Avere vent’anni: agosto 2023

FORGOTTEN TOMB – Springtime Depression

Griffar: Dopo il CD-r Obscura Arcana Mortis e l’acclamato debutto Songs to Leave, con Springtime Depression i Forgotten Tomb fecero il balzo di popolarità. È l’ultimo nel quale Ferdinando Marchisio “Herr Morbid” suona praticamente tutto da solo (alla batteria c’è Impaler degli Shining come session, tra l’altro pare che i due manco si sopportassero ma è una delle tante voci senza conferme o smentite). All’epoca Herr Morbid era un personaggio controverso come Niklas Kvarforth, ostentatamente portatore di un messaggio negativo nei confronti della vita e di tutto ciò che gli stava intorno a meno di cento metri. Misantropo, autolesionista, masochista, attratto dall’idea di eterno riposo ogni minuto della sua detestata esistenza. Questo suo modo di porsi ha spesso diviso il pubblico: chi lo ha venerato, chi lo ha considerato un pagliaccio, chi (io tra questi) si interessava unicamente della sua proposta artistica infischiandosene di tutte le menate da leoni da tastiera. Da questo punto di vista, Springtime Depression è un gioiello di depressive black metal. Si sentono tutte le influenze di Manes, Silencer, Forgotten Woods, Burzum, Abyssic Hate… il meglio del meglio. Cinque dei sei pezzi sono ai vertici assoluti del genere, trasudano pessimismo, fastidio, disgusto per la vita, infelicità e angoscia cronici. Non vado matto per l’omonima strumentale, ma tutto il resto è ottimo. È il loro disco che mi piace di più, schietto, in your face, prendere o lasciare. Tutto quanto hanno fatto dopo, compreso trasformare il progetto da solista a gruppo vero e proprio, i tour, il business… è diverso. Com’è logico che sia. La popolarità e il successo cambiano le cose; si deve scendere a compromessi, cosa che difficilmente porta benefici artistici. Buon per lui, buon per loro. Io li ho lasciati perdere, ma questo disco ha retto il passare del tempo come si profetizzava alla sua uscita e vale sicuramente il tempo che gli dedicherete, così come i due precedenti. Per gli altri decidete voi.

GAMMA RAY – Skeletons in the Closet

Barg: Una volta lessi un’intervista a un dirigente di una casa editrice che diceva che tutti quelli che andavano lì per presentare un romanzo giallo inevitabilmente ripetevano: “Questo è un giallo, ma non è semplicemente un giallo”. Ecco, Skeletons in the Closet è un live, ma non è semplicemente un live. È arrivato dopo il tour omonimo in cui i Gamma Ray suonavano pezzi fino a quel momento poco considerati nei concerti (gli scheletri nell’armadio) e la scaletta è stata decisa da una votazione online. E così, guardando il retro del disco, scende la lacrimuccia: Rich and Famous, Armageddon, Heavy Metal Universe, The Silence, Last Before the Storm, addirittura la sovrumana Rising Star/Shine On (una delle più belle canzoni d’amore di sempre, nonostante l’oggetto sia una stella) e, rullo di tamburi, Victim of Fate in una versione da antologia. Il gruppo poi era in stato di grazia, con la voce di Kai Hansen che ancora reggeva e la formazione storica che macinava senza mai guardarsi indietro. Ho visto i Gamma Ray diverse volte, ai tempi, e vi posso assicurare che non c’è nessun altro che rappresenti il power metal tedesco come loro, da ogni punto di vista. Del resto, vi viene forse in mente qualcuno che possa definirsi l’incarnazione stessa del power metal tedesco più di Kai Hansen? Come ennesima conferma, questo Skeletons in the Closet: due CD, un’ora e quaranta di musica, sedici pezzi effettivi, fomento impareggiabile. Ricordo che all’epoca pensai che questa sarebbe dovuta essere un’operazione obbligatoria per tutti i gruppi con un certo numero di dischi alle spalle, e lo penso ancora.

