Avere vent’anni: SILENCER – Death, Pierce Me

In che modo un disco diventa cult? Esiste una formula? È una cosa studiata, è del tutto casuale, è solo business? Chi ci guadagna veramente? La band, l’etichetta, i collezionisti? Giunto a cinquant’anni, non l’ho ancora capito. Perché in giro ci sono dischi meravigliosi, straordinari, che hanno sì il giusto riconoscimento del loro valore ma… non sono cult. Nessuno si sogna di spendere patrimoni solo per possedere Pure Holocaust in vinile originale prima stampa. Ci vuole qualche soldino in più del normale, come per la gran parte dei dischi vecchi che hanno forgiato un genere, ma se vi chiedessero 2000 euro per una copia voi vi mettereste a ridere, alzereste un ricchissimo dito medio al venditore e ve ne andreste insultandolo con accademica e colorita varietà lessicale. Invece per Death, Pierce Me le cifre che vengono chieste sono quelle, e sta a vedere che qualcuno che le caccerà (nonostante sia stato ristampato più volte e ne esistano in tutto diciassette edizioni) ci sarà. Perché Death, Pierce Me è un cult album, di quelli che più passerà il tempo e più i prezzi per le versioni più limitate saliranno.
Se andate sulla pagina dei Silencer in Metal Archives noterete che questo album conta trenta recensioni. Occhio che nemmeno In the Nightside Eclipse arriva a tanto, per citare uno degli album più iconici del metal tutto. Non ci arrivano i Satyricon, né gli Immortal e neppure i Cradle of Filth, che hanno goduto di una popolarità straordinaria, ben al di sopra dell’immaginabile. Porca troia, i Cradle of Filth li ascoltava persino un lavapiatti che conobbi in un ristorante tempo fa originario del Bangladesh, che non parlava una parola di italiano ma veniva a lavorare con le loro magliette. Io gli chiedevo come facesse a conoscerli e lui biascicava un “buono musica io piace” prima di rinchiudersi nel silenzio. Eppure nessuno dei dischi dei Cradle of Filth è un cult. Avranno venduto paccate di copie, eppure ciò non basta perché ci sia così tanta gente che voglia dire la propria opinione. Trenta recensioni su Metal Archives sono maledettamente tante per un disco come questo. Le ha Powerslave trenta recensioni, tanto per dare un’idea. Naturalmente c’è chi ne dice merda e chi il contrario, perché Death, Pierce Me è decisamente un disco divisivo. Come tutti i dischi cult.
Death, Pierce Me è un album strano, viene etichettato come DSBM (depressive suicidal black metal) ma contiene molto altro. L’autore di tutte le musiche è tale Andreas Casado, di nazionalità svedese, sotto lo pseudonimo (tedesco, significa vuoto, desolazione) di Leere, che suona chitarra e basso. Fondatore della band all’incirca nel 1996, in seguito ha suonato anche con gli Shining ed è alla prima incarnazione musicale di questi che il Nostro fa riferimento. Di solito si inquadra il DSBM come una musica molto lenta, sovente intrecciata con partiture doom o funeral doom. Il black metal arriva a tratti, a ondate, tranne la voce perennemente in screaming. Death, Pierce Me è diverso, le composizioni sono tutte suonate a velocità piuttosto sostenute, con riff portanti in monocorda più spesso suonati su note alte invece che sui consueti accordi catacombali. La registrazione è perfetta, la scelta dei suoni incredibilmente nitida, segno che la Prophecy productions (la label degli Empyrium, giusto per dire) non ha lesinato sul budget per lo studio, intuendo la potenzialità di una musica che non è pensata per essere suonata dal vivo. Le tracce di chitarra si sdoppiano spesso, altrettanto spesso ci sono sovraincisioni e in alcuni momenti compare un tappeto di tastiere tenute molto in sordina che accentuano la sensazione di cupa malinconia e profonda disperazione. Tra stacchi repentini e interludi acustici, il disco è molto meno lineare di quanto sembri. Riprodurlo fedelmente dal vivo sarebbe un’impresa. Nemmeno renderebbe bene.
E poi ci sono le vocals di Nattramn, e qui viene il bello. Definirle “straziate” non rende abbastanza l’idea, bisogna ascoltarle per crederci. La sua abilità nel comunicare estrema sofferenza fisica e mentale, l’agonia più dolorosa, la più nera angoscia è incontestabile, anche se a un orecchio non avvezzo la sensazione primaria suscitata sarà il fastidio puro e semplice. Occhio, però, non è per niente facile impostare lo screaming in modo così parossistico. Molto probabilmente questo è lo screaming più estremo mai registrato in un disco. Se ascoltandolo penserete che sia una buffonata provate a rifarlo anche solo per una frase e capirete che c’è del lavoro dietro e neanche poco, vista la perizia nell’alternare tonalità completamente diverse, fino al basso o al cantato pulito, sempre nel contesto di profondo disagio che tutto il disco ha come concept principale.
Tutto questo fa di Death, Pierce Me un’opera molto difficile, che non si può ascoltare come sottofondo o a una festa nella quale ci si vuole sfondare di Tavernello Doc Riserva sciabolato per l’occasione – per quello ci sono i Blasphemy. Gli si deve dedicare tempo, ci si deve entrare in sintonia, altrimenti diventa uno dei dischi più fastidiosi della storia della musica, 49 minuti tondi di disgusto.
Forse è anche per questo che il disco, opera prima e unica dei Silencer, che cessarono di esistere di lì a poco per i problemi extramusicali del cantante, è diventato un cult album. In tanti lo hanno ascoltato ma in pochi lo hanno capito davvero, e questo lo ha confinato in un limbo popolato da dischi che i più temono di ascoltare, quasi fossero pericolosi per la propria esistenza. Forse fu per l’immagine disturbante all’interno del booklet che ritrae il cantante con i polsi fasciati e sanguinanti e due zampe di maiale al posto delle mani (avrebbe dovuto essere la copertina ma la Prophecy cambiò idea). O più semplicemente fu perché, dice la leggenda, Nattramn poco dopo l’uscita del disco fu internato in un istituto psichiatrico svedese. Non si sa se questa voce corrisponda alla realtà ma circola da tanto di quel tempo che, come si dice, «un fondo di verità la deve avere». E non credo che i manicomi (chiamiamo le cose con il loro nome) svedesi siano diversi da quelli italiani: non se ne esce sani. A quanto pare, però, il cantante è vivo e sta bene, anche se si dedica a generi lontanissimi dal black metal.
Ancora non l’ho detto: per me questo disco è un capolavoro. (Griffar)
disco bellissimo, poche storie….ha un qualcosa di geniale, le linee vocali (per così dire) si infilano a perfezione nella musica anche se ad un primo ascolto sembrano buttate a caso. Difficile trovare tanto malessere concentrato su disco, peggio pure degli Octinomos. Se lo ascolti a sedici anni secondo me ti lascia danni permanenti al cervello.
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Mi piacerebbe leggere il suo libro, cuore di maiale, peccato che non sia tradotto.
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No,ma , dico…,mai sentito. Vado su iutub: tremilioni di visualizzazioni
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