Avere vent’anni: marzo 2002

IRON MAIDEN – Rock in Rio
L’Azzeccagarbugli: Rock in Rio è forse l’ultimo grande album dal vivo degli Iron Maiden e assume un valore diverso se considerato al momento della sua uscita rispetto ad oggi. All’epoca costituiva la prima testimonianza dal vivo sia del ritorno del figliol prodigo – che era stato atteso come neanche l’ultimo giorno di scuola al liceo – sia dei Maiden con tre chitarre. Oggi assume valore soprattutto per quanto attiene ai pezzi di Brave New World che hanno ampio spazio nella scaletta e per il ripescaggio di due classici dell’era Blaze come Sign of the Cross e The Clansman, essendo il resto della scaletta un – sempre gradito – greatest hits. Al di là di queste annotazioni, Rock in Rio, soprattutto nella sua versione “video” con tanto di arrivo in elicottero pilotato da Bruce, resta un live pazzesco: la band è in palla, suona davanti a trecento miliardi di brasiliani che cantano e gridano come degli ossessi, Dickinson è un mattatore assoluto, la selezione di pezzi da Brave New World è ottima – manca giusto la bella e sottovalutata The Thin Line Between Love and Hate – e i classici sono eseguiti alla perfezione, in particolare una cazzutissima Wratchild. Non sarà Live After Dead, ma resta un album strepitoso.
ELECTRIC WIZARD – Let Us Prey
Stefano Greco: Let Us Prey è il disco dimenticato degli Electric Wizard, derubricato dai più come prescindibile e schiacciato tra il picco inarrivabile di Dopethrone e quella che sarà la fase due del gruppo (quella, se vogliamo, più abbordabile). L’ultimo album della formazione “classica” a tre Oborn/Greening/Bagshaw esce in un periodo turbolento del gruppo ed è quello che detiene il record dei pezzi meno su suonati dal vivo (solo le poche date a supporto del tour specifico, poi mai più ripreso). È un disco brutto? Ma proprio per niente, anzi, non solo è bello ma è anche uno di quei lavori che ci ricorda come, pure all’interno delle carriere più immobili o monolitiche, ci siano poi movimenti, prove, esperimenti, eccetera. E che il generico “fanno tutti dischi uguali” con cui alle volte ci limitiamo a commentare è vero fino ad un certo punto. Let Us Prey sono gli EW a più alto fattore pissichedelico, le chitarre sono stratificate, c’è il pezzo atmosferico con tastiere e viola (Night of the Shape – stupenda) e pure la novità assoluta del brano veloce. Poi ovviamente ci sono anche e soprattutto elementi di contiguità: jam interminabili, linee vocali appena percettibili e la solita abbondanza di droga, puttane e Satana. I riferimenti sono sempre quelli, al punto che …A Chosen Few è quasi omonima della The Chosen Few che apparirà nella loro discografia poco più avanti (chiamare pezzi nella stessa maniera è un buon certificato di poca lucidità, qui il primo premio va però ai Saint Vitus autori di due album omonimi). Da notare la copertina ad opera della concorrenza di Stephen O’Malley, il cui stile, vedi anche Endtyme dei Cathedral, per un breve momento è sembrato incarnare più di ogni altro l’iconografia dell’etichetta di Lee Dorrian. Nella ristampa per una volta bella pure la bonus track. Imperdibile e/o da riscoprire.