MÖRK GRYNING – Pieces of Primal Expressionism

Michele Romani: Sono sempre stato in fissa per i Mörk Gryning. Loro erano una delle tante band targate No Fashion Records che fecero parte dell’epoca d’oro del black metal svedese e che, nonostante fossero debitrici dei Dissection come tanti altri, riuscirono comunque a creare uno stile piuttosto personale e soprattutto un esordio discografico straordinario come Tusen År Har Gått. Faccio questa doverosa premessa perché (e mi dispiace dirlo, visto il rispetto che ho per loro) questo Pieces of Primal Expressionism è una roba totalmente incomprensibile che giuro non ho idea di come sia uscito dalla testa di Goth Gorgon e compagni, roba che ai tempi avevo seri dubbi che fosse veramente materiale targato Mörk Gryning. Scordatevi le tipiche sferzate death-black metal piene di melodia dei precedenti lavori, perché qui non ce n’è traccia: trattasi di una specie di calderone con elementi industrialoidi, death metal di stampo moderno, passaggi doomeggianti e addirittura la presenza di archi nell’assurda An Old Man’s Lament. L’impressione generale era che la band fosse in stato confusionale e non sapesse bene dove andare a parare. Per fortuna si sono ripresi col successivo e poi con l’ottimo ritorno del 2020; riguardo sta porcheria, statene debitamente alla larga.

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MISERY INDEX: Retaliate

Ciccio Russo: Nella musica, come nella politica, le entità che scaturiscono dalle mitosi valgono spesso, se non la metà, assai meno dell’originale. Fu il caso anche dei Dying Fetus che, dopo il monumentale Destroy the Opposition ( uno dei dischi più importanti della storia del death), si sfasciarono in due. Da una parte il solo John Gallagher che si tenne il nome, rimise su il gruppo con gente nuova e tirò fuori il discreto, ma non esaltante, Stop at Nothing. Dall’altra Jason Netherton, Sparky Voyles e Kevin Talley che, dopo essersi fatti notare con il buon Ep Overthrow, non fallirono l’appuntamento con l’esordio sulla lunga distanza. Retaliate vinse il derby ma, riascoltato oggi, non appare invecchiato benissimo, forse perché, con il senno di poi, soffre il confronto con i lavori successivi, dove verranno sviluppate in modo più coerente intuizioni che qua troviamo ancora allo stato embrionale, a partire dalla peculiare vena melodica che distingue un altrimenti non originalissimo death/grind con suoni di marca europea. Il principale difetto dei Misery Index, però, era e rimane un altro: suonano bene, hanno buone idee, hanno uno stile personale ma non pestano abbastanza, è sempre mancata loro quella cattiveria che Gallagher ha continuato a dispensare a badilate anche nei momenti creativamente più fiacchi. Ecco perché la loro recente evoluzione non dovrebbe destare chissà quale scandalo.

