Avere vent’anni: agosto 2002

MESHUGGAH – Nothing

Lorenzo Centini: Disco che contiene Straws Pulled at Random, che è forse uno dei miei brani preferiti in assoluto, per lo meno in campo metal. Brano che è la Cappella Sistina di quel post-technical-groove-death-industrial metal che, per semplicità, verrà poi ribattezzato djent, causando mal di orecchie, mal di denti e non pochi fraintendimenti. Ma la sostanza principale di Nothing non è nemmeno nello splendore lunare delle intuizioni armoniche di quel brano lì. Anzi, il senso vero si trova nella scelta di un approccio minimale, tra chitarre e basso accordati uguale e che scattano costantemente all’unisono, accentuando gli spazi vuoti tra massa muscolare e ossatura ritmica. E la tortura costante, il martellare continuo, insistito, ininterrotto su charlie, crash o china, sempre sul battere, qualsiasi sia la figura ritmica sottesa, a scavare non visto un buco nel cranio, goccia dopo goccia, minuto dopo minuto. Il senso di Nothing è tutto lì, un esercizio di sfinimento, apparentemente meno estremo di altre prove dei nostri. E quasi per questo meno prevedibile. Poi certo, le soluzioni soliste sono quasi melodiche, intelligibili. Ok, se i Meshuggah non fanno per voi c’è poco da aggiungere. Semmai potrei provare a consigliarvi un successivo ObZen, quasi fruibile nel suo estremismo. Nothing no. È un esercizio freddo di cinismo e sadismo applicato alla musica. E se qualche riff, tipo quello di Rational Gaze, vi fa quasi scapocciare è solo per un fraintendimento, ennesimo, delle intenzioni dei folli svedesi. Che vogliono far male per davvero. Seviziare. A voi capire se si tratta di una tortura piacevole o meno.

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FORGOTTEN TOMB – Songs To Leave

Griffar: Vent’anni fa Songs to Leave lo ascoltammo tutti e piacque a (quasi) tutti. Ne parlammo sui forum dell’epoca discutendo se Herr Morbid fosse un antipatico cialtrone che se la tirava da depresso antisociale, marciando sulla fama che gruppi come Shining e Silencer, Nocturnal Depression e Drowning the Light, Abyssic Hate e Khrom stavano riscuotendo grazie al loro peculiare depressive black metal autodistruttivo (emblema di pura agonia, sofferenza, desolazione, abbattimento, costernazione, sconforto e ogni altra sfumatura che possa piacervi nel definire la tristezza più intima e definitiva) o fosse invece un signor artista, capace di giocarsela alla pari con i grossi calibri e ritagliarsi un suo spazio all’interno di un sottogenere che in tanti hanno adorato prima di abbandonarlo, forse esausti per l’eccessiva pesantezza che molti dei gruppi suddetti hanno successivamente introdotto nei loro schemi musicali, sempre più neri, sempre più necro, sempre più vicini a un funeral doom mascherato da black metal grazie alla voce in screaming. I cinque lunghi brani presenti in Songs To Leave riescono nell’intento di angosciare l’ascoltatore. Penso a Solitude Ways palesemente ispirata ai primi Katatonia, alla (relativamente, sette minuti scarsi) più dinamica No Way Out o alla marcia funebre conclusiva di Disheartenment, un’apoteosi di circa tredici minuti, riuscitissima, forse il brano migliore di tutto l’album. Personalmente, quando ebbi l’occasione (molti, molti anni fa, era appena uscito Springtime Depression) di conversare con Herr Morbid, non ne ebbi un’impressione particolarmente spiacevole. Certo è che il tipo sull’atteggiamento da poeta maledetto ci ha costruito sopra una carriera longeva che tra alti e bassi ancora dura. Nel 2020 è uscito il decimo full, discreto. E a livello planetario i Forgotten Tomb sono uno dei gruppi italiani più noti ed apprezzati e questo vorrà ben dire qualcosa, no? Tuttavia, penso che questo esordio e il successivo, già citato, Springtime Depression siano i loro episodi migliori, quelli da cui cominciare per avvicinarsi alla musica del gruppo piacentino.

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THE BERZERKER – Dissimulate

Ciccio Russo: La relativa popolarità goduta all’epoca da questa band è in buona parte legata a una delle prime leggende urbane metalliche dell’era di internet, ovvero la voce secondo cui il batterista Gary Thomas fosse entrato nel Guinness dei primati come pestapelli più veloce del mondo, con 19 battiti al secondo per mano. Ovviamente non era vero e, anche se lo fosse stato, l’eventuale record non è stato mai convalidato. Ad ogni modo, i The Berzerker non erano affatto male e il secondo Lp Dissimulate è forse il loro lavoro migliore. Death/grind industrialoide, venato da quella peculiare follia che spesso caratterizza i gruppi australiani. L’idea del cantante Luke Kenny, che veniva dalla gabber, era sposare l’elettronica più sparata con il metal estremo. Eppure Dissimulate è tutt’altro che un’orgia di violenza pura, dai ritmi frenetici e ininterrotti. La costruzione dei riff non è affatto banale, le dinamiche sono ben orchestrate e, riascoltato oggi, Dissimulate non suona come semplice modernariato. Metal Archives dà i The Berzerker per riuniti da tre anni ma finora non è giunto alcun segno di vita concreto.

