Astral Fortress, il nuovo Darkthrone e la metafora del dente di squalo

Poco dopo l’uscita di questo Astral Fortress il nostro inviato in Polonia, l’inclito Piero Tola, si è lanciato in una metafora perfetta per descrivere l’uscita del nuovo (o di un nuovo) disco dei Darkthrone, ovvero la metafora del dente di squalo. Come saprete, gli squali non rimangono mai senza denti. Se, per qualsiasi ragione, ne perdono uno, gliene ricresce un altro uguale sempre nello stesso punto. Mi dispiace non averci pensato io, perché è perfetta. Rappresenta non solo l’intercambiabilità di un disco con l’altro e la poca cura data al singolo album (tanto poi fra due anni ne esce un altro), ma anche il fatto che, ogni volta che ne esce uno nuovo, tendenzialmente perdi di vista quello prima.

Penso di essere l’ultimo baluardo darkthroniano in redazione. Gli altri hanno perso entusiasmo da un pezzo, quando non si sono proprio rotti le scatole. Ero rimasto solo io a conservare un minimo di aspettativa, seppur conscio che la pazienza non è infinita. E quindi ora siamo qui a parlare di Astral Fortress. La recensione potrebbe essere estremamente breve, perché basterebbe scrivere: “Astral Fortress è il nuovo disco dei Darkthrone” e tutto il resto sarebbe un’aggiunta non necessaria.

Però, appunto, il gioco è bello quando dura poco, o quantomeno non troppo. Perché qua ridendo e scherzando sono vent’anni che Fenriz e Nocturno Culto fanno lo stesso giochino. E allora facciamo un giochino pure noi: quante volte vi siete ritrovati a rimettere nello stereo un vecchio disco dei Darkthrone da diciamo Hate Them in poi? Quante volte vi è venuta voglia di riascoltarvi uno qualsiasi dei loro dischi degli ultimi vent’anni? A me pochissime, sinceramente, e infatti non li distinguo l’uno dall’altro. Il fatto che all’uscita di ogni disco la mia opinione fosse in linea di massima positiva è un’aggravante: se non mi fossero neanche piaciuti sarebbe tutto più comprensibile. Invece siamo qua, di nuovo, a dover commentare il nuovo disco dei Darkthrone. Rischiando di dire le stesse cose, di girare intorno agli stessi concetti, di compulsare il dizionario dei sinonimi per ripetere cose già espresse allo sfinimento.

Ora però cambiamo completamente prospettiva. Perché onesto, tira e tira la corda si spezza. Il problema non è, ovviamente, fare sempre lo stesso disco, perché ci sono mille e mille gruppi che fanno sempre lo stesso disco e invece bla bla bla, discorso frusto che non vale la pena ripetere. Il problema è che sti dischi sembrano tirati via. Uno, due, tre, quattro, cinque volte ti sforzi di entrare nelle corde, apprezzi l’attitudine, eccetera. Dopodiché arriva il momento in cui pensi oh no, mi tocca sentire il nuovo Darkthrone. Fenriz è come l’amico un po’ soggettone che però ti sta simpatico perché quando eravate ragazzini ti procurava l’erba e perché ha quella ingenuità crepuscolare da profonda provincia. Il classico bonaccione sempliciotto, diciamo. L’amicizia però regge finché quello sta al posto suo e non ti stressa. E allora, arrivati al millemillesimo disco dei nuovi Darkthrone, ci sono alcune cose da mettere in chiaro, caro amico soggettone.