WIZARD – Odin

Barg: Spero voi tutti abbiate letto la mia recensione di Head of the Deceiver e siate corsi ad ascoltare l’album in oggetto. Quando mi arrivò il promo di Odin ero incredibilmente fomentato e avevo le aspettative a diecimila, e per una volta non mi sento di giustificarmi perché Head of the Deceiver era davvero un capolavoro assurdo. I miei sentimenti furono ambigui e lo sono tuttora, perché Odin non si può accusare di nulla. Formalmente è molto migliore del precedente: meglio prodotto, molto più curato negli arrangiamenti e nelle armonie, più variegato, più da prendere sul serio, se posso permettermi; e questo è sicuramente merito di Piet Sielck, subentrato a Uwe Lulis in cabina di regia, che dà al disco quel caratteristico suono comune a tutti i lavori curati da lui. Stilisticamente non cambia molto, se non per quella maggiore varietà di temi e sfumature di cui si è appena parlato. Ma paradossalmente Head of the Deceiver rimane il capolavoro degli Wizard proprio per la sua rozzezza, il suo suono al limite dell’amatoriale, la sua monotematicità ossessiva. E per i testi: lì era una continua sequela di minacce di morte ai nemici del metal, qui invece c’è un concept sulla religione norrena come ne sono stati fatti a bizzeffe. Non si creda però che gli Wizard siano diventati improvvisamente dei raffinati stilnovisti del metallo. Sono sempre loro, e per capirlo basti l’esempio di Lokis Punishment: prima il riff iniziale, talmente adorabilmente rozzo che solo loro potevano avere il coraggio di usarlo; e poi quello stacco di basso e batteria che non sarebbe potuto venire in mente neanche a un cavernicolo che ha appena iniziato a percuotere le rocce con gli ossi di scimmia. Detto questo, Odin è un gran bel disco con cui fare esplodere gli amplificatori.

ULVER – A Quick Fix of Melancholy

L’Azzeccagarbugli: Mi sono subito accaparrato la recensione del bellissimo EP degli Ulver per due motivi: sia perché l’ho sempre amato e lo ritengo un nuovo punto di svolta nella carriera della band, sia perché mi fa piacere ribellarmi alla dittatura del teorema degli Ulver, come ho fatto la prima volta in assoluto che ho scritto per Metal Skunk. A Quick Fix of Melancholy infatti è l’ennesima conferma del talento e della ecletticità di Garm (so’ vecchio, lo continuerò a chiamare così) che, se da un lato riprende le sonorità elettroniche che avevano caratterizzato i precedenti lavori, dall’altro le utilizza in modo totalmente diverso, ritornando alla “forma canzone” e anticipando alcune soluzioni di Blood Inside. L’iniziale Little Blue Birds rende perfettamente l’idea: loop e orchestrazioni elettroniche diventano una base grazie alle quali costruire un brano drammatico e intenso su cui si inserisce il cantato evocativo di Garm. Allo stesso modo particolarmente convincente è Vowels, ispirata dall’opera di Christian Bök, con un inizio quasi à-la Scott Walker e un finale synth-orchestrale da applausi a scena aperta che fa da viatico per la conclusiva Eittlane. Che è ben più di un remix di Nattleite, tratta dal capolavoro Kveldssanger, ma un brano che vive di vita propria, in cui si utilizzano quasi come sample i passaggi dell’originale, dimostrando quell’evidente coerenza nella discontinuità che, indipendentemente dal genere proposto, è sempre presente nella discografia degli Ulver.

ARAFEL – The Way of Defender

Griffar: Progetto multinazionale (due israeliani, un russo e un ucraino) sconosciuto ai più, gli Arafel furono una meteora durata tre album in otto anni. Il debutto The Way of Defender mette subito in chiaro la loro direzione musicale: pagan/folk black metal con voce in screaming abbaiata, continui stacchi tra parti più tirate di forte ispirazione Enslaved e altre più cadenzate vicine a Falkenbach, Thyrfing e similari. Il tutto utilizzando anche molte tastiere, che spesso divagano in contesti non lontani dalla musica barocca, e abbracciando sovente anche l’heavy metal classico anni ’80, il death melodico svedese e il folk puro e semplice. Se non gli si può negare un certo coraggio, bisogna dire che di carne al fuoco ne avevano messa fin troppa. I brani cambiano repentinamente e risultano assai spezzettati, a tratti sono interessantissimi e geniali, in altri momenti calano verticalmente lasciando abbastanza perplessi. Non li aiuta una produzione abbastanza approssimativa, coi suoni poco nitidi, compressi dove non servirebbe e poi più sciolti in altri frangenti, dando spesso una sensazione di sgretolato, di frammentato, di poco coeso. Le parecchie idee buone finiscono per perdersi in mezzo ad altre che avrebbero potuto essere curate meglio, rendendo difficile ascoltare il disco due volte di fila. Per certi versi un peccato perché sembravano avere potenziale, ma dopo un non esaltante secondo album (Second Strike, 2005) e un terzo distribuito malissimo e passato inosservato (For Battles Once Fought, 2011) furono inghiottiti dal nulla e consegnati al passato.