SHAMAN – Ritual

Barg: Gli Shaman erano il gruppo fondato dai tre fuoriusciti dagli Angra dopo Fireworks, ovvero il bassista Luis Mariutti, il batterista Ricardo Confessori e ovviamente il cantante Andre Matos. La formazione era poi completata dal fratello di Mariutti, Hugo, alla chitarra e da una carrellata di ospiti di tutto rispetto (Derek Sherinian, Miro, Sascha Paeth, Tobias Sammet per citare i più rilevanti). Sinceramente ritengo Ritual molto migliore del “cugino” Rebirth, il disco degli Angra con la nuova formazione che uscì pochissimo prima. Lo trovo più vario, più vivo, più in linea con la storia evolutiva degli Angra rispetto al pur carino Rebirth. Poi, ovvio, qui c’era Matos e lì no. È un disco di respiro piuttosto ampio, che riunisce tutte quelle sfaccettature che gli Angra avevano abbastanza rigidamente separato per album: quella più tradizionalmente power di Angels Cry, quella etnica di Holy Land e quella progressive di Fireworks. Pezzi come l’omonima e For Tomorrow, però, portano avanti il discorso e aprono un capitolo che la band madre non aveva ancora esplorato. Merito è anche di Hugo Mariutti, che si dimostra chitarrista coraggioso e privo di troppi scrupoli nel mettere in discussione alcuni punti fermi. E, dopo cinquanta minuti di power-prog raffinato ed evoluto, il disco si chiude con la tamarrissima Pride, senza molti punti di contatto col resto dell’album, in cui il duetto Matos/Sammet confeziona una bordata power melodica e senza pretese che aiuta a riportare i piedi per terra. Ritual avrebbe meritato molta più considerazione, ma così va la vita.

CRAFT – Terror Propaganda

Michele Romani: Terror Propaganda, assieme al precedente Total Soul Rape, è di solito uno di quei dischi a cui si fa riferimento quando si parla di revival darkthroniano, ossia quel periodo di tempo in cui molti gruppi black cominciarono a suonare come i Darkthrone di un tempo, quasi in risposta alla sperimentazioni che avevano caratterizzato la scena norvegese di fine anni ’90. Sarò sincero, tutto ‘sto culto attorno ai Craft non l’ho mai compreso sino in fondo: sono fondamentalmente una band di medio livello che ha pubblicato una serie di buoni lavori ma nulla che abbia mai fatto gridare al miracolo. Di questi Terror Propaganda è senza dubbio il mio preferito, probabilmente perché è quello più vario di tutti visto che troviamo classiche bordate darkthroniane (Ablaze), momenti più cadenzati (l’ottima The Silence Thereafter) e altri al limite del black‘n roll come Hidden Under the Skin, un black metal che, nonostante la provenienza della band, di svedese non ha proprio nulla. Un buon lavoro senza dubbio, ma non andrei oltre.

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COLDPLAY – A Rush of Blood to the Head

Lorenzo Centini: A Rush of Blood to the Head è registrato dalla stessa minuscola banda che aveva tirato fuori l’inaspettato e ispiratissimo Parachutes un paio di anni prima e ne conferma solo in parte la forma. Messa via l’aria timida (artefatta?) dell’esordio, prorompe qui già quell’ambizione equa e solidale che condurrà i nostri a generare quel mash-up osceno tra U2 (ultimi) e Jova Beach Party. Così si leggono la ramanzina dell’iniziale Politiks e i due successi planetari, studiati per essere appiccicosi, In my Place e The Scientist. Nemmeno brutte, a voler dare ascolto al proprio lato più gentile ed indulgente, ma roba per la quale varrebbe già la pena bandire i Coldplay dalla memoria (la voce del diavoletto, all’orecchio sinistro, è più forte). Eppure non tutto quel che c’è qua dentro è da buttare e qualche traccia ancora viva della tradizione canzoniera britannica c’è. Anche la pioggia estiva new age per pianoforte di Clocks emoziona senza causare per questo troppa vergogna (diavoletto, non tirare troppo la corda). Capimmo definitivamente che andavano riposte tutte le speranze già col disco successivo, che appunto ricicla di fatto lo stesso giro di piano di Clocks per costruirci un singolo fotocopia. E capimmo anche che col loro precoce declino artistico (e immenso successo commerciale conseguente) seppellirono definitivamente anche le velleità di quella scuola minore albionica che, tra Doves, Turin Brakes, Starsailor e Travis, sembrava una piccola reazione educata al brit rock etilico della generazione immediatamente precedente. Proseguirono i Keane poi a frantumarci i coglioni. E gli Elbow, ma artisti veri, loro, con qualcosa da dire alla gente che non sia un banalotto slogan progressista.

