Tre dischi e un funerale: PANTHEIST, EVOKEN e MOURNFUL CONGREGATION

Sicché uno arriva a fine anno in frenesia da playlist, analizza quelle degli altri, compulsa pletorici listoni delle uscite dei mesi scorsi e si rende conto di essersi perso una quantità di roba tale da rendere obsoleta la classifica vergata pochi giorni prima. La tentazione è quella di mettersi a scrivere recuperoni da dieci album a botta e darsi malati per due settimane in modo da recuperare tutto ma è un intento, per quanto nobile, velleitario. Certe dimenticanze sono però così gravi che non rimediare significherebbe attirarsi le ire degli dei del metal. Il 2018 ha infatti visto tornare tre pesi massimi del funeral doom con lavori così clamorosi che essermeli persi mi sta facendo davvero sentire uno stronzo.

Per esempio, mentre impagino le playlist degli altri, mi imbatto in quella del crudele winterdemon Michele Romani, zeppa di cose notevolissime delle quali non sospettavo l’esistenza, e leggo un nome che mi fa sobbalzare, quello dei PANTHEIST. Quanto avevo amato il loro debutto O Solitude, al quale affibbiai – mi pare – un “nove” sul Metal Shock cartaceo. E insomma, Mighi, va bene la misantropia ma tra tutte le conversazioni inani e deteriori che si svolgono sul gruppo Facebook del blog, potevi pure avvisarmi che era uscito un nuovo disco dei Pantheist, che diamine. Un disco bellissimo, peraltro, uscito dopo sette anni di silenzio che mi avevano spinto a darli per dispersi.

Li avevamo lasciati con il disco omonimo del 2011, irrisolto e segnato da influenze poco ortodosse, tra le quali gli Anathema coevi. Di quella formazione è rimasto solo il cantante e tastierista, il greco-belga Kostas Panagiotou. Gli altri ragazzi hanno lasciato spazio a una line-up internazionale, che comprende il batterista rumeno di Clouds e Shape of Despair, un bassista serbo trapiantato a Londra e alla chitarra Frank Allain, anch’egli londinese (Fen e quarantamila altri gruppi). Il risultato si riallaccia da una parte al sound dei primi lp, dall’altra riesce a innestarvi con coerenza le moderne tendenze cascadiche e post-black.

Che il leader e compositore principale sia il tastierista però si sente: è il suo strumento a scandire l’incedere di solenni litanie come Control and Fire e 1453: An Empire Crumbles, tra cori evocativi di matrice viking e suggestioni ambient-folk degne degli esponenti meno ostici di quella che fu la scuderia della Cold Meat Industry. Bentornati.

Continuiamo a farci del male con gli egregi EVOKEN, devoti sin dal moniker al sacro verbo dei Thergothon. Hypnagogia arriva a sei anni da Atra Mors, che segnò il loro ingresso nella scuderia Profound Lore, casa discografica che conferma di non sbagliare quasi mai. Se cercate un solo riff ripetuto all’infinito per dieci minuti, rivolgetevi altrove. Il suono degli statunitensi non ha nulla di rassicurante e confortevole, ammesso che questi due aggettivi abbiano senso in campo funeral doom.

Il brano di apertura, la splendida The Fear After, ha un incedere relativamente canonico, contrappuntato da mesti archi. Già nella successiva Valorous Consternation, così come nella psicotica Ceremony of Bleeding, dinamismo e tensione crescono con un effetto disturbante. L’alternanza di pieno e vuoto diventa un rincorrersi di ritmiche spezzate e bruschi cambi di registro, con cavalcate di cassa che rompono la lucida trance di un riffing che sembra tener presente alla lontana le evoluzioni di un genere che nel nuovo millennio è stato contaminato da post-rock e post-hc.

Una garanzia da vent’anni. E mo’ che ci penso, nel 2018 ci siamo scordati pure di celebrare il ventennale dell’esordio Embrace the Emptiness ma vi giuriamo che non c’è nulla di personale.

E concludiamo con quello che è l’album più classico della terna, il nuovo dei MOURNFUL CONGREGATION che, come i Pantheist, rompono un silenzio di sette anni con quella che è forse una delle loro opere migliori di sempre. In The Incubus of Karma non c’è davvero niente che non vada, posto che stiate cercando la colonna sonora giusta per perdere ogni residuo barlume di voglia di vivere e abbandonare il consesso civile per esiliarvi in una sperduta località marittima e stendervi sulla battigia in attesa che i gabbiani vi mangino vivi.

Se conoscete gli australiani, sapete cosa aspettarvi. Un doom fatto di chitarre funeree e plumbee parentesi acustiche che dipingono melodie di abbandono e rassegnazione con l’unico colore disponibile: il nero. Rispetto ad altri adepti del filone, ferma una matrice che guarda ai capostipiti (Skepticism in testa), c’è un maggiore debito nei confronti del gothic doom inglese, in particolare i My Dying Bride più lenti e disperati, sebbene l’elemento estremo sia confinato a un growl soffuso e i tempi siano molto più dilatati e ipnotici. E anche questi vanno recuperati prima di subito, come direbbe il Carrozzi.

Questo articolo è dedicato alla memoria del fu Fabrizio “Doom” Socci. Possa egli vivere per sempre. (Ciccio Russo)

 

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