PRO-PAIN – Run for Cover

Barg: ATTENZIONE TUTTI! Qui si parla della preistoria del blog, ma chi c’era non potrà fare a meno di ricordarselo: il disco di cover dei Pro-Pain era una delle punte di diamante del grande concorso “Trova un nuovo nome al blog e vinci una montagna di dischi di merda”, risalente a quando dovemmo abbandonare il nome Metal Shock e cercavamo consigli per una nuova denominazione. Io, Ciccio e Charles demmo fondo ai nostri scarti di magazzino, tirando su più di un centinaio di dischi (di merda) che poi ripartimmo tra i cinque migliori partecipanti. Il meraviglioso lavoro in oggetto se lo accaparrò Edoardo “Lowfiles”, storico commentatore che per primo se ne uscì con il nome Metal Skunk. Qui si fa la Storia, amici, si fa la Storia o si muore. Spero vivamente che il suddetto Lowfiles abbia allietato gli ultimi dieci anni con queste perfettamente inutili quattordici cover e con tutto il resto del letame discografico con cui lo abbiamo riempito, e ovunque egli sia noi gli mandiamo tutto il nostro affetto e la nostra stima. Possa egli vivere in eterno.

DEEP PURPLE – Bananas

L’Azzeccagarbugli: Se si esclude la leziosa ma riuscita ballad Haunted, il mio unico ricordo di Bananas dei Deep Purple è stato per anni la stroncatura (per usare un eufemismo) del disco da parte di Richard Benson che, in un crescendo rossiniano di insulti e grida belluine, finiva persino per stracciare il booklet del disco. Tanto mi bastava, anche in considerazione dell’accoglienza a dir poco tiepida da parte della stampa. In realtà Bananas non è affatto male: pur avendo fatto decisamente meglio successivamente – sempre restando nell’era Morse – si tratta del primo album in cui i nostri si presentano sul mercato senza Blackmore (assente già sui due precedenti album) e Jon Lord, sostituito dalla “riserva naturale” Don Airey. Il risultato, se si eccettua l’iniziale e classicissima House of Pain, è sicuramente diverso rispetto alle ultime prove della band, con un ispiratissimo Gillan che dirige “l’orchestra” affidata alla coppia Morse/Airey tra cui spiccano Sun Goes Down, la funkettosa Razzle Dazzle e un outtake di Abandon, I’ve Got Your Number, che vede anche la firma di Lord.  In conclusione un buon punto di partenza per una band che aveva necessità di gettarsi alle spalle un ingombrante passato e ripartire su nuove basi. Pur non essendo memorabile, non ti fa neanche venire voglia di strappare il libretto; e dopo vent’anni dall’ultimo ascolto, vi dirò, viene anche voglia di rimetterlo su.