Innanzitutto l’idea di suonare il più schiacciato possibile a certo metal anni Ottanta è carina, ma non può essere il centro focale del discorso per decenni. Devi scrivere belle canzoni, amico soggettone, altrimenti fare il nostalgico per il gusto di farlo può andare bene per un poco, poi basta. Io ricordo forse un paio di canzoni dei Darkthrone degli ultimi vent’anni. E sono tutti dischi che ho sentito molte volte, all’uscita. Di recente ci ho provato a risentirmi alcuni dei dischi in oggetto, ma è stato come non averli mai sentiti prima: nessun riff che mi sia tornato in testa, nessuna melodia, niente. Non è normale. Stesso discorso con le produzioni minimali da cantina: devono essere funzionali al contesto. Invece a me sembra che siano al centro della scena allo stesso modo in cui lo è il suonare vecchio. Non puoi pensare di suonare qualsiasi cosa ti venga in mente e pensare che spacchi solo perché è registrata a quel modo. È registrata a quel modo, quindi è meglio. Non funziona così.

Inoltre: questo è il ventesimo disco dei Darkthrone in 31 anni, da quando uscì Soulside Journey. Più nello specifico, questo è l’undicesimo disco uscito da Hate Them, 19 anni fa, da quando cioè i Darkthrone sono diventati un gruppo volutamente e provocatoriamente velleitario. Non vi pare un po’ troppo? Cioè, un disco ogni neanche due anni va bene a inizio carriera, ma quando hai 50 anni come fai a fare uscire così tanta roba? La domanda vera che mi pongo a questo punto è: scarteranno mai qualcosa oppure registrano qualsiasi cosa gli venga in mente? Perché poi capisco che per un gruppo che non suona dal vivo sia un problema cercare di ricavare qualcosa dalla sola vendita dei dischi, però ribadisco: la pazienza ha sempre un limite.

Da qui poi si arriva a varie altre questioni, se vogliamo minori, che però assumono una certa importanza quando si è esasperati. Per esempio il senso dell’umorismo tipicamente norvegese che fa ridere più o meno quanto una nutria che ti rosicchia i testicoli. Pure qui: titoli come Impeccable Caverns of Satan o The Sea beneath the Seas of the Sea… non fanno ridere. Non mettono di buonumore, non sono arguti, sottili o che so io. Sono CRINGE. Ma anche Fenriz che nel disco appare col nomignolo di “Infidel Castro”. Mi sto sganasciando, mannaggia. E quella copertina che è? Dovrebbe far ridere? Stiamo ancora qui nel 2022 a giocare sul contrasto tra il logo grim & frostbitten e la foto di uno che pattina sulla neve? O c’è qualche altro motivo a cui non sto arrivando? Cioè, so che l’internet è pieno di gente che si sente all’avanguardia nel dissacrare il black metal (o il metal in sé) più o meno come già noi si faceva decenni fa, ma Fenriz dovrebbe essere meglio di così, anche solo per il fatto che lui decenni fa c’era, a differenza dei soggetti sopradescritti che avranno scoperto l’heavy metal grazie a qualcuno degli ultimi dischi degli Slipknot.

Tutto questo poi si collega con un altro difetto che i Darkthrone hanno SEMPRE avuto: i testi. Amici, i testi dei Darkthrone fanno schifo. E non vale citare Too Old Too Cold, che è l’eccezione che conferma la regola. La cosa ovviamente era ininfluente quando i dischi erano talmente belli che neanche ti ponevi il problema, ma quando tutto il resto latita poi magari ti ritrovi a leggere i testi sperando in qualche scintilla e invece ti ritrovi davanti il solito blaterìo incomprensibile che sembra (sembra?) un pasticcio di parole messe a caso.

E poi la musica. Mi sembra roba buttata via senza la minima cura. Ho sentito più volte la frase questo è il miglior disco dei Darkthrone da tantissimi anni a questa parte. Il problema è che questa cosa viene detta quasi a ogni loro uscita. Quindi ogni paio d’anni ci ritroviamo “il miglior disco dei Darkthrone da tantissimi anni a questa parte”. Chi lo dice è sincero, perché molto probabilmente si è dimenticato dei dischi precedenti. Magari non li ha più ascoltati da allora, come a questo punto credo sia normale. Nella mente rimane giusto il ricordo che i dischi dei Darkthrone erano tutti singolarmente belli/carini, ma non te ne ricordi manco una nota. Quindi ascolti il nuovo e dici “beh dai, questo è più carino degli altri”. Poi passa una settimana e non lo ascolti più. Il dente di squalo.

