Musica per gente con gli occhiali: ULVER – Flowers of Evil

Parlare di un disco come Flowers of Evil sulle pagine di Metal Skunk è l’equivalente di una tonante bestemmia in chiesa nel bel mezzo dell’omelia.

Non tanto perché gli Ulver da anni – decenni – stanno al metal quanto il nostro amato ministro degli Esteri sta all’astrofisica (o a molte altre simpatiche materie), ma perché parlarne in un certo modo significa tradire uno dei più antichi e rispettati comandamenti che regolano la vita di questo blog: il teorema degli Ulver (che ritengo del tutto superfluo illustrare a voi affezionatissimi lettori).

Senza troppi giri di parole, il gruppo di Garm non è di certo tra i più amati su questi lidi (quantomeno da oltre vent’anni) e, al contrario, viene spesso usato come paradigma negativo per il percorso che può intraprendere una band. A rischio di essere defenestrato -per di più al mio esordio su MS!- devo confessare di non aver mai condiviso l’assunto del citato teorema e, al contrario, ho sempre seguito con infinita ammirazione le plurime trasformazioni dei norvegesi, cercando di destreggiarmi tra decine di Ep a volte di scarso interesse e di superare l’aura intellettualoide che – volutamente o meno – ha contraddistinto sia la seconda parte della carriera della band che, soprattutto, il suo “nuovo” pubblico. In particolare, con riferimento all’ultimo corso degli Ulver (senza volere in questa sede ripercorrerne la labirintica discografia), ritengo che la sorprendente svolta dettata dal precedente The Assassination of Julius Caesar abbia conferito slancio al progetto, portandolo su territori fino ad allora inesplorati – tra un synth-pop molto personale, wave e un diverso approccio all’elettronica- dimostrando la capacità di Garm e soci di sapersi egregiamente muovere anche in queste coordinate.

Ed è forse la quasi assoluta assenza di sorpresa che, almeno di primo acchito, ha smorzato l’entusiasmo verso il suo successore, Flowers of Evil, che ai primi ascolti potrebbe apparire come una copia sbiadita del suo predecessore.

Un’impressione, probabilmente, giustificata anche dall’ascolto dei primi estratti dall’album (Russian Doll e Little Boy), non tra i migliori episodi del disco, i quali, decontestualizzati del resto dell’album, davano l’impressione di un lavoro privo della profondità e della  ricerca (in primis a livello di suoni) di Assassination.

I ripetuti ascolti dell’album nella sua interezza hanno consentito di fugare, almeno in parte, questi dubbi. E ciò in quanto, pur mancando l’effetto sorpresa e non avendo la coesione del suo predecessore, Flowers of Evil riesce a smarcarsi da quest’ultimo attraverso la ricerca di un sound più immediato, orecchiabile e, semplicemente, pop.

I maligni potrebbero parlare di una versione for dummies di Assassination, ma in realtà, al di là del genere di riferimento, i due album si muovono su binari diversi, così come diverse sono le ambizioni ad essi sottese e una volta decifrato l’approccio del gruppo, brani come Hour of the Wolf, Machine Guns and Peacock Feathers, A Thousand Cuts e, soprattutto, l’iniziale e autocelebrativa One Last Dance (We are wolves / Under the moon / This is our song) impreziosita dall’apporto di Christian Fennesz, non lasciano indifferenti.

Tirando le somme, tra un omaggio a Dreyer, un titolo bergmaniano e un riferimento a Mad Max (!) nel booklet, Flowers of Evil è un disco più che riuscito e, pur non essendo tra i migliori degli Ulver, rappresenta un’ulteriore tappa nell’evoluzione del gruppo. E, dopo quasi trent’anni, non è impresa da poco. (L’azzeccagarbugli)

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