NECROPHOBIC- Bloodhymns
Griffar: È strano a dirsi e si fa pure fatica a crederci, ma i Necrophobic sono un gruppo piuttosto sottovalutato, in confronto a gente storica quanto loro. Tipo, ‘sti bastardi sono in giro da più di trent’anni, mica patatine. In questo lasso di tempo hanno pubblicato solo 9 full length: paragonandoli con gente che esiste da un terzo del tempo si potrebbe quasi dire che hanno battuto la fiacca, ma i Necrophobic hanno sempre preferito la qualità alla quantità, tanto che non se ne ricordano episodi insufficienti. Bloodhymns fu uno dei dischi più belli del 2002, eppure se chiedete in giro a gentaglia della mia età probabilmente nessuno lo metterà in lista. Perché? Per pura e semplice dimenticanza, perché quando poi gli chiedi: ”I Necrophobic no?” la risposta sarà la classica “minchia sì, oh hai troppo ragione bella zio, oh, Necrophobic spacca troooppo di bruuuutto, come ho fatto a oh non pensarci oh” e comunque non saranno in grado di dirti il titolo dell’album. La loro sfortuna è quella di non aver mai fatto eccessivamente breccia nel cuore dei metallari, con tutto che David Parland era un rompipalle al quadrato (in questo disco non ci suona, comunque) e questo lo sanno tutti, tanto che ci hanno ironizzato sopra in milioni su questa sua attitudine da true-nekro-evil-ce-l’ho-duro-come-il-marmo. La loro musica è sempre stata un misto tra il death melodico svedese con i coglioni fumanti ed il black metal di conterranei tipo Sacramentum, Noctem, Allegiance fino ai Dissection: Bloodhymns è probabilmente il loro disco più in stile Dissection, quello che più viene influenzato dalle trame del Maligno, il classico assalto frontale che non concede respiro, i canonici tre quarti d’ora ideali per un disco trituraossa che voglia definirsi pienamente tale. Gli intrecci di chitarra sono sensazionali, e non uso questo aggettivo a caso. La voce è luciferina, e nemmeno questo aggettivo è messo a casaccio, la sezione ritmica una macchina da guerra per potenza e precisione. Registrazione, suoni e produzione sono una lezione per chi vuole imparare a produrre un gruppo di metal estremo in modo sublime, penso sarebbe impossibile fare di meglio. Ogni traccia, ogni linea è semplicemente, puramente perfetta. Dieci brani, dieci calci nei coglioni, quarantacinque minuti di musica che volano via e che farebbero pogare persino un melomane. Ovvio che consiglio a tutti di andare ad ascoltarlo come si deve, probabilmente direte anche voi Cazzo, Griffar ha ragione, ‘sto disco spacca di brutto ma poi, non si sa bene perché, ve ne dimenticherete pure voi.
THEATRE OF TRAGEDY – Assembly
Michele Romani: Che i Theatre of Tragedy non abbiano mai avuto paura di rischiare e sperimentare nel corso della loro carriera è cosa nota. Dopo i primi due dischi nel classico stile beauty and the beast (che praticamente hanno inventato loro), il sestetto norvegese già col capolavoro Aegis aveva cambiato rotta, con l’abbandono quasi totale del growl e con una distorsione delle chitarre notevolmente ridotta, lasciandosi alle spalle il gothic doom dei lavori precedenti. La vera svolta però c’è stata con Musique ma soprattutto con questo Assembly, disco che ad alcuni è piaciuto ma che per altri è stata una vera e propria pietra dello scandalo. Se col primo ancora qualche minima parvenza del classico stile TOT si intravedeva, con il secondo Liv Kristine e compagni cambiano proprio completamente le carte in tavola, dando vita ad un miscuglio del tutto particolare tra pop, industrial e musica elettronica. La durata dei brani si riduce ancora e risultano ultraimmediati basandosi sul classico stile strofa-ritornello, ed il risultato alla fine non è neanche così malvagio. Certo, chi si trastullava il piffero immaginandosi Liv Kristine nuda con la sua voce angelica declamare le donne della mitologia greca in inglese arcaico rimarrà tramortito nel sentire sta roba, ma resta il fatto che alla fine Assembly resta un disco coraggioso e per nulla banale, con qualche pezzo di notevolissima fattura come l’opener Automatic Lover, Flickerlight e Let you Down.
