Non ha un pezzo brutto ma fa schifo lo stesso: DIMMU BORGIR – Eonian
Distinti suoni metallici che ricordano l’introduzione di Blinded By Fear degli At The Gates, probabilmente un campionamento delle apparecchiature siderurgiche in funzione presso l‘ILVA di Taranto. Ed ecco che Eonian ha inizio…
Ho avuto paura dei ragni da ragazzino: in pratica, se ce n’era uno in una stanza non ci entravo finché qualcuno – giunto in mio aiuto – l’avesse definitivamente eliminato; oppure tenevo lo sguardo fisso sull’aracnide, con la testa all’insù come alle poltrone della prima fila di un cinema, al fine di scorgere eventuali suoi movimenti in mia direzione ed evitare che mi finisse codardamente addosso. Oggi sono appassionato di fotografia macro e mi capita pure di ritrarre i famigerati ad otto zampe, e credo che le notti passate in tenda a pescare mi abbiano non poco aiutato a superare o perlomeno ridurre il peso di quella dannata quanto insensata fobia. In compenso sono mesi che convivo col terrore di ascoltare Eonian, il nuovo album dei Dimmu Borgir. I motivi, dovendo a tutti i costi fare una scelta tra i vari ed eventuali, sono principalmente due: la bruttezza illimitata di dischi già lontani come In Sorte Diaboli ed Abrahadabra, e la totale mancanza di sensibilità da parte del gruppo norvegese nel mostrarsi – in quelle precise condizioni – nei due videoclip ufficiali che hanno preceduto la release date.
In sostanza ero certo di scriverne un pezzo non tanto per il gusto di stroncare un disco che si annunciava essere ben oltre il concetto di brutto, ma perché i Dimmu Borgir sono per me un gruppo che – in annate già lontane – è stato a più riprese capace di incollarmi alle cuffie per serate intere anche con album difficilmente difendibili che, come Spiritual Black Dimensions, in una prima istanza mi convinsero di essere molto più belli di quanto ritenga oggigiorno. Non cancellerò mai dalla mente pezzi come Grotesquery Conceiled o Reptile, nonostante le tastiere da censura di Mustis e la produzione orripilante di Peter Tagtgren mi causino tuttora frequenti incubi notturni; ed in un certo senso mi sento debitore verso il gruppo di Shagrath e Silenoz perché, pur spegnendosi lentamente all’indomani di Godless Savage Garden, i due hanno comunque avuto il merito di avvicinare un sacco di gente al metal estremo per numerosi anni. E probabilmente il loro compito, quel compito, non è ancora del tutto terminato qualunque cosa se ne possa dire in negativo: il loro problema, appunto, è che sono dei tamarri allo stato terminale, e che una volta aggregato alla combriccola un personaggio come Galder non ci sia generalmente stato più un cazzo da salvare – un po’ come il gruppetto di Amici Miei che incontra il Sassaroli e la situazione, d’incanto, degenera del tutto. Nel 1999 questa sensazione di crollo imminente venne acutizzata dalle foto per le riviste, con indosso enormi cappelli da cowboy neri, occhialoni scuri da biker che va a mangiare la schiacciata alla mortadella al Passo della Consuma, e booklet del disco con gli ami da pesca infilati fieramente nella ciccia. E, da sensazione, la loro caduta in balia della trasformazione del blackster in un essere metrosexual che butta tutto in caciara, divenne certezza.
I Dimmu Borgir sono come un gruppetto di campagnoli che trucca la vecchia Fiat Uno in versione Abarth, per poi andarci a rimorchiare fuori da una discoteca con selezione all’ingresso. Sono come il cane da esposizione favorito per la gara di bellezza che trova una pozza di fango e merda, ci si rotola dentro, e infine torna dal padrone un attimo prima di competere davanti ai giudici. Sono un gruppo che, a distanza siderale dal loro ultimo album accettabile – Death Cult Armageddon, che non mi piace neanche un po’ ma non posso affatto dire che sia brutto – finalmente torna con un lavoro carico di buon materiale, e te lo propone nella peggiore maniera possibile. Perché se il problema lampante di Spiritual Black Dimension era la produzione, oltre ad una certa pomposità di fondo che di lì in poi non si sarebbe più arrestata e al fatto che era troppo inferiore agli standard compositivi ammirati in Enthrone Darkness Triumphant, qua il fattore limitante sono semplicemente loro tre, escludendo ovviamente da ogni responsabilità i rimanenti tizi a contratto co.co.pro. coinvolti nella sua lavorazione. Innanzitutto, e ci tengo a sottolinearlo, sopperire alla mancanza di ICS Vortex con quei coretti pacchiani in stile Therion infilati in pezzi che non ne hanno mai avuto bisogno, è un pugno devastante all’altezza dello stomaco. Non si possono sentire eppure sono ovunque, non c’è canzone in cui saggiamente i Dimmu Borgir siano giunti alla conclusione che potevano farne a meno; come quando noleggi un’auto in vacanza, ti accorgi che non ti serviva a un cazzo, finisci per prenderla anche per andare a farti un gelato dietro l’angolo e al ritorno non ritrovi un posto che sia uno per parcheggiarla. Ci sono delle cose preoccupanti in Eonian, come aprire Alpha Aeon Omega con una parte sinfonica che potrebbe essere la colonna sonora di un film sull’equipaggio di una baleniera spagnola che, naufragata al largo dell’Argentina e in preda a una fortissima tempesta oceanica, scoprirà Gesù; per poi proseguire il brano con la maggiore dose di blastbeat utilizzata dai norvegesi negli ultimi dieci anni. Queste sono scelte che, con un minimo sindacale di buon senso dentro al cranio, non si fanno.
