Avere vent’anni: ottobre 2003

THE CROWN – Possessed 13

Marco Belardi: Prenotarmi per la recensione di Possessed 13 era solo una trappola per riesumare Luca Bonetta, che, per il sottoscritto, è una sorta di copertura assicurativa. È anche lui un batterista, e pertanto, dal momento che in una doppia recensione saremmo stati in due a scrivere ossessivamente di fill su cassa e rullante, io sarei potuto apparire un po’ meno sociopatico. L’avevo pensata più o meno in questo modo. Il problema è che Bonetta, uno dei tizi di Metal Skunk che leggevo più piacevolmente prima d’entrarci a mia volta, è scomparso. Ho dato per scontato che sarebbe riapparso se qualcuno si fosse prenotato per un album a caso dei The Crown. Sono il suo gruppo, la ciotola che fa ringhiare il cane se gliela sposti da sotto la bocca. E invece Possessed 13 è tutto mio, in esclusiva, con l’obbligo di risentirlo perché – sarò sincero con voi – degli svedesi ricordo l’accoppiata Hell is Here/Deathrace King e di tutto il resto provo una spiccata simpatia per il solo album con Tompa. Non li ho mai cacati di striscio dall’attimo in cui si sono riformati e questo mi fa sentire un pelino una merda. Quel che so con certezza è che all’uscita Possessed 13 non mi piacque affatto, anche se nessuno s’immaginava che si sarebbero sciolti di lì a poco. Era un’accozzaglia di nuova e vecchia roba rielaborata perché avesse un senso in un disco vero e proprio. Vollero perfino rifilarci un bonus disc intitolato Bonus 13 con le due demo e qualche scarto di quell’epoca embrionale. Deliverance è l’unica che ancora oggi mi fa scapocciare; il resto è la versione scarica e ripulita di quel che i The Crown erano stati fino a una manciata d’anni prima: una furia che travolgeva tutto.

DEVILDRIVER – st

Barg: Dopo gli avvenimenti di qualche mese fa, noi di Metal Skunk non perderemo mai più occasione di parlare dei DevilDriver. È un impegno che abbiamo preso con il lettore Al ma soprattutto con noi stessi. Diventa quindi imperativo celebrare il ventennale del debutto della band, che peraltro all’epoca non mi dispiacque per niente. Fu più che altro una bella sorpresa, perché Dez Fafara veniva dai Coal Chamber e sentirlo alle prese con qualcosa di così aggressivo fu strano. Aggressivo ma in modo ragionato, però: se l’ultimo Dealing with Demons II era una sequenza ininterrotta di calci in bocca tirati in maniera monotona e ripetitiva, questo aveva ancora una bella varietà al suo interno. Certo, sentire l’album dall’inizio alla fine è un po’ fiaccante, ma probabilmente DevilDriver era la cosa migliore fatta da Dez Fafara fino a quel momento, e il singolo I Could Care Less rappresentava tutto ciò che di buono c’era in quel particolare genere musicale. Non è molto, ma è sempre qualcosa.

GORGASM – Masticate to Dominate

Griffar: Divertentissimo disco di brutal death tecnico, scattante e saltuariamente pure melodico, come nella furibonda Anal Skever posta in apertura come monito ai malcapitati ascoltatori, Masticate to Dominate è un altro piccolo gioiello che raggiunge i vent’anni d’età senza dimostrarli per nulla. Già autori di un pregevole album un paio d’anni prima (Bleeding Profusely), i Gorgasm spingono più in alto l’asticella e complicano ulteriormente le loro composizioni, ora diventate frenetiche, strapiene di stop’n’go, cambi di tempo, rallentamenti, riff in staccato, blast beat, schegge di assoli e persino fraseggi di chitarra gustosamente armonici. Naturalmente prevale l’aggressione più furente perché siamo in un contesto brutal death e pure di quelli spessi, ma può succedere. I brani sono vari e cangianti, avvitati, attorcigliati al pentagramma come edera velenosa e rendono Masticate to Dominate veramente spassoso da ascoltare. Oltretutto si parla di mezz’ora appena suddivisa in 10 capitoli. Pochi campionamenti di film horror (per fortuna), voce gutturale intensa ma mai grottesca o stile scarico-di-lavandino-intasato: Tim Tangelos a tratti canta liriche talmente serrate che potrebbero sembrare un freestyle rap in versione brutal death, tutte naturalmente a tematiche spintissime horror/gore, ma in generale è ben comprensibile e ricorda un po’ il Corpsegrinder epoca Monstrosity. Con sezione ritmica (rinnovata, con bassista e batterista nuovi) affiatata e feroce, e chitarre poco compresse per accentuarne la comprensibilità, Masticate to Dominate è ai vertici del brutal death e sono già vent’anni che rompe ossa. Continuerà ancora per molto tempo, credo.