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THUS DEFILED – Fire Serpent Dawn

Griffar: Sommerso, introvabile Ep autoprodotto uscito in versione cd-r nell’agosto del 2002, dopo un altro Ep uscito due anni prima intitolato A Darker Beauty, pure autoprodotto ed ugualmente impossibile da recuperare. Non perdete tempo a cercarlo: io lo faccio da anni e non l’ho mai trovato. Capitasse che riusciate a reperirne una copia, non oso immaginare la richiesta economica. Questi due mini furono pubblicati dagli inglesi Thus Defiled a cavallo tra i loro primi due full, il sublime Through the Impure Veils of Darkness del 1995 e l’altrettanto mirabile (poco al di sotto del predecessore) Wings of the Nightstorm del 1997, usciti entrambi per la microscopica Dark Trinity Productions e questi sì degni della profusione di ogni energia pur di riuscire ad averne una copia. Il black metal dei Thus Defiled è semplicemente stupendo, tetramente melodico, ombroso e ammantato di uno spesso strato di caligine, colmo di soffuse armonie che entrano in testa e vi rimangono man mano che passano i decenni, immutate. I primi ad aver introdotto il cantato in growling nel black metal (prima di loro non ricordo di averlo mai sentito in qualsivoglia disco), i Thus Defiled sono, per quanto mi riguarda, il miglior gruppo di black metal classico mai uscito dall’Inghilterra, superiori anche ai primi Cradle of Filth, che comunque scrissero dischi enormi. È un black diverso, meno veloce, meno gotico e meno teatrale ma ugualmente maligno e denso nelle sue strutture, come solo i gruppi storici furono in grado di fare. Non bisogna dimenticare che il gruppo è in giro dal 1992, e di acqua sotto i ponti ne è passata proprio tanta. Se già li conoscete saprete che due pezzi di Fire Serpent Dawn (l’omonima e Of Shadow and Storm) sono stati ripubblicati nel terzo Cd della band, Weeping Holocaust Tears (2003), mentre la lunga Beyond the Seventh Circle of Fire (quasi 11 minuti) è finita nel quarto album, Demonspawn del 2007, accorciata di circa due minuti e mezzo. I Thus Defiled post-2000 sono una band che ha complicato parecchio le partiture e allungato i brani. Un po’ meno oscuri rispetto ai due primi lavori ma comunque una band che vale sempre la pena ascoltare. Ufficialmente sono ancora attivi anche se, dopo Demonspawn, è uscito un solo inedito, Armagedda in Rapture, incluso in A Return to the Shadows, Ep del 2017 contenente per lo più cover di classici thrash e death. Poi, il silenzio.

MESSIAH’S KISS – Prayer for the Dying

Barg: Premi play e parte Light in the Black, così, senza chiedere permesso. Comincia così l’epopea dei Messiah’s Kiss, gruppo nato dalle ceneri dei Repression, tedeschissima banda heavy metal di cui i presenti ripropongono l’intera formazione (rimasta invariata fino a oggi, caso più unico che raro) con la sola eccezione del cantante, Mike Tirelli, già negli Holy Mother e in svariate altre band. Questo è uno dei casi in cui ascoltare il disco intero è complicato perché rischi di andare in loop sulla prima traccia senza mai sbloccarti; ma Prayer for the Dying è godibilissimo tutto, nonostante l’eccezionalità della suddetta Light in the Black. Sembravano avere tutto per avere successo, i Messiah’s Kiss; all’epoca li intervistai e pronosticai loro un radioso futuro, ma qualcosa non è andata come doveva andare. Ora Prayer for the Dying non lo trovate neanche su Spotify, con grande scorno della mia playlist di heavy/power metal che senza Light in the Black è come monca.