Piero aveva anche usato un’altra metafora, cioè quella del cinepanettone. Ogni anno ne esce uno, stilisticamente e concettualmente uguale al precedente, in una eterna coazione a ripetere che li rende tutti indistinguibili. Però sarebbe stato ingeneroso, perché i cinepanettoni fanno schifo ai cani, mentre i Darkthrone no. Non si scambi questo sfogo con una critica spietata al gruppo, che ho sempre difeso finché ho potuto. È solo che la pazienza è finita e il giochino mi ha stufato. Quindi proclamo ufficialmente che, dopo più di vent’anni in cui timbro il cartellino recensendo tutti i cazzo di dischi dei Darkthrone che escono, sventolo bandiera bianca. Mi tiro fuori. Non voglio più saperne niente. Buona fortuna a chiunque mi sostituirà nell’arduo compito. E ora che la recensione è finita tolgo Astral Fortress dallo stereo, probabilmente per non ascoltarlo mai più proprio come tutti gli altri. (barg)

17 commenti

  • Fino a Old Star ho tenuto botta ma con il precedente e questo, che ad essere onesto ho sentito un paio di volte, mi hanno veramente piallato le gonadi. Mancano i pezzi fondamentalmente e poi la voce, tremenda. Nocturno Culto è veramente di un piattume totale oramai, se già i pezzi non brillano di loro con un cantato del genere non c’è speranza. E poi anche questa attitudine dissacrante ha stancato, pensassero a scrivere dei riff decenti invece di fare i buffoni.

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  • Dai, Infidel Castro fa ridere. Stupido eh, però fa ridere

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  • Metallaro scettico

    Umanamente la loro strafottenza mi sta simpatica. Fanno quel cazzo che gli pare e qualche cojone gli compra pure i dischi. Però pensare che questi avevano registrato A Blaze… 30 anni fa…

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  • Inclito, frusto e compulsare. Si vola alti.

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  • Si ma ragazzi che cazzo eh? eh? dai…. Mi sa che qui stiamo sbagliando bersaglio. Non fanno nemmeno i concerti quindi non rubano spazio a nessuno. Fanno solo continuità, la loro. Non sono nemmeno un surrogato di quelli che furono (come i Pink Floyd). Attitudine, stiamo ancora a parlare di attitudine? E’ l’underground dell’underground, fuori tempo e fuori moda, a chi fanno del male? E a chi danno fastidio? Se un ascoltatore ha un’aspettativa che la diriga sui nuovi gruppi, che ce ne sono tanti, di black e post black. Magari lasciare che si divertano pure loro a 50 e passa anni, e anche chi li ascolta e se li gode, no eh?

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  • Sei già stato bravo a resistere così a lungo. Io ogni tanto riascolto i primi 4-5 dischi che hanno una atmosfera unica, ma quasi tutto il resto (soprattutto il periodo delle contaminazioni punk, thrash e simili) fondamentalmente fa cagare, fatto di fretta e senza qualità, non comunica nulla (se non le mille influenze di Fenriz che ha 1 miliardo di dischi a casa), non ha atmosfera, non ha profondità, ecc.
    Secondo me i darkthrone hanno registrato tutti questi dischi fotocopia degli ultimi 15 anni in un paio di giorni del 2007, poi si sono trasferiti a Pattaya a godersi una pensione fatta di riso al mango, pollo al curry, sole, mare e bocchini low-cost. Tutto giustissimo e comprensibile. Solo che chi li ama non se ne accorge, perché la coerenza viene prima di tutto…

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  • Però attenti a quella metafora a forma di vertebra di moffetta.

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