ASMEGIN – Hin Vordende Sod & Sø

Michele Romani: L’esordio degli Asmegin per Napalm Records (quando ancora detta etichetta non produceva merda plastificata) fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno nel variegato viking-folk metal dell’epoca. Uscito leggermente in ritardo rispetto ad altri dischi più noti, Hin Vordende Sod & Sø ebbe una buona cassa di risonanza, anche perché gli Asmegin erano veramente una band del tutto particolare: se ad un ascolto distratto infatti si potrebbero catalogare come una sorta di Otyg più brutali, andando avanti nel disco non ci si può non accorgere nell’incredibile varietà di cui sono composte le sue undici tracce. Praticamente non c’è un riff che si sussegue per più di 5 secondi, tra sfumature black, tipici tratti del viking vecchia scuola, puro folk nordico intensissimo e per nulla caciarone e una marea di voci femminili che si scambiano di continuo. Il rischio di dischi del genere è sempre quello di far perdere il bandolo della matassa all’ascoltatore di turno, ma non è questo il caso di Hin Vordende Sod & Sø, che nella sua pur estrema complessità va giù che è un piacere con tre-quattro brani assolutamente degni di nota. Purtroppo la band di Viken, dopo l’inferiore Arv del 2008, farà perdere le sue tracce. Un vero peccato.

GRAND MAGUS – Monument

Cesare Carrozzi: Qua JB e compagnia ancora facevano doom e non l’heavy metal duro e puro degli anni a venire. Mi piace, più perché adoro la voce di JB (e quanto hanno fatto dopo) che non per il doom, che come genere non mi ha davvero mai attratto più di tanto, tranne qualche eccezione. Comunque un buon lavoro, ma dopo faranno molto meglio.

CRYSTALIUM – Diktat Omega

Griffar: I Crystalium francesi oramai hanno cessato l’attività da molto tempo, anche se i suoi componenti sono rimasti coinvolti nella scena disperdendosi in questo o quel gruppo. Hanno inciso quattro dischi: il primo del 2001 è introvabile, De Aeternitate Commando è dell’anno successivo e questo Diktat Omega è il terzo; dopodiché, dopo il quarto Doxa o Revelation del 2007, la band evaporò. Hanno sempre suonato un black metal assai veloce, reso pomposo dalle molte tastiere che accompagnano il lavoro delle chitarre, e hanno sempre messo molta melodia nelle composizioni e molta grandeur francese nei testi, cosa che si riversa poi nella musica, enfatica, solenne e magniloquente anche grazie ad arrangiamenti strabordanti e all’uso di campionamenti di canti popolari presumo risalenti alle guerre mondiali (non so il francese, ma lo spirito pare quello) tipo in Unifiez les chairs, mes frères o altrove. È un tipo di black coinvolgente che non disdegna rallentamenti al limite del thrash e assoli anche prolungati di chitarra (Dans la splendeur de notre irrévérence), ma qualche difettuccio c’è: alcuni brani vanno avanti troppo a lungo e il batterista (pure in Arkhon Infaustus e successivamente in Sektarism) pare più suonare in un gruppo brutal che in un oscuro e marziale progetto black metal. Anche i suoni risultano triggerati, artefatti, non particolarmente adatti al contesto; la industrialeggiante strumentale conclusiva Empires et Méritocratie è noiosissima anche se dura solo tre minuti, e se non ci fosse stata sarebbe stato meglio. Nulla di eccessivamente problematico, però andava detto. Black metal francese al di sotto della sufficienza io non ne ho mai ascoltato e non è questo il primo caso, affatto. Anzi, devo dire che a me i Crystalium sono sempre piaciuti molto, con questo atteggiamento da condottieri spavaldi intenzionati a riconquistare quel che Napoleone ha perso. Peccato che il passato se li sia ingoiati nell’oblio e che siano stati dimenticati.

