Avere vent’anni: TOOL – Lateralus

Qualcosa di importante stava accadendo. Si percepiva. C’era ancora fibrillazione nell’aria per Blackwater Park, che aveva mandato fuori di testa parecchia gente. Perché i dischi avevano ancora una durata superiore al minutaggio del supporto e si ascoltavano e riascoltavano per settimane e mesi. Si aspettavano anche in anticipo, interrogandosi su come sarebbero stati, se ne cercavano notizie sulle riviste. Le anteprime non erano storie di Instagram, ma veri passaparola: si capiva, si sentiva dire, si percepiva che i TOOL stessero per cacciare fuori un capolavoro, ancora una volta. Che non sarebbe stato facile o immediato, anzi, criptico, quasi ostico. E capolavoro è stato, diciamolo subito. Ce se ne è resi conto non appena si è avuto modo di ascoltarlo. E all’epoca le case discografiche ancora investivano in dischi del genere ed erano ripagate dalle vendite! Dritto al numero 1 di Billboard, mica male per un’opera che mischia prog e metal e un mucchio di altre cose. Chi era in cerca di emozioni vere spendeva ancora per un disco. I dischi si regalavano. Un’altra epoca… Beh, in quel contesto accadeva ancora che ne uscissero di così significativi da segnare, appunto, un’epoca e svariate centinaia di migliaia di ascoltatori. Lateralus è uno di questi.
Sui Tool ci si divide sempre in due categorie, entrambe abbastanza coi paraocchi, fastidiosamente, anche se ogni punto di vista è ovviamente è legittimo. Quelli che “non li capisco, mi rompono le palle, sono solo una lagna“. E quelli de “la serie di Fibonacci, il pickup difettoso di Jones, il pavimento sferico di casa di Maynard…“. My two cents: ad entrambe le categorie sfugge una cosa semplicissima: i TOOL suonano rock per basso, chitarra e batteria. E scrivono canzoni (o almeno fino a 10’000 Days l’hanno fatto). Canzoni splendide. Le seghe mentali possono benissimo essere lasciate da parte, sono solo fumo. La sostanza è molto più concreta, epidermica, istintiva e muscolare di quanto possa sembrare. Lateralus, che è ancora più criptico di Ænima, non è però affatto ostico, in realtà. I tempi dilatati, le evoluzioni fluide, le esplosioni metalliche, le melodie ipnotiche ne fanno un disco mastodontico ma anche incredibilmente sensato, dall’inizio alla fine. E ammaliante. Non è veramente possibile estrapolarne una parte per rappresentarlo tutto. Ha sì dei singoli, per modo di dire, ma è un unicum e come tale va ascoltato. Però quello che voglio dire è che non serve essere occultisti esperti o avere una laurea in matematica per esserne ammaliati o presi a schiaffi nei momenti più energici.
È un disco profondamente rock, nell’accezione più fantasmagorica e caleidoscopica della parola. Anzi, ne è una delle manifestazioni più entusiasmanti di sempre. E che una tale varietà di sensazioni sia prodotta, al netto di qualche campionamento, da tre strumenti soltanto più voce, con pochissime sovraincisioni (ce se ne può rendere conto dal vivo) ha del pazzesco. Il rigore rabbioso degli Helmet. La matematica pericolosa e lucidissima di Red dei King Crimson. E poi la devianza infida dei Melvins. La capacità narrativa dei Rush. Lo scazzo fangoso degli Alice in Chains più scuri. La potenza immaginifica e liberatoria dei Kyuss (in alcuni tratti Keenan e Garcia si potrebbero persino confondere, o per lo meno dare il cambio come su di un ring). Lo spirito naif dei Jane’s Addiction. La capacità dei Dead Can Dance di suonare come se si provenisse da un’altra epoca e da un altro luogo. E la semplicità apparente ed arrapante dei Led Zeppelin nel comporre epopee magniloquenti eppure orecchiabili. Tutte componenti (e riferimenti) presenti nella musica dei TOOL, eppure comprensibili solo dopo un po’ che ci si mette a decodificarli. Perché in realtà la sintesi che arriva immediatamente alle orecchie è quella di una personalità fortissima che può essere definita solo come TOOL, al 100%, e come tale viene poi riconosciuta all’istante, senza possibilità di confonderla con qualsiasi altra espressione. Una personalità pazzesca di musicisti che sì, sanno suonare e comporre pezzi complessissimi. Ma non è una colpa questa, specie se i risultati sono quelli di cui stiamo parlando. Che poi a me ha sempre fatto specie che tutto questo provenga da tre yankee dall’aria presuntuosa e con la villa a Hollywood (per non parlare del gentiluomo inglese). Ma il mischiare l’alto ed il basso, il fango e la ruggine del metal con le elucubrazioni esoteriche, la ribalta di Hollywood con una credibilità però inattaccabile, fa parte di quel mistero insolubile incarnato da questa band. Che forse però si è sempre solo interessata a comporre splendida musica (ovviamente non considero Fear Inoculum, che è una specie di raccolta di b-side in chiave lounge col vocoder di Peter Frampton) e per il resto si è divertita a prenderci abbondantemente per il culo (ecco appunto, Fear Inoculum).
Tornando alla musica, che di quello ci deve interessare in realtà, si può discutere per ore se sia meglio questo o il precedente. Sarebbe come discutere del sesso degli angeli, non porterebbe da nessuna parte (ma io voto Lateralus, comunque). E poi si dimenticano gli esordi, più asciutti e grunge, che sono una goduria. E se poi si volesse fare le pulci a 10’000 Days, beh, sarebbe da stronzi. Gran disco anche quello. Ve lo dico, non ero partito per scrivere una tale sviolinata, che io anzi non mi ritengo nemmeno un vero fan dei TOOL, tra i musicisti più antipatici di tutto il music business. Ma quando te li spari in cuffia puoi benissimo non pensarci. E anzi, quando poi ti trovi a rimettere su Lateralus non puoi far altro che constatare basito la bellezza di questa musica, come quando ti ci approcciavi per la prima volta venti anni fa da ragazzino, con l’impressione di stare esplorando un mondo nuovo. Disco immenso. Che altro gli vuoi dire. (Lorenzo Centini)
Stupendo anche secondo me e unico che mi piace davvero. Bon anche il precedente ma questo di più
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con Anima ero sotto. tantissimo. ho aspettato anch’io trepidante Laterale. poi li vidi all’Alcatrazz, e poi… non li ho più ascoltati. mai. quando è uscito l’ultimissimo, per me non esistevano , mi sono ascoltato Old Star dei Darkthrone e lì ho ritrovato me stesso. Death e Black per i prossimi mille anni!
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