ABAZAGORATH – Enshrined Blasphemer

Griffar: Gli Abazagorath dal New Jersey sono una band storica della scena black statunitense (nati nel 1995), anche se non sono mai stati riconosciuti i loro indubbi meriti. Mai riusciti ad uscire dal profondo underground e dallo status di culto, hanno avuto una formazione spesso martoriata da continui cambi, specialmente nei ruoli di cantante e chitarrista; molti di questi ex membri sono stati effettivi di svariati gruppi della scena death metal: Funebrarum, Mephitium, Evoken e Disma tra i principali. L’attuale batterista/cantante Warhead (Chris Demydenko), unico membro partecipante al progetto sin dagli albori, tuttora suona anche nei Disma. Oggi sono rimasti un terzetto, il che non gli impedisce di tirare su dei concerti coi controcazzi (se cercate su Youtube ne troverete qualcuno). Ai tempi di questo Enshrined Blasphemer, EP di quattro brani effettivi per 23 minuti di musica, erano in formazione a 5 (voce, chitarre, basso e batteria) e tiravano su un macello mica da ridere. Brani velocissimi, intrisi di blasfemia e odio per la religione cristiana così cristallino che a questi livelli di astio penso siano arrivati solo gli americani, vista l’infestazione di predicatori, censori e fanatici vari che hanno dovuto subire. Pensate all’odio di Glen Benton: qui ne trovate altrettanto. Discretamente melodico per quanto possibile in un contesto così estremo, l’EP ha una registrazione molto compressa che non rende particolarmente giustizia al loro talento. Benché grezzissimo, il disco è comunque un’altra perla in una discografia che in totale assomma 2 split, 3 full e 4 EP tutti quanti da scoprire e riscoprire. L’ultima fatica discografica è il full The Satanic Verses risalente al 2014; il silenzio che dura da nove anni sta diventando preoccupante.

TARAXACUM – Rainmaker

Barg: Secondo e ultimo disco dei Taraxacum, il progetto di Tobias Exxel, meglio conosciuto come chitarrista degli Edguy. A parlare troppo rischierei di ripetere quanto detto per il debutto, Spirit of Freedom, quindi sarò breve: l’album è carino ma troppo leccato, e lo stile non è assolutamente power metal ma un metallone tirato con un cantante un po’ troppo simile a Joey Belladonna (che poi sarebbe Rick Mythiasin, già Steel Prophet e, uhm, Pantera nel 1986). Il risultato si lascia ancora una volta ascoltare pur senza entusiasmare, e avrebbe meritato un po’ più di attenzione rispetto a quella, quasi nulla, con cui fu accolto. E peraltro questo Rainmaker è pure molto migliore del suo predecessore. Probabilmente il fatto che Exxel venisse dagli Edguy ha fatto sì che molti misconoscessero o sottostimassero il progetto; così va la vita, ma davvero c’è molto ma molto di peggio.

IN THE WOODS – Live at Caledonian Hall

Michele Romani: Live at Caledonian Hall è l’ultima testimonianza dal vivo degli In The Woods prima del temporaneo scioglimento della band, durato ben 15 anni, a cui seguirono tre nuovi dischi in studio e continui stravolgimenti della formazione (l’unico membro originale rimasto è il batterista Anders Kobro). Il concerto, svoltosi il 29 dicembre del 2000 nella loro città natale Kristiansand, abbraccia un po’ tutta la produzione della band, con particolare riferimento a Omnio eseguito dalla prima all’ultima nota. Ovviamente c’è spazio anche per il capolavoro Heart of the Ages, con una versione da brividi di Mourning the Death of Aase e una un po’ più discutibile della title track, a cui è stata aggiunta una voce femminile che francamente c’entra poco o nulla. C’è spazio anche per estratti dell’ai tempi piuttosto discusso Strange in Stereo e un paio di cover di Jefferson Airplane e King Crimson, a confermare la vena piuttosto settantiana della band sul finire degli anni ’90. In generale un live piuttosto ben riuscito, anche se la produzione non è proprio eccelsa e a volte i brani hanno una struttura leggermente diversa dall’originale. Ma rimane una testimonianza importante su quello che sono stati gli In The Woods un tempo.