EIDOLON – Apostles of Defiance

Marco Belardi: Gli Eidolon erano forti di contratto con Metal Blade e pubblicavano un album all’anno, con una meticolosità e una perseveranza degne dei migliori sociopatici. Formalmente non avevano niente che non andasse: bei riff, scrittura e approccio professionali sin dagli esordi, tant’é che i Megadeth si servirono dei fratelli Drover per la registrazione di United Abominations. Credo, però, che pochi gruppi al mondo mi spacchino il cazzo quanto gli Eidolon. Provo a spiegarmi meglio: in sette pubblicazioni messe al mondo da questi disgraziati canadesi non ho memorizzato neanche una canzone. E quei dischi me li sono sentiti tutti, da Nightmare World in poi addirittura la settimana stessa dell’uscita sul mercato. Mi ricordo solo il titolo di Coma Nation, che non era affatto un brutto album; degli altri ho rimosso qualsiasi dettaglio e li ritengo pressoché intercambiabili eccetto, forse, i primi due, differenti nel suono e un po’ più acerbi che in consuetudine. Apostles of Defiance, penultimo album degli Eidolon, è una bordata di metal classico aggressivo e moderno, e fu l’ultima volta che i Drover si servirono del cantante Pat Mulock in studio. Credo che in assenza della collaborazione di Glen Drover con King Diamond (House of God) e di quella con i Megadeth d’entrambi, nessuno si sarebbe mai accorto di questa band. Tranne il sottoscritto, che per qualche motivo scelse di non perdersi niente.

TRAVIS – 12 Memories

Barg: Questo disco non c’entra nulla con Metal Skunk, neanche di striscio. Ne parlo solo perché l’ho ascoltato allo sfinimento e continuo a riascoltarlo ogni tanto, dato che a me questa musica qui è sempre piaciuta. Siamo in pieno britpop, con tutte le caratteristiche, le fisime e i cliché del genere, e 12 Memories odora di anni Novanta anche se ormai quel periodo era passato. Ma c’era ancora qualche postumo sparso, tipo i Travis, che erano esplosi due anni prima con il terzo album The Invisible Band e i due relativi singoloni Sing e Slide, che all’epoca trasmettevano pure al citofono di casa. 12 Memories però è stato l’unico loro disco che ho approfondito, e non mi ha mai più abbandonato. Singolarmente i pezzi non sono tutti belli allo stesso modo, ma sentito in sottofondo la domenica pomeriggio mentre fuori piove è perfetto.

PEST – Desecration

Griffar: Desecration è il debutto dei Pest – quelli svedesi, lo preciso perché esistono altri gruppi chiamati così: due in Germania, uno in Finlandia e uno negli Stati Uniti. Viva la fantasia. Già che siamo in argomento fantasia, almeno in questo esordio i nostri ragazzi non è che ne abbiano avuta chissà quanta, perché tutta l’opera altro non è che un mischione di tutto quanto suonato in Norvegia negli anni d’oro. Si attinge prevalentemente dai DarkThrone, ma anche dai Carpathian Forest o da Burzum (la quinta traccia Descending, copia quasi smaccata). Nel complesso i pezzi sono suonati in modo decente e anche la registrazione non è confusionaria o approssimativa. Alle voci troviamo uno screaming gracchiante e malefico quel giusto che basta, alcuni riff sono più saporiti di altri – danno il meglio di loro quando danno un po’ di frusta ai cavalli – la batteria è minimale come storia insegna, il basso fa il suo discreto lavoro senza dare troppo nell’occhio. Un disco nella media, che se vi piacciono i maestri norvegesi dei tempi andati probabilmente gradirete, a patto di passare oltre la completa e cronica mancanza di originalità. Mancanza che i Pest hanno conservato con pervicacia durante tutta la loro esistenza: di tutto li si può accusare tranne di aver mai scritto qualcosa di originale o stravagante. L’Archivio li segnala ancora attivi… forse per concerti o festival, perché l’ultimo disco The Crowning Horror è datato 2013, poi il nulla.

