro ruolo di locomotiva lo stanno svolgendo piuttosto bene, e per essere attivi dai primissimi Novanta non possiamo assolutamente chiedergli di più. The Satanist era comunque un’altra storia, ma adesso continuare a mutare il giocattolo e spingerlo ancora oltre potrebbe risultare una cosa davvero rischiosa. Il punto fermo di quest’album, di questa band e della attuale scena estrema resta naturalmente Nergal, uno che riesce a prendersi o prenderti per il culo con i croccantini intitolati come l’ultimo singolo registrato dalla sua band, e, mentre tu li cerchi per vedere quel video in cui ne descrive le proprietà organolettiche, ti spunta fuori che hanno pubblicato un singolo omonimo e un album che lo contiene; ed a quel punto non potrai non sentirlo perché è roba dello stesso tipo dei croccantini. Puoi anche non conoscerli, finirai probabilmente per farlo. Genio, col compromesso che non amerò mai totalmente la sua musica tranne quel The Satanist che, fin dal primo istante, temetti non si sarebbe più ripetuto. (Marco Belardi)

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