TRIMONIUM – Blow the Horns

Barg: Ammetto candidamente di non aver mai sentito i Trimonium prima d’ora e di averli presi dalla lista dei ventennali solo perché mi faceva ridere il nome. E se il disco fosse stato brutto la gag sarebbe stata perfetta, perché avrei scritto che erano dei trimoni ma quantomeno avevano avuto l’onestà di dirlo subito, eccetera. Sapete, il sempreverde umorismo da scuole medie. Invece no, cari miei compari del vero metal: Blow the Horns è sinceramente un gradevolissimo dischetto di viking/pagan metal, principalmente nello stile dei vecchi Borknagar e Kampfar, epico come dettame del genere comanda e con un bel tiro coinvolgente. Non molto altro da dire; se fossi Griffar riuscirei a parlarne per un’altra trentina di righe sviscerandone ogni aspetto, ma io non potrei mai equipararmi al glaciale demone che vive nello sconosciuto Kadath e quindi non posso che concludere consigliando semplicemente l’ascolto a chiunque sia interessato al genere.

KADOTUS – Seven Glorifications of Evil

Griffar: Figli del demonio di origine finlandese, i Kadotus sono stati una band di secondo piano nella scena black di quel paese, pur non avendo nulla da invidiare alla pletora di loro conterranei (Sargeist, Satanic Warmaster, Horna, Behexen etc). Nati nei primi anni 2000, dopo un paio di demo esordiscono nel 2003 con il full Seven Glorifications of Evil, otto brani effettivi per 34 minuti di black metal di tipica impostazione finlandese: composizioni con riff discretamente melodici in monocorda gelidi come una bufera di aghi di ghiaccio che ti smeriglia il viso, per la maggior parte del tempo lanciati a tutta velocità e inframmezzati da parti più cadenzate per evitare l’eccessiva monotonia. Sono cose che avrete letto centinaia di altre volte e che io avrò scritto altrettante volte recensendo gruppi black classico finlandese, perché la formula è quella e da lì non si scappa. Però è una formula che funziona bene, visto che anche l’esordio dei Kadotus si ascolta più che volentieri: il loro black metal è sì scolastico ma di eccellente fattura, voci in screaming ultra-sgolato comprese, e fa niente se alla fine i brani si assomigliano tra loro, la durata non eccessiva dell’opera ci mette su una bella pezza. La loro discografia successiva comprende due EP e due split 7 pollici prima del secondo album Vaienneet temppelit (2011) molto simile a quello del quale si sta parlando qui (appena modernizzato e con qualche tastiera), canto del cigno della band che cessò di esistere un paio di anni dopo.

THE SABIANS – Ashes

Lorenzo Centini: Mentre Cisneros e Pike si riorganizzavano per conto proprio dopo la presa a male, saltò fuori dal monastero ortodosso in cui s’era rinchiuso addirittura Justin Marler, voce e chitarra dei primissimi Sleep, prima di Holy Mountain. Portandosi appresso moglie al basso e addirittura Chris Hakius alla batteria, dal 1999 sarebbe tornato di nuovo su piazza, tradizionalmente, per una manciata di anni coi The Sabians. Dopo un esordio che si saranno filati in pochissimi, il buon Beauty for Ashes, arrivò al secondo ed ultimo disco con Shiver. E se lo sono filati davvero in pochissimi anche questa volta. Io lo acquistai a scatola chiusa (si usava ancora) perché Sorge su Rumore chiamava in causa cose gustosissime. Capiamoci, niente stoner doom, nulla degli Sleep. C’è del buon grunge, psichedelico, alternativo, a tratti elettro acustico. Mettete i Nirvana, i Quicksend (e i Rival School), i Tool di Opiate e una vena indie anni ’90 (e ’80) che spazia dal primo emo (una cosa seria) ai R.E.M. meno ecumenici e più rurali. Se vi piacciono idealmente come coordinate, Shiver vale più di un ascolto.