DRACONIAN – Where Lovers Mourn

Michele Romani: Ai Draconian bisogna sicuramente dare atto di aver riportato in auge un genere come il doom gotico, che, dopo i vari capolavori di metà anni Novanta che conosciamo tutti, aveva attraversato un lungo periodo di crisi, cercando in qualche modo di snellirsi e rinnovarsi, ma con risultati spesso deludenti. Dopo ben cinque demo il sestetto svedese arrivò al full d’esordio del 2003 Where Lovers Mourn, disco che fu subito un gran successo e proiettò quasi immediatamente la band nel gotha di queste sonorità. Sostanzialmente sia per questo che per il successivo Arcane Rain Fell (che continuo a ritenere superiore) gli svedesi non fecero altro che ripescare a piene mani dal doom inglese dei primi Paradise Lost e soprattutto My Dying Bride, aggiungendoci voci femminili a manetta (ottimo il lavoro di Lisa Gerrard) e naturalmente riportando in auge il binomio beauty and the beast di gente come Theatre of Tragedy o Tristania. Il risultato finale è piacevole anche se non trascendentale, con l’unica pecca di aver messo il brano migliore all’inizio (la stupenda The Cry of Silence) senza però riuscirsi a mantenere sui medesimi livelli nel resto del disco. Purtroppo i Draconian nel corso degli anni andranno a commercializzare molto il loro suono, e tra cambi continui di formazione e di cantanti non riusciranno più a rimanere sui livelli dei primi due lavori.

INVOCATOR – Through the Flesh to the Soul

Marco Belardi: Nel 2003 la notizia di un gruppo storico appena riunito ti portava ad aprire una birra e festeggiare, perché all’epoca nessuno sembrava raschiare il fondo del barile. In realtà tutti lo stavano facendo, di soppiatto. Gli Invocator mi diedero una botta d’adrenalina quando annunciarono il loro ritorno, eppure era necessario guardare al cuore degli anni Novanta per tradurre il tutto in un campanello d’allarme. Weave the Apocalypse era stato un manifesto del downtuning e dei tempi medio-lenti cari ai Pantera, un buon disco, tuttavia non corrispondente alle aspettative. Dying to Live era brutto e basta. Quindi che senso aveva aprirsi una Bulldog all’annuncio di Through the Flesh to the Soul? Nessuno, eccetto per un ventenne. Il disco suonava moderno, per nulla attinente al suono anni Novanta e a tutta quella bella roba ottimamente prodotta, fra gli altri, dal compianto Eric Greif. La voce era in scia ai Forbidden di Green, profonda e carica d’effetti. Le chitarre macinavano bellissimi riff, non senza qualche evidente rimando (Writhe in Spit agli Slayer di Payback e sfortunatamente non solo quella) e un abuso sfrenato del concetto stesso di modernità. Sull’omonima si atteggiavano ad essere i Fear Factory. Per quanto l’album avesse un buon tiro, era impostato per rendere a velocità ridotta, e alla lunga fu questa ricerca ostinata del riffone – pur girando alla larga del mosh – a stuccare. La velocità accennata in sporadici episodi non era più pane per i denti di Jacob e Perle Hansen. Un album con buone premesse e noioso sulla distanza; fosse durato la metà, francamente, non avrebbe avuto alcuna chance d’accontentare i sedici fan degli Invocator sparsi per il globo. La smisero subito, e di loro si sarebbe annotata giusto qualche apparizione nei festival. Con buona pace del batterista Per Jensen, che tanto era tutto preso dai The Haunted.