NECROPLASMA – My Hearse, My Redemption
Griffar: Nervoso, iperfrenetico fast black metal svedese, oscuro e trve-nekro-evil, accostabile a grossi calibri come Gorgoroth e DarkThrone in primis e, per la furia continua, cieca e senza compromessi, alle versioni rivedute e corrette negli Stati Uniti di questo tipo di suoni, ben rappresentate da Krieg e Judas Iscariot. Il riffing è costantemente alla massima velocità, con poche note vibrate in monocorda che restituiscono quella caratteristica tempestosità di bufere di vento e raffiche di neve a tormenta. My Hearse, My Redemption è il primo dei due album che hanno fatto, benché la loro discografia sia rimpolpata da un cospicuo numero di split, un EP da soli, quattro demo (pubblicati non solo agli inizi della carriera ma anche quando questa era già ben avviata) e un paio di raccolte. Quattordici titoli in sette anni, con musica sempre stata impostata sulla violenza più furente sebbene quasi orecchiabile, vista la semplicità e lo scorrere lineare delle trame dei pezzi. Sono quasi impossibili da memorizzare ma un senso ce l’hanno eccome, un po’ come quelle di Octinomos che però hanno un responso sonoro completamente diverso. Inoltre hanno sempre dato grande spazio alla sezione ritmica tenendo il basso in bell’evidenza, anche se registrazione e cristallinità dei suoni non erano certo una loro fissazione. Anzi, aver mantenuto un demo-sound più low-fi che si riusciva li ha fatti apprezzare da molti blackster che adorano il suono intransigente senza compromessi e che li ha elevati a gruppo di culto. Chi non digerisce particolarmente questo tipo di musica probabilmente li troverà monotoni: in effetti la diversificazione dei brani non è una loro priorità, tutto il disco è una specie di blocco unico che si affronta come si farebbe trovandosi in alta montagna quando un’improvvisa bufera ti coglie di sorpresa, ancora lontani da un possibile rifugio: testa alta, petto in fuori, niente coglioni niente gloria. Per quanto mi riguarda sono stati un gruppo degno della massima stima e considerazione. La loro corsa a perdifiato s’interruppe bruscamente nel 2006 col secondo ed ultimo disco Sit Gloria Domini in Sæcvlvm, poco prima che il cantante/chitarrista e principale compositore Priestor Af Hellgoat passasse a miglior vita a causa di un collasso renale e portasse con sé nella tomba anche il gruppo. Era il 2008 e non aveva nemmeno 40 anni.
GRAVE DIGGER –Tunes of Wacken
Barg: Da poco orfani di Uwe Lulis e Tomi Goettlich, che nel frattempo avevano fondato i Rebellion e avevano esordito con quel capolavoro di Macbeth, i Grave Digger ripartono dal pubblico oceanico del Wacken per una dichiarazione d’intenti con cui iniziare una nuova era. Manni Schmidt (ex Rage) alla chitarra, Jens Becker (ex Running Wild) al basso e si riparte di slancio, o almeno questa era l’intenzione. Non andrà benissimo, considerata la qualità dei loro dischi post-2000 con quelli degli anni Novanta, ma almeno Tunes of Wacken è un live album coi controcazzi, sia nella versione audio che in DVD. La scaletta è sbilanciata sul quasi omonimo disco scozzese del 1996 e nel complesso dà le sue soddisfazioni, con un suono nitido e potente e un’ottima prova dei nuovi musicisti. L’attacco di Scotland United è una bordata di quelle che ti ricordi a vita, The Ballad of Mary è quasi meglio della versione in studio e la resa live di Rebellion è il loro equivalente di Fear of the Dark su A Real Live One per i Maiden. Tunes of Wacken è il giusto commiato per un gruppo che fu grande e che, di lì a pochissimo, non lo sarebbe più stato. Vederli per un’ultima volta in ottima forma a scapocciare su Heavy Metal Breakdown, stagliati contro il cielo nuvoloso di Wacken, gli rende la giustizia che meritano.