Così come mi fanno stare male i serpenti che sibilano a un’intensità di cinque decibel all’inizio di Council of Wolves and Snakes, e subito dopo gli rispondono i lupi presumibilmente da una vallata adiacente (!!!), oppure l’effetto iniziale dello stesso pezzo, tipico da film italiano sulla mafia anni ’70 dove il poliziotto cammina nella piazzetta del paese e anche le vecchie, da dietro le finestre, sembrano in procinto di sparargli addosso caricatori su caricatori. O i titoli, da semi-concept a sfondo temporale, le cui parole sembrano vomitate a caso da un generatore casuale con tema postale-aziendale che ha già ferito il trainspotting qualche settimana fa. I Am Sovereign è il simbolo più rappresentativo dell’accozzaglia di bei momenti e stallatico per la concimazione organica che il gruppo norvegese ha fortemente voluto mettere in atto in Eonian. E tutto quanto sembra essere stato preso davvero sul serio: mettiamo per un attimo da parte gli otto anni trascorsi dall’imbarazzante Abrahadabra, e pensiamo a quanto hype si percepisse per le precedenti release del gruppo norvegese. Forse Puritanical Euphoric Misanthropia è stato l’ultimo capitolo capace di scaturire una così forte attenzione mediatica, seguita da una adeguatamente efferata pubblicizzazione; fattori giustificati dal fatto che in scuderia erano entrati due autentici pezzi da novanta come ICS Vortex ed il Nicholas Barker scippato ai Cradle Of Filth, e che il cambio di stile divenuto necessario in seguito a Spiritual Black Dimensions era stato attuato con risultati che potevano non piacere a tutti, ma in ogni caso assai dignitosi. I videoclip, le interviste e i teaser, le presentazioni coi panini e la salsa Worcestershire: si è fatto praticamente di tutto nelle settimane che hanno preceduto la sua uscita. Ma i Dimmu Borgir non si sono accorti di quanto abbiano sfregiato un album che, una volta spogliato di tutte le cazzate di cui è stato infarcito, avrebbe potuto essere la miglior cosa prodotta dalla band dal 2002 ad oggi. A mani basse, e senza farci la tara.
Lo dico a scanso di equivoci: quest’album fa incazzare il triplo perché praticamente non ha pezzi brutti. Non ha una produzione oscena come Death Cult Armageddon, né un minutaggio scellerato. Contiene solamente nove brani cantati più una outro strumentale, il che è perfetto. Solamente, ogni sua canzone è stata firmata dal tocco malsano e irresponsabile di Shagrath e Silenoz, come per dirci che al giorno d’oggi i due compositori classe 1976 sarebbero perfettamente in grado di registrare un bel disco, ma le cose troppo facili non gli piacciono ed è preferibile camuffarlo da disco di merda per indurre l’ascoltatore al dubbio che, da Abrahadabra, sia effettivamente trascorso molto meno tempo. A salvarsi in toto è soprattutto un brano come Aetheric, anche se Silenoz dovrebbe mollare una volta per tutte quelle dissonanze ricopiate da Blasphemer dei Mayhem di Grand Declaration Of War, perché le stanno usando davvero in troppi e troppo a sproposito. Un’altra cosa che fa rabbia è il piglio rock con cui molti pezzi si evolvono, perché ci sta tutto ma è quasi sempre fuori da ogni contesto attribuibile alla logica: lo troviamo nella stessa Aetheric, in Interdimensional Summit – che non mi ritengo ancora del tutto convinto sia stata realmente intitolata così – e in altri episodi che passano per un groove che i Satyricon da Volcano in poi hanno saputo mettere in mostra pochissimo, in proporzione al peso specifico del loro nome. Preferisco Eonian allo sterile Deep Calleth Upon Deep, ma paradossalmente il secondo non ha un decimo dell’ Orrore che è qui presente. Le accelerazioni di Lightbringer sono fantastiche quando si salvano dall’invadente aspetto sinfonico e dai cori, The Empyrean Phoenix ricorda ottimamente le migliori cose dei primi anni duemila ed Archaic Correspondence, ancora una volta titolo a parte, vanta un fascino che certe volte è pure descrivibile come retrò. E sono le tastiere, spesso e in più episodi, a conferirgli quella sensazione di trovarsi ancora ai confini con il black metal, e non i riff ruffiani di Silenoz e Galder, come ad esempio quello che apre la prima traccia The Unveiling. Ma non è abbastanza, ed ogni canzone toccherà punti bassissimi da cui è sorprendente che si risolleverà – più o meno abilmente – nel giro di pochi attimi.
Montagne russe senza un senso, insomma, su cui non vomiterai mai ma da cui scenderai in qualunque maniera, fuorché convinto. Questo è Eonian, un susseguirsi di balzi sulla sedia e calci all’impianto stereo, lettore cd o cellulare che dir si voglia. Ma in ogni caso, non è niente che cada così in basso quanto un Abrahadabra, o un In Sorte Diaboli, e sono pure convinto che avrà anche un discreto successo. (Marco Belardi)
Io ribalto il punto di vista: non ha un pezzo bello, ma mi piace lo stesso. Non ho ancora capito il perché. A parte Interdimensional Summit, quella è tremenda.
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Non so se riuscirò a trovare il tempo da dedicare a questo loro disco, però ho visto il video dei due singoli. Council è una raccolta di riffs assemblati a caso, mentre interdimensional summit è estremamente divertente sia come video che come musiche. Non so xchè ma mi ricorda una qualche sigla dei cartoni animati, e vedendo le faccette di Galder non è detto che prima o poi non ne facciano uno su di loro.
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