MUSTAN KUUN LAPSET – Kauniinhauta

Griffar: Kauniinhauta è il secondo full dei finlandesi Mustan Kuun Lapset ed è molto vicino per impostazione al loro esordio Suruntuoja: c’è forse un pochino meno velocità e qualche sfumatura più oscura, ma di fatto ne costituisce l’ideale proseguimento prima che il loro suono si ammorbidisse ulteriormente. Ci troviamo dunque nel campo del black melodico finlandese, non tiratissimo anche se con qualche sfuriata ogni tanto. Più Catamenia che Alghazanth, ad esempio. Oppure Thy Serpent, o Ajattara, siamo lì. Compaiono arrangiamenti di viola (Kauniinhauta, Yksinäisen kuu), chitarre acustiche, voci femminili (Talviyön tanssiinkutsu) impostate sul traditional/folk, svariati momenti di chitarre acustiche e tastiere molto riempitive e d’effetto, pure un pianoforte (Korento). Tutta l’opera è molto melodica e non particolarmente cupa o angosciante, ha un certo sentore di rurale, di autunno/invernale in piccoli centri di campagna dove non è necessario che si debbano affrontare situazioni catastrofiche. È… è più leggero, ecco. Spensierato. La cosa contrasta un po’ con l’idea che si ha del black metal, ma questo filone finlandese il black lo edulcorava molto: pensate ai Thyrfing. La cosa più estrema del disco sono le voci sdoppiate in screaming e growl, che comunque non indulgono nella violenza sonora più distruttiva. Un buon disco per gli amanti del black melodico finlandese, piacevole da ascoltare senza troppo impegno; oltretutto non è neanche molto lungo, 38 minuti, va bene così. Gli manca la hit, il pezzo che fa breccia nei cuori, è per questo che sono sempre rimasti nel limbo che si trova tra chi è diventato famoso e chi è rimasto sconosciuto. Loro né l’una né l’altra cosa.

THE STROKES – Room on Fire

L’Azzeccagarbugli: Il motivo principale per cui ho voluto scrivere di Room on Fire è perché devo fare mea culpa. All’epoca “del botto” gli Strokes mi stavano talmente sul cazzo – così come i loro fan – da ricondurli in quel calderone di band inutili e dannose che spopolavano in quegli anni e che, giustamente, sono finite nel dimenticatoio. Il mio, però, era un giudizio che prescindeva dalla bontà di quei primi dischi che, invece, erano e restano davvero buoni. Se Is This It era un album irripetibile, un instant classic in cui tutto è talmente azzeccato da sembrare quasi creato in laboratorio e caratterizzato da un’irruenza e da una voglia di spaccare davvero encomiabile, Room of Fire è esattamente il doposbronza. È il giorno dopo il successo inatteso, ed è contraddistinto da un mood completamente diverso, esplicato dall’incipit I wanna be forgotten/ And I don’t wanna be reminded della straordinaria What Ever Happened?, a cui fa seguito il ritmato ed irresistibile singolo Reptilia che spopolò nelle discoteche rock dei primi 2000, così come 12:51. Trentatré minuti che, a parte un paio di episodi meno riusciti e pur non possedendo la vitalità dell’esordio – o forse proprio per questo – riescono a mostrarci un lato più umorale e ombroso di Casablancas e soci, che risulta ugualmente irresistibile. E, per un gruppo che non si è mai inventato nulla, non è assolutamente un risultato da poco, tanto è vero che, al netto di qualche pezzo sparso e di un album piacevole come l’ultimo, gli Strokes non sono mai stati capaci di replicare neanche lontanamente i fasti dei primi due album.