MASTER – Let’s Start a War
Marco Belardi: Paul Speckmann all’epoca delle Torri Gemelle doveva avere un casino nella testa che nemmeno Ted Kaczynski (alias Unabomber). Fuggì dagli Stati Uniti in direzione Repubblica Ceca e reclutò due turnisti d’eccezione, rispettivamente il chitarrista e il batterista dei Krabathor. Con gli stessi Krabathor incise pure due album, nulla a che vedere con la roba incisa nel corso degli anni Novanta. Non solo, costrinse questi due tizi dei Krabathor a firmarsi Ronald Reagan e Harry Truman all’interno della formazione che avrebbe registrato il provocatorio, anticonformista e bellicoso, oltre che antiamericanissimo album dei Master. Let’s Start a War. La risposta statunitense non furono FBI e missili intercontinentali in rotta con la base operativa dei Master: fu, naturalmente, il completo e tassativo ignorare Paul Speckmann. Let’s Start a War non fu nemmeno un bruttissimo album. Ne ricordo Purchase a New Handgun, giochino blues di quasi cinque minuti, e l’ossessivo ricercare, da parte di Speckmann, il groove e il concetto di catchy che altrove era riuscito benissimo agli Entombed. Prime mover minore del death metal al fianco di Becerra e Schuldiner, Paul Speckmann era in fuga non da un continente ma da quello stesso genere musicale intero che egli stesso sarebbe tornato a riproporci di lì a poco, con la coda fra le gambe, con una line-up ulteriormente azzerata e con dischi finalmente in linea col desiderio dei (tre più il sottoscritto) fan del gruppo. Disco piuttosto insignificante ma contenente una discreta cover dei Nazareth, Miss Misery, e una coppiola d’apertura degna di qualche bella scapocciata.
HOUWITSER – Rage inside the Womb
Griffar: Una scarica a pallettoni sparata a bruciapelo in pieno viso, o se preferite un assalto all’arma bianca con l’unico scopo di uccidere… ma non subito, prima la vittima deve agonizzare un po’, mentre l’assassino immortala la carneficina sul suo cellulare per poi riguardarsi la sua fatica con più calma in seguito. Questo è Rage inside the Womb degli olandesi Houwitser, veterani della scena brutal death europea giunti nel 2002 alla loro terza prova, la loro migliore in una carriera ultratrentennale (figurano ancora attivi ma l’ultimo disco è del 2010) che in tutto conta cinque dischi soltanto (più un paio di EP). Diversamente dai loro colleghi americani i suoni sono molto meno compressi e per questo i brani sono spaventosamente più semplici da seguire, più fluenti e, perché no? più violenti ancora. Stordire l’ascoltatore con un muro di suono del quale si capisce poco o nulla non è sinonimo di violenza, al massimo egli si annoia e perde attenzione: in questo caso la band ha perso, e il suo scopo di annichilire non è stato raggiunto. Non è il caso degli Houwitser, che sono anche distanti dai tecnicismi estremi dei loro conterranei Disavowed e Pyaemia; se si debbono per forza trovare delle somiglianze io direi i primi Sinister, quelli di Cross the Styx e Diabolical Summoning, che sono due perle mica da ridere. I dieci brani sono dieci fendenti letali per l’apparato uditivo, brevi, asciutti, diretti come una pugnalata e tutti assieme durano appena trentuno minuti. Un massacro di straordinario impatto, quanto di meglio si possa ascoltare nel genere. Per darvi un’idea, Rage inside the Womb (immortale anche la cattivissima copertina con i due demoni-bambini nel ventre della bestia loro progenitrice) fa letteralmente sparire tutta la discografia più recente dei Cannibal Corpse, Violence Unimagined compreso che sembrava fosse chissà quale miracolo ed invece (ma io l’avevo detto) è passato come un alito di vento d’estate. Solo che i Cannibal Corpse sono delle rockstar, gli Houwitser no. Non c’è giustizia a questo mondo.
