Avere vent’anni: EDGUY – Mandrake

Tobias Sammet una volta disse di aver formato gli Edguy per rimorchiare le compagne di scuola. Alle assemblee d’istituto immagino la cosa sia andata bene, ma poi, una volta entrato nel giro dei tour e dei festival, il nostro eroe si è dovuto scontrare con una delle più grandi verità del mondo musicale, e cioè che col power metal non si scopa. O quantomeno non quanto avrebbe voluto lui. Quindi, a un certo punto, immagino che Sammet abbia riunito gli altri compari (che, a parte il batterista subentrato nel 1997, sono tuttora sempre gli stessi) e gli abbia posto la questione. Il risultato è il cambio di stile coincidente con l’arrivo del nuovo millennio, di cui Mandrake è solo il primo passo.

Già dal primo ascolto si percepisce che la band ha un respiro molto più ampio. Dischi come Vain Glory Opera e Theater of Salvation avevano sconvolto il mondo del power, ma senza aggiungere granché di nuovo; qui invece è come se Sammet avesse iniziato a guardarsi intorno, alla ricerca di nuove soluzioni e nuove vie di fuga. Inizia quindi a prendere piede la sua passione per l’hard rock europeo (specie scandinavo) degli anni Ottanta, e l’apertura Tears of a Mandrake mette subito le cose in chiaro: un pezzo cadenzato, pomposo, con un ritornello in crescendo, che ha ben pochi punti di contatto con la loro discografia precedente. Lo stesso schema è utilizzato per il primo singolo, Painting on the Wall, che all’epoca lasciò abbastanza spiazzati. Ovviamente, essendo questo disco solo il primo passo verso un nuovo stile, non mancano i pezzi sparati in doppio pedale più classicamente power metal, come Nailed to the Wheel, Golden Dawn o la bellissima Fallen Angels. E si inaugura anche un’altra nuova tradizione, cioè il singolino facile facile e dai toni ironici accompagnato da un video: qui è All the Clowns (peraltro manifesto ideologico degli Edguy) a iniziare la scia che poi sarà ripresa dalle varie Lavatory Love Machine, Robin Hood, Superheroes o King of Fools.

Il vero picco del disco è però The Pharaoh, pezzo epico di dieci minuti cadenzato e dalle melodie vagamente orientaleggianti, una specie di Powerslave in salsa di crauti in salamoia, la cui ampiezza di respiro dà un’idea del cambiamento avvenuto in casa Sammet. È proprio con The Pharaoh che gli Edguy mostrano di essere diventati un gruppo più maturo e lanciato verso nuovi traguardi; ed è vero che adesso sono finiti maluccio, ma sarà proprio questa maturazione a regalarci Hellfire Club, probabilmente il loro miglior disco. Inoltre con ogni probabilità Sammet sarà riuscito a centrare il suo obiettivo iniziale: di certo non sarà diventato il nuovo Tommy Lee del backstage, ma quantomeno nel camerino non si ritroverà più soltanto novelli Carrozzi che gli chiedono informazioni sulle regolazioni della testata. Daje sempre, Tobias. (barg)

One comment

  • Loro non sono mai riuscito ad inquadrarli bene. Da una parte hanno la colpa di aver messo il genere in mano ai mongoloidi con umorismo da prima serata Mediaset che trovi su Napalm Records, dall’altra hanno comunque quattro o cinque album di gran spessore ed un cantante per nulla male quando non esagera con gli acuti. Hellfire Club ad esempio me lo ricordo perfetto per i pomeriggi di belligerante alcolismo, mentre questo qui in effetti lo trovai un po’ più imbrigliato oltre che davvero troppo lungo.

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