DIAPSIQUIR – Lubie Satanique Dépravée

Griffar: Diapsiquir e Blut aus Nord sono strettamente connessi nell’ambito del black metal sperimentale con influenze industrial. The Work Which Transform God è di qualche mese prima ed è l’esordio dei Blut aus Nord nel black sperimentale ma, quando uscì, Lubie Satanique Dépravée era già stato registrato; inoltre i Diapsiquir sono nati con l’intento di suonare musica che, partendo dal black metal, andasse poi in direzioni completamente differenti, mentre i Blut aus Nord sono partiti suonando black ortodosso. Chi ha influenzato chi, allora? Non lo sapremo mai e comunque, ci si creda o no, tutto ciò è possibile grazie all’estrema duttilità del black, il sottogenere del metal meno legato a schemi fissi, quello che più si è ibridato con altre forme musicali pur mantenendo sempre certe caratteristiche basilari. Il primo album dei francesi Diapsiquir consta di 5 brani effettivi di un black strano, obliquo, contorto, frammentato in decine di schegge, con una vena sperimentale qui ancora tenuta in sordina ma che si estremizzerà nei dischi successivi (per i miei gusti indigeribili). La batteria è asettica come spesso capita se si usa la batteria elettronica, e il tutto è ovviamente intenzionale. La voce svaria dal classico screaming al cibernetico/robotico al recitato, i riff sono spesso contaminati dal death sperimentale, e su tutta l’opera aleggia una sensazione di Teatro dell’Assurdo come quella che suscitano i Pensees Nocturne, solo con molta meno melodia classica ad influenzare le composizioni. Lubie Satanique Dépravée è un album stranissimo, uno di quelli che o piace o non piace e, se piace, ogni volta regala emozioni nuove, anche a distanza di vent’anni. È il loro unico disco che sopporto, gli altri sono troppo fuori dagli schemi anche per me, ma, se vi piacciono i Blut aus Nord più sperimentali, anche i Diapsiquir fanno al caso vostro.

ICED EARTH – The Reckoning EP

Cesare Carrozzi: Valley Forge e Hollow Man, che pure non è un granchè, salvano questo EP (e in parte anche il relativo album) dallo schifo totale, posto che The Reckoning e When the Eagle Cries sono al limite dell’ascoltabilità, soprattutto quest’ultima che in versione acustica e quasi peggio dell’originale elettrica. Fantastico l’assolo del compianto Ralph Santolla su Valley Forge, vale l’ascolto anche solo per quello.

TOXIC HOLOCAUST – Evil Never Dies

Marco Belardi: Pensate che Joel Grind, da Portland, Oregon, è un classe 1982 e dunque ha già sfondato il muro dei quaranta. All’epoca il ventunenne e biondo polistrumentista aveva energia da vendere e avviò la carriera dei Toxic Holocaust in un momento in cui necessitavo di questa roba come il pane. C’erano i Dekapitator e c’erano gli Aura Noir, c’erano i Nocturnal Breed ma era latitante l’idea che un giorno la cosiddetta scena sarebbe stata pregna di formazioni tali a queste. Evil Never Dies mi entusiasmò principalmente per questo, per il suo speed and thrash privo di frenate, la sua voce caustica e infernale e per il piglio, l’attitudine, entrambi al posto giusto. Oggi i Toxic Holocaust vantano una discografia enorme, e le one man band thrash metal – Hellripper, Midnight – calcano la terra d’ogni paese come zombi assetati di nuovi turnisti da sbattere su qualche palco e poi licenziare. All’epoca era una novità e qualunque novità l’avremmo gradita, anche se i suoi ingredienti provenivano da non oltre il 1987. Exxxecutioner la mia preferita.

REALM OF CARNIVORA – Verised Relvad

Griffar: Segnalo il ventennale degli estoni Realm of Carnivora principalmente per la collocazione geografica inusuale, giacché a conti fatti di black metal proveniente dall’Estonia ce n’è sempre stato pochissimo, e credo proprio che gli estoni non mastichino granché heavy metal in generale. Però il gruppo ha origine negli ultimi anni del secolo scorso e fino al 2012 ha pubblicato dischi con una certa regolarità, arrivando al non insignificante traguardo di 7 album, 3 EP e un 4-way split. Verised Relvad è il terzo full della loro carriera, e ha svariati punti di contatto con la scena finlandese, terra con la quale l’Estonia è l’unica al mondo a condividere la lingua ugro-finnica. Sarà anche per via di quest’affinità chei Realm of Carnivora sono accostabili ai gruppi finlandesi di seconda, anche terza fascia. Verised Relvad è comunque un discreto album di black metal molto oscuro, a tratti quasi sconfinante nell’occult (Ihast ja neitsilihast, con i suoi effetti simili a uno strumento a fiato quasi magici) e talvolta più accostato al pagan black meno ortodosso, ma principalmente siamo in territori di black metal classico ed abbastanza standardizzato. I brani tuttavia contengono spesso interludi di chitarre non distorte molto ispirati, e non mancano neanche arrangiamenti di archi. I Realm of Carnivora non sono mai lanciati ad alta velocità, non sconvolgono per la magnificenza delle partiture, non saranno sconquassanti o imperdibili, però fanno una discreta figura. Recuperatelo se vi capita, trovate tutta la loro musica qui.