HYPOCRISY – Catch 22
L’Azzeccagarbugli: Catch 22 è forse l’ultimo disco in cui gli Hypocrisy hanno tentato di fare qualcosa di diverso nel contesto della costante evoluzione che ne aveva contraddistinto la carriera fino a quel momento. Se il precedente Into The Abyss era il loro lavoro più vecchio stile da diverso tempo, Catch 22 era il loro album più contemporaneo. Un disco che ingloba suoni vicini a produzioni di tutt’altro genere, composizioni basate su riff thrashettoni in cui si inseriscono momenti quasi pop, figli dell’esperienza nei Pain di Peter Tägtgren. Ed è proprio nei momenti più melodici o comunque orecchiabili che l’album risulta essere maggiormente convincente, come nella bellissima doppietta Destroyed / Edge of Madness o Turn The Page in cui si inseriscono sonorità quasi nu metal. Un gran bel disco che lasciava intravedere un’ulteriore progresso per l’evoluzione per gli Hypocrisy che, invece, si è inaspettatamente interrotta con il successivo, classicissimo e mediocre The Arrival.
BEFORE THE DAWN – Gehenna
Barg: Con Gehenna inizia la storia dei Before the Dawn, piccola e originale gemma della scena finlandese autrice di alcuni dischi splendidi e che arriverà a parziale notorietà solo con gli ultimi dischi, purtroppo i meno significativi. È il primo gruppo di Tuomas Saukkonen, iperattivo cantante e polistrumentista che poi sarà protagonista di una quantità di altri progetti, spesso molto interessanti, tra cui Wolfheart, Dawn of Solace e Black Sun Aeon. Questo EP anticipa lo stile che poi svilupperanno più compiutamente in seguito: ritmiche quadratissime, alternanza tra growl e pulito, atmosfere disperanti, strofe claustrofobiche che si aprono in ritornelli ariosi ma sempre estremamente malinconici. Questi elementi non sono tutti presenti nel qui presente Gehenna, però si percepiscono in nuce, quantomeno a posteriori. Rimane un esordio molto acerbo e per molti versi trascurabile, e bisognerà aspettare il primo full My Darkness del 2003 affinché i Nostri inizino a fare veramente sul serio.
COUNTESS – The Revenge of the Horned One Part II
Griffar: Parlando del predecessore The Revenge of the Horned One Part I l’anno scorso avevo già avuto modo di raccontare come Orlok, l’olandese folle mentore di tutto quanto il progetto Countess, fosse uno dei figliocci prediletti di BlackGoat e di conseguenza punta di diamante della Barbarian Wrath records. Un metallaro a 360 gradi non poteva che instaurare un rapporto di fratellanza con un suo consimile quale Orlok, dandogli carta bianca su tutto quanto concerne il processo artistico del progetto. Questo in esame è il seguito del disco dell’anno prima e sfortunatamente non ne pareggia il livello. In realtà l’impressione che alcuni dei pezzi che compaiono qui siano materiale che in precedenza non era stato considerato sufficientemente valido da essere incluso nel primo capitolo si fa largo man mano che il CD va avanti. L’iniziale Behold my Wrath, Praise of Immorality, On Armageddeon’s Battlefield oppure My Pain is my Glory sembrano composizioni più recenti, mentre svariate altre hanno un incedere molto meno possente e dinamico e ne deriva l’impressione di qualcosa meno recente ripescato per l’occasione. Sembrano proprio scritti in momenti diversi quando l’ispirazione creativa era volta verso cose diverse. Come il suo stretto predecessore il disco è black metal fortemente ispirato da tutti i gruppi protoblack che vi vengono in mente, dai Bathory ai Venom agli Hellhammer, con in più sentori di speed metal estremizzato e divagazioni nell’epico/maestoso (i tredici minuti di The Legend of the Fall a riprova) che rendono il prodotto gradevole per chiunque si interessi anche solo lontanamente al metallo oscuro e satanico. Ciò detto almeno un paio di brani si potevano lasciare nel cassetto, e almeno un quarto d’ora in meno non avrebbe guastato (Tyrant of the Motorway, ad esempio, è proprio robetta da niente) e nel complesso questo secondo capitolo non è al livello del primo, manca di coesione, di eterogeneità. Sempre divertenti quando si vuole ascoltare black metal marcio così fottutamente retrò, ma in generale un piccolo passo indietro. Poco male: dopo due anni è uscito Heilig Vuur, il loro capolavoro, e tutte le non immotivate critiche furono giustamente dimenticate.
