Avere vent’anni: CARPATHIAN FOREST – Defending the Throne of Evil

Nordavind era uscito dai Carpathian Forest da circa due anni. È noto che in alcune band, norvegesi e non, estreme e non, convivessero due personalità opposte che hanno fatto la fortuna delle medesime band miscelando ingredienti in contrasto fra loro. Potrei menzionare gli Emperor come i Carpathian Forest. Ho una teoria a riguardo: togli una delle due personalità e romperai il giocattolo; lasciala e una sarà tuttavia molto più importante dell’altra. Il cinquanta e cinquanta non è mai stata la soluzione, ma la rovina. Negli Emperor doveva prevalere Ihsahn di tanto così, ma non in maniera netta come su Prometheus. Nei Carpathian Forest, invece, si è ben capito che Nattefrost da solo poteva solo inscenare un grand guignol a base di dozzinali vomitate sul palco del Wacken Open Air (correva sempre l’anno 2003), interviste a base di “avanti, uccideteci tutti” e tanti, tantissimi abusi. Non dimentichiamo che Nattefrost ebbe problemi con l’eroina oltre che con l’alcool.
Dunque Nordavind non c’era più, anche se in sostanza su Morbid Fascination of Death aveva suonato eccome, e bisognava capire dove sarebbero andati a parare i norvegesi in sua assenza. Considerato che Tchort aveva le mani in pasta dappertutto, fu il bassista Vrangsinn ad acquisire un maggior peso in fase di composizione. E non solo in quella, ad esser sinceri.
In sostanza i due precedenti album dei Carpathian Forest si erano distinti per l’eleganza di Strange Old Brew, una mistura old school con sperimentazioni di ogni genere incluso l’uso del sax, e per il minimalismo frontale di Morbid Fascination of Death, un disco che ancora adesso adoro in modo incondizionato e che non mi vergogno di posizionare al pari di Black Shining Leather e del magico EP che lo precedette, quello del 1995. Che una parte di me ha sempre ritenuto il loro vero apice.
Nel 2003 i Carpathian Forest tentarono di intraprendere una nuova via, e, pur non rinnegando i segnali di thrash primitivo su cui si sarebbe fondato il loro futuro, pubblicarono a distanza ravvicinata due album che si rivelarono tecnicamente agli antipodi. Entrambi non mi piacquero alla loro uscita, per motivi diversissimi.
Defending the Throne of Evil non mi piacque perché ero talmente affezionato a Morbid Fascination of Death che ne pretendevo un successore sulla stessa linea. Fuck You All!!! l’ho trovato brutto fin da principio, poco ispirato, un tentativo di fare caciara da cui appunto fuoriusciva la sola caciara: niente canzoni, niente spunti, niente che si potesse ricollegare all’epoca con Nordavind al fianco dell’altro.
A distanza di vent’anni Defending the Throne of Evil mi piace molto di più, con le sue trame di tastiera e il suo feeling strettamente black metal, diritto eppur altamente atmosferico. Mi piacciono da morire il finale Cold Murderous Music, spinto in direzione delle sperimentazioni di qualche tempo addietro, e l’apertura con It’s Darker Than you Think, ma in linea di massima la sua colpa era solo quella di durare un po’ troppo e di arrivare dopo tre titoli uno più bello dell’altro. Raro caso, questo, di un avere vent’anni in cui risento qualcosa che pensavo di avere del tutto inquadrato e che sorprendentemente riscopro, apprezzandolo in misura maggiore.
Bellissimo il trittico composto da Hymn Til Doden, Ancient Spirits of the Underworld e Spill the Blood of the Lamb, e bellissima The Well of Human Tears. Piacevolissimo riascolto, ma gli album usciti in precedenza restano tuttavia superiori. (Marco Belardi)