DISBELIEF – Spreading the Rage

Michele Romani: I Disbelief li conobbi in una data romana del 2003 di supporto ai Death Angel, proprio a supporto di questo Spreading the Rage, quinto lavoro di una band che di certo non si può dire fortunata. Forti della loro miscela piuttosto originale tra death, thrash e marcate influenze sludge-post metal un po’ alla Neurosis, il gruppo tedesco sembrava avere tutte le carte in regola per imporsi nella scena metal del nuovo millennio, ma purtroppo l’esplosione di altri generi (power e black) li ha relegati presto nel dimenticatoio. Il disco in questione non è un capolavoro, ma è comunque un ottimo esempio di come fondere il death e thrash metal con parti più rallentate atte a creare atmosfere claustrofobiche, grazie anche alla voce lacerante e a tratti quasi strozzata di Karsten Jager. Il disco ha una registrazione praticamente perfetta e un paio di pezzi notevolissimi come Ethic Instinct e Inside My Head, anche se forse il minutaggio e il numero dei pezzi poteva essere ridotto.

LUCIFUGUM – Социопат: Философия цинизма

Griffar: In caratteri latini il titolo è Sociopath: Philosophy Cynicism, e come è facilmente intuibile è un concept sul malessere mentale. È il settimo album della band ucraina, il secondo da quando Igor Namchuk ne diventò l’unico titolare: anche in questo caso ne scrive tutti i testi e le musiche ma non vi suona neanche una nota, affidando tutto a dei session. Se nel precedente Back to Chopped Down Roots la cosà funzionò mediocremente, qui andò molto meglio, perché il disagio psicologico del quale sono impregnati i testi si riversa pari pari nella musica, con un risultato decisamente migliore rispetto ai lavori più recenti. Le otto canzoni sono una commistione tra un certo riffing lancinante, dissonante e schizoide, come si è talvolta potuto ascoltare nei Deathspell Omega, e il classico black primordiale sporcato dal thrash metal più rozzo proposto dai Lucifugum nel corso della loro carriera. Piccolo aneddoto: i pezzi uscirono senza titolo sia nella prima stampa, uscita solo in cassetta per l’etichetta dello stesso Namchuk (Propaganda records), sia nelle ristampe in CD e vinile delle quali si occupò Blackmetal.com, che evitò di produrre il disco in esclusiva limitandosi ad acquistarne i diritti, visto il flop precedente. In realtà un titolo i brani ce l’hanno (o gli fu dato successivamente, chi lo sa?) e sulla relativa pagina Discogs li trovate. Qui possiamo apprezzare ottimo black metal discretamente feroce, in certi frangenti inusuale, supportato da strani e ispirati riff e suonato da gente meno demotivata rispetto al precedente album. Chi canta ci mette tutta l’anima per sembrare il più possibile schizofrenico, il batterista (già nei Drudkh) conosce il fatto suo, a Lutomysl si affianca un altro chitarrista proveniente dal circuito metalcore ucraino il quale ha senz’altro contribuito a radicalizzare le partiture. Sociopath è uno dei dischi più riusciti della band di Igor Namchuck, qualcosa sul quale vale la pena spendere un po’ di tempo per apprezzarlo come merita. Se poi lo si cerca anche in fisico, su Discogs si trova a pochi spiccioli.

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