SACRED STEEL – Slaughter Prophecy
Barg: Esistono dei gruppi che definiscono cosa è metal e cosa non lo è. I Sacred Steel rientrano perfettamente nel suddetto insieme, col corollario che se non ti piacciono probabilmente non ti piace neanche il metal. Per carità, ti possono piacere un sacco di altre cose, ad esempio i My Little Pony o le Lelly Kelly (le tue scarpine oh yeh), ma il metal proprio no, mi spiace. I Sacred Steel sono talmente METAL che vanno dritti al punto senza curarsi più di tanto di dettagli inutili come una voce intonata o un po’ di respiro tra un pezzo e l’altro: la loro discografia è un ininterrotta e incessante scarica di calci in bocca e di atmosfere ispirate alla truculenta sword & sorcery lovecraftiana da Weird Tales. Slaughter Prophecy poi è uno dei loro album più riusciti, un blocco di cemento armato che ti cade in faccia dal sesto piano, una dichiarazione di guerra di un re barbaro il cui unico desiderio nella vita è sterminare la gente e offrirla in sacrificio a qualche orribile divinità ctonia. I Sacred Steel sono talmente senza compromessi che in pochissimi li hanno presi davvero sul serio: c’è sempre tempo per colmare la lacuna e passare così dalla parte della ragione.
ENTHRONING SILENCE – Unnamed Quintessence of Grimness
Michele Romani: Unnamed Quintessence of Grimness degli alessandrini Enthroning Silence resta una delle migliori uscite in ambito black metal relative ai primi anni 2000, una piccola gemma che, nonostante fosse uscita per l’abbastanza nota ai tempi Sombre Records, rimase relegata ad un dimensione puramente underground. Il genere proposto è un classico depressive black metal, quindi partiamo subito dall’assunto che prima di spararsi ‘sto disco nelle cuffie bisogna essere mentalmente predisposti, nel senso che più si è presi male più si apprezzerà un lavoro simile. Per il resto UQOF racchiude in sé tutte le caratteristiche tipiche di questo genere, quindi ritmiche ossessive e angoscianti con riff ripetuti allo sfinimento… qualcuno li ha definiti addirittura gli Abyssic Hate italiani e devo dire che il paragone ci sta tutto: le atmosfere e quel tipico mood claustrofobico ricordano moltissimo Suicidial Emotions, a cui si aggiungono echi del primissimo Conte e il Nargaroth di dischi come Geliebte des Regens. Unico appunto: la produzione sarebbe potuta uscire meglio, dato che la batteria suona un po’ finta e l’effetto zanzaroso all’inverosimile delle chitarre dopo un po’ tende a infastidire, ma per il resto si tratta di una gemma dimenticata assolutamente da riscoprire.