PROSTITUTE DISFIGUREMENT – Deeds of Derangement

Griffar: Il secondo disco degli olandesi Prostitute Disfigurement è una mattanza. Segue di un paio d’anni quell’ammasso di carne marcia intitolato Embalmed Madness, ne rifinisce il suono, focalizza meglio la struttura dei pezzi creando così il loro miglior disco di sempre. I brani sono 11, brevi, frenetici, annichilenti e lanciati a velocità catastrofiche verso la distruzione totale, ma sono montati benissimo: ogni stacco è studiato alla perfezione, i riff sono mirabilmente comprensibili pur se ci troviamo un contesto brutal death con variegature grind tra i più estremi possibili. Fortunatamente non ci sono troppi campionamenti, e la voce è talmente in decomposizione totale da essere diventata iconica del growl più marcio. Il batterista è un assassino che non sbaglia un colpo, passa con naturalezza sbalorditiva dal veloce al velocissimo al blast beat sfoggiando una tecnica superiore alla media (come spesso capita coi gruppi brutal olandesi e belgi), i chitarristi macinano riff su riff, li intrecciano, li armonizzano e si lanciano anche in assoli ben fatti, brevi schegge di metallo incandescente di vaga origine slayeriana. Nonostante qualche flebile influenza dei primi Cannibal Corpse,  non è errato definire il loro brutal death assai personale; è abbastanza complicato richiamare alla mente gruppi del passato ai quali somiglino in modo marcato, perché è quasi tutta farina del loro sacco. Il disco è divertentissimo da ascoltare, vola via in un attimo, si fa ripartire da capo con piacere più volte e sembra uscito ieri; se vi piace il genere lo conoscerete sicuramente perché siamo ai vertici del brutal death di scuola europea, se non li avete mai sentiti nominare ma la brutalità pura solletica la vostra curiosità potete cominciare con il meglio: Deeds of Derangement.

EDGUY – Burning Down the Opera

Barg: Si potrebbe dire che avrebbero potuto aspettare un altro anno per poter includere i pezzi del loro miglior disco, ossia Hellfire Club, ma la cosa si può vedere da un altro punto di vista: Burning Down the Opera è il definitivo commiato dal power metal degli Edguy. Già, perché proprio con Hellfire Club i cinque crucchi sterzarono decisamente verso un metal più a tutto tondo, sposando uno stile che non dimenticava le origini power ma che le inglobava in una musica più piena e composita. E così, in questo senso, Burning Down the Opera è stato un passo necessario della loro discografia. È il classico live album fatto come si deve: buona produzione ai Finnvox di Helsinki (con l’aiuto di Mika Jussila e Sascha Paeth, tra gli altri), buon coinvolgimento del pubblico, due dischi e quattordici pezzi che vanno a pescare da un po’ tutta la loro carriera, con anche due cover degli Avantasia (Inside e Avantasia), che non possono mai mancare in un loro concerto. C’è pure un assolo di batteria di Felix Bohnke, che è l’unico membro in formazione a non essere un compagno di scuola di Tobias Sammet e da cui quindi ci si può aspettare qualcosina da un punto di vista tecnico. Se vi piacciono gli Edguy qui troverete l’occasione perfetta per canticchiare per un’oretta e mezza.

6 commenti

  • Avatar di Ale

    Per la serie “che fine hanno fatto”… mi mancano i Pro Pain, l’ultimo album risale al 2015. Meskil, dopo l’aggressione subita, mi sa che non si è mai più ripreso completamente. Certamente l’album di cover non è tra i loro migliori.

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  • Avatar di Bacc0

    Bah oddio, non credo che la successiva evoluzione di Forgotten Tomb sia dovuta a chissà quali compromessi. Anche perché non mi pare che abbiano avuto questo grande riscontro commerciale. Semplicemente le band si evolvono, le persone maturano ed è ovvio che uno a trenta , quarant’anni non abbia più la stessa visione del mondo che aveva a venti. A meno di non essere un perfetto idiota

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  • Avatar di Bardamu

    Il nome Abazagorath é un omaggio agli Impaled northern moonforest oppure fu Putnam che li citò nel titolo di una “canzone” del suo mai troppo elogiato progetto di true unholy grim and frostbitten black metal acustico?

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  • Avatar di weareblind

    E’ ora di riscoprire i Gamma Ray.

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