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INTERPOL – Turn On the Bright Lights

Lorenzo Centini: Ricordavo fosse una figata l’esordio degli Interpol. Loro avevano la faccia e l’atteggiamento da stronzi sin dalle prime foto pubblicate. Però ricordavo il disco fosse una figata. Questo qui, che quelli dopo non mi piacquero per nulla. Sono scaduti quasi subito. Ricordavo questo fosse il disco rock scuro, anzi dark, del quale finalmente potevi parlare anche con le amiche, quelle dell’altro sesso. Mica per rimorchiare, non scherziamo. Rimorchiare non è TRVE, specie con la musica. Però ricordavo fosse zeppo di belle canzoni, che un esordio lo scrivi nel tempo che vuoi, senza nessun discografico a metterti fretta. Ricordavo un incipit memorabile, Untitled, molto Cure ma pure post. Tentazioni Smithsiane e un singolo, PDA, veramente notevole, con quel mix di goth inglese e indie americano che era il senso dell’operazione. Poi però, ero di fatto ancora un ragazzino, ho approfondito: Psychedelic Furs, Afghan Whigs, Sound, Slint. I Wire e i Television. I Wipers. Gli Smiths che sono diventati il mio Ventolin e non me ne frega nulla se non siete d’accordo con Moz, lui non si rinnega. Tanta, ma tanta bella roba insomma, spunti partiti anche da questo disco qui, strombazzato da riviste di settore ed MTV. Che piaceva a tutti i tristoni e ricordavo fosse una figata. Ora che l’ho rimesso su, però, a parte le due di cui ricordo ancora persino il titolo, non mi pare più tutto questo gran che.

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RIOT – Through the Storm

Ciccio Russo: Through the Storm segna il nadir del periodo più sfigato, quello con l’incolpevole Mike DiMeo alla voce, della carriera di una band già di per sé sfigatissima. The Brethren of the Long House (1995) e Inishmore (1997) furono due dischi bellissimi anche grazie all’indubbia libertà artistica che derivava dal non essere più filati da nessuno, tanto che uscirono solo in Giappone. Poi nel ’99 arrivò la Metal Blade che, con il boom del power in corso, immaginò di poter cavare qualcosa da queste vecchie glorie in disarmo. Il risultato fu Sons of Society, un album dove fu palese il tentativo di Mark Reale di scrivere brani accessibili e commerciali per fare contenta l’etichetta. Non andò bene e se ne andò pure Bobby Jarzombek, sostituito alla batteria da un gregario di lusso come Bobby Rondinelli. Through the Storm ha gli stessi difetti del predecessore (produzione inadeguata, un DiMeo spesso a disagio con una scrittura più aggressiva che cercava di ricollegarsi alla produzione degli anni ’80) e non ha manco quei due o tre picchi che avevano salvato Sons of Society. Poi, certo, è pur sempre un disco dei Riot, davvero brutto non é ma spento, forzato e poco ispirato sì. Come prevedibile, Through the Storm vendette poco o nulla e la Metal Blade scaricò il gruppo subito dopo.

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FUNERIS NOCTURNUM – Code 666. Religion Syndrome Deceased

Griffar: Code 666. Religion Syndrome Deceased è il terzo ed ultimo disco dei finlandesi Funeris Nocturnum, gruppo criminalmente sottovalutato. Ve ne parlai già in occasione dei due dischi precedenti, inutile dilungarmi. Potrò sgolarmi per tutta la vita auspicando per loro e il loro talento giustizia ma temo rimarrò inascoltato. I blackster sono proprio choosy, temo, ovvero “hanno la puzza sotto al naso”. Se, all’epoca di Ritorno al Futuro, Udo Dirkschneider fosse salito sulla DeLorean, fosse atterrato nel 2000, avesse ascoltato un po’ di musica in giro e al ritorno – considerato impazzito – avesse scritto un brano black metal, quello sarebbe Cryonics. Che è il picco di Code 666 ma anche di tutta la loro carriera e con tutta probabilità anche dell’intero filone melodic black metal. Tutto l’album è un gioiello, capace di piacere a chiunque abbia almeno un po’ di metallo fuso nelle vene al posto del sangue e della birra. Nove pezzi, trentacinque minuti di musica suonata da favola, composta da gente incredibilmente ignorata dalle masse senza alcun motivo apparente. Erano tempi così: mancavano punti di riferimento, mancavano gli incendi, gli omicidi, i suicidi, i pestaggi, e chi ascoltava black da un pezzo tutto ciò non lo tollerava. Chi invece ci si stava avvicinando preferiva Burzum, Mayhem, Satyricon e Dissection perché erano sin da allora già storia, inarrivabili, incontrastabili, unici. In parte è vero ma fu un errore che la maggior parte dei blackster s’incaponisse su un tipo di suono che a lungo andare non avrebbe che condotto in un cul-de-sac dove la noia prosperava assoluta e schifassero tutto il rimanente. Gli stessi gruppi storici furono criticati a sangue per aver provato a fare cose nuove. Con la storia che avevano dietro, per loro evolversi era più azzardato che per coloro che vennero dopo. Ccome i Funeris Nocturnum, che – imparata la lezione – cercarono di suonare black metal blasfemo in un modo concettualmente diverso. Non funzionò. Ma su questo disco c’è Cryonics, e se non ve la andate ad ascoltare adesso siete matti.

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