CENTINEX – Diabolical Desolation
Griffar: Mi è sempre piaciuta la musica che suonavano i vecchi Centinex. Anche se è impossibile dare torto a chi dice che erano la copia carbone dei Dismember, i loro dischi contenevano sempre bei pezzi, in taluni casi persino superiori a quelli della loro fonte d’ispirazione. Sì, magari in qualche occasione hanno svisato un po’ a casaccio incorporando piccole influenze black metal o di certo speed metal teutonico fino agli intrecci chitarristici NWOBHM, ma il loro faro è sempre stata la band di Fred Estby. Non c’è nulla che non va, anche gli Entrails clonano i Dismember e nessuno pare abbia nulla da ridire, forse perché i Dismember non esistono più; se non altro i Centinex hanno iniziato a suonare nei primi anni ’90, quando il death svedese era ancora vicino ai suoi apici e c’era posto per tutti, pure per chi non ha mai fatto dell’originalità la sua arma vincente. Diabolical Desolation è il sesto album, cui si accompagnano una miriade di EP, demo, collaborazioni e via discorrendo. Di tutta la produzione passata è il più melodico e quello nel quale vengono azzardati persino arrangiamenti di tastiera – cosa che i Dismember mai avrebbero fatto, a dimostrazione che essere considerati dei puri e semplici cloni un po’ gli faceva girare le palle – e duetti di chitarra gustosi e godibili tipo cose fatte da Ablaze my Sorrow o Gates of Ishtar, quantunque il marchio di fabbrica rimanga sempre delineato su sonorità proprie dei fratelli maggiori. Il disco parte bello carico ed energico con il trittico iniziale, poi cala un pochino e l’intensità scema per emergere in modo più frammentario, per poi ritornare prepotente sul finire dell’album con due pezzi di nuovo cattivi e coinvolgenti quanto basta. Forse una decina di minuti in meno (dei cinquanta scarsi totali) avrebbero giovato al risultato finale, ma complessivamente anche Diabolical Desolation è un valido capitolo in una discografia che, almeno nei tempi remoti di cui si parla qui in Avere vent’anni, punti deboli non ne ha. Per trovare un loro disco non granché bisognerà aspettare il 2005 con quel World Declension che in pratica li proiettò verso lo scioglimento, dovuto anche al fatto che in quegli anni lo swedish death oramai interessava a pochissimi. I dischi del post-reunion a me non hanno detto nulla, li ho ascoltati pochissimo per cui non so dire se siano al livello dei vecchi. Ma su questi ultimi si va a colpo sicuro.
SILVERCHAIR – Diorama
Barg: I Silverchair erano adolescenti quando debuttarono nel 1995 con Frogstomp, un disco di imitazione del suono grunge nirvaniano che all’epoca andava ancora parecchio di moda. Il disco era molto ispirato e loro erano anche bellocci, quindi diventarono improvvisamente famosissimi e due anni dopo fecero uscire Freak Show, ancora più ispirato del predecessore, diventando ufficialmente gli eredi dei Nirvana (definizione stupidissima e ovviamente non veritiera, ma così venivano passati dai mass media). Nel frattempo però diventarono adulti, l’aura di bei ragazzini maledetti gli iniziava ad andare stretta e quindi cercarono a tutti i costi di maturare, evolvere e sviluppare un suono più personale. Il risultato si poteva già vedere nel terzo Neon Ballroom, dischetto pieno di ballate lagnose che cercava disperatamente di smarcarsi dall’eredità di Kurt Cobain, ma è con questo Diorama che la cosa esplose: il loro nuovo suono alla fine si rivelò essere un rockettino pomposo e pretenzioso pieno di orchestrazioni, afflati operistici, fascinazioni beatlesiane periodo Sgt. Pepper e quant’altro di peggio possa venirvi in mente per un gruppo di ragazzotti australiani diventati famosi per essere una versione facilona dei Nirvana. L’esperimento fallì, loro fortunatamente subito dopo scomparvero e, a parte un disco uscito nel 2007, non se ne è sentito più parlare.
Gran disco Bloodhymns, veramente una mazzata sui denti. Doveroso l’encomio.
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Rock in Rio è stato il mio battesimo al mondo del metal. Avrà sempre un posticino speciale nel mio cuore.
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Iron Maiden – Rock in Rio: concordo su tutto. Pur non disdegnando Sign of the Cross cantata dal Dickinson, preferisco quella sul disco in studio con la voce di Blaze Bayley. Vabbé, tutta la mia cricca mi dava del cialtrone perché apprezzavo The X Factor ma è uno dei dischi degli Iron Maiden che preferisco e continuo a pensare che sia uno dei dischi più sottovalutati della storia.
Nocte Obducta – Galgendämmerung: bello, bello, bello. Quanto ho amato i Nocte Obducta… amati alla follia sino a Sequenzen einer Wanderung. Ricordo che cominciai ad ascoltarli dopo aver letto la recensione di Stille, dove chi scriveva del disco pareva avesse avuto un orgasmo